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Nino Lisi (*)

A MARGINE DELL'INCONTRO DI TEANO L'ITALIA FATTA E DISFATTA

Adista n. 87/2010

Tra il 23 e il 26 ottobre, in occasione del 150° anniversario dell’incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele che ha sancito la nascita dell’Italia, si è svolto l’incontro nazionale “A Teano diamoci una mano per ricostruire l’Unità d’Italia”. Proponiamo una riflessione di Nino Lisi, a margine dell’evento promosso da diversi organismi della società civile per stringere un nuovo patto tra gli italiani, tra il Nord e il Sud e tra le nuove e le vecchie generazioni, per “costruire un’altra Italia di cui andare orgogliosi”.

L’Italia, come Stato-nazione, compie 150 anni. Oggi, dopo un secolo e mezzo, ci si interroga su come contrastare il rischio di una “secessione morbida” e “su dove andrà a finire il nostro Paese”.

Dalla Lega Nord arrivano segnali che fanno temere una deriva preoccupante, non tanto per il fatto in sé – poiché non v’è sacralizzazione dello Stato e della nazione che tenga, di tutto si può discutere e tutto può essere laicamente messo in discussione – ma perché le sue rivendicazioni si basano su una chiusura localistica regressiva e xenofoba, che altrove ha portato ad esiti devastanti e nefasti.

Nel Mezzogiorno, per reazione, serpeggiano tensioni analoghe ma di segno ovviamente opposto. Non molti giorni fa, al Politeama di Palermo, il sottosegretario Micciché ha lanciato un appello per coagularle. Se l’appello avesse successo la situazione si aggraverebbe in primo luogo per il Mezzogiorno, che di tutto ha bisogno fuorché di localismo e di chiusure regressive.

Da una secessione non ci guadagnerebbe alcuno, alla lunga nemmeno il Nord; e il Sud ci rimetterebbe di più e subito. Non è comunque opponendo la “questione meridionale” alla “questione settentrionale” che si risolvono l’una e l’altra e si arginano derive secessionistiche, ma neppure rivendicando il “grande contributo di sangue, braccia e cervelli che hanno dato i meridionali” alla vita nazionale e il “ruolo dei professionisti e dei quadri tecnici formatisi nelle università meridionali e diventati dirigente distribuita in tutte le Regioni” (T. Perna e P. Bevilacqua, Carta n. 37). Sono rivendicazioni che potrebbero allungarsi a dismisura, ma non alleviano i disagi dell’oggi e non rimuovono e nemmeno riducono l’intrico dei problemi che sono alla base delle tensioni di cui Lega Nord e Micciché, ciascuno per la sua parte, sono espressione.

Può essere stato bello aver fatto incontrare a Teano – come è scritto sul blog di Brigantimigranti – “i sindaci di tante città del Nord e del Sud, molti rappresentanti delle istituzioni e di prestigiosi enti storici, culturali”. Può essere stato utile avervi promosso incontri e confronti tra esperienze e storie diverse accomunate nel “sogno” di un’Italia diversa. Ma per “segnare una svolta nella vita e nella storia di una comunità e di un intero Paese” – come si aspira a fare – ci vuole altro: bisogna aggredire alla base sia la questione settentrionale sia l’ormai obliata questione meridionale. Questioni che, a ben guardare, hanno origine ambedue da due tratti essenziali del processo di unificazione: un fortissimo segno di e la conquista/annessione da parte di uno Stato preesistente.

L’unità d’Italia è nata con un fortissimo segno di Fu la borghesia, l’alta borghesia del Paese che ne volle l’unificazione in un solo Stato. Quelle che oggi vanno sotto i nomi di medie e di masse popolari ne restarono estranee e lo Stato unitario già alla sua origine represse le rivendicazioni delle popolazioni con cannonate sugli operai del Nord e fucilate sui contadini del Sud. Non vale a smentire questo assunto che successivamente Mussolini abbia definito la “sua” Italia “proletaria e fascista”, perché è ben noto che il fascismo sia stato finanziato dall’alta borghesia agraria e industriale affinché facesse da argine al “pericolo rosso”, cosa che il fascismo ha fatto strumentalizzando appunto ceti medi e popolare. Qui si sfiora una nota controversia: se il fascismo abbia costituito una discontinuità rispetto al processo di unificazione o ne abbia costituito uno sbocco coerente con le sue origini. E si sfiora anche un’altra questione dibattuta: se la Resistenza abbia segnato il compimento del Risorgimento o, essa sì, abbia costituito una discontinuità nel processo di formazione e di consolidamento dello Stato.

A mio avviso ha segnato una discontinuità che ha lasciato un segno significativo nella Carta Costituzionale, che però è risultato assai attutito nella costituzione materiale, perché nel 1948 fu eretta ancora una volta una diga contro “il pericolo rosso”. In essa De Gasperi impegnò anche le masse popolari cattoliche: portate a superare lo “storico steccato” che le aveva estraniate dallo Stato, ve le pose a difesa. Parallelamente Togliatti e Nenni impegnarono la masse popolari comuniste e socialiste a difesa della “Costituzione sorta dalla Resistenza”. Ne risultò che le masse popolari fecero il loro ingresso nello Stato, divenuto repubblicano, ma divise e contrapposte.

Instauratosi per i noti motivi di carattere internazionale un “regime di democrazia bloccata”, le istanze delle masse popolari venivano prese in considerazione solo a prezzo di grandi lotte, che costarono la vita a non pochi.

Dalla dissoluzione del sistema politico conseguente alla caduta del muro di Berlino è sorto il berlusconismo che ha aperto una contraddizione in seno alla borghesia, ma non ha allentato il segno di Anzi. Nel contempo la piccola borghesia, i ceti medi e le masse popolari si sono trovati privi delle sponde politiche alle quali avevano fatto tradizionalmente riferimento.

Questo per un verso. Per l’altro, l’annessione/conquista che ha portato all’unificazione del Paese in un solo Stato è avvenuta cooptando le oligarchie locali all’interno di quello che Guido D’Orso ha denominato il “compromesso sabaudo” e ponendole a presidio del consolidamento istituzionale, cioè a servizio della dominante. Le potenzialità di un Paese dalle cento città e dalle tante storie, tradizioni, lingue e dialetti sono state così, dove più dove meno, mortificate, perché fatta l’Italia dall’alto si sono dovuti fare anche gli Italiani ed a questo scopo occorreva un assetto statuale fortemente centralizzato che non ha lasciato spazio alle specificità locali.

Tutto ciò ha tenuto fin quando la globalizzazione non ha rotto gli equilibri economici e sociali sui quali il sistema unitario si era basato. Le ragioni che collegavano complessivamente gli interessi delle piccole e medie imprese con quelli delle grandi (che progressivamente si sono andate trasformando in multinazionali ed in transnazionali) sono risultate compromesse; l’economia delle Regioni meridionali, che non è riuscita a raggiungere un sufficiente livello di autonomia, non è più risultata funzionale a quella delle Regioni settentrionali, che l’avvertono quindi non più come un’opportunità ma come un ostacolo.

La Lega Nord e Miccichè (nel suo piccolo) sono espressione di questi problemi, che sono reali e gravi. Mi sembra quindi evidente che l’unità d’Italia per non vederla disfatta bisogna rifarla: vanno costruiti cioè assetti sia economici, sia sociali, sia politici che tengano finalmente conto della specificità delle comunità locali e dei diversi territori. È su questo che va stipulato un “patto” rifondativo.

Occorre allora porsi alcune domande. è possibile provare a rifondare l’unità dell’Italia escludendo qualcuno e in particolare coloro che, pur muovendo da posizioni criticabili quanto si voglia e proponendo prospettive non condivisibili, sono tuttavia espressione di disagi che scaturiscono da problemi reali ormai ineludibili? Per salvaguardare l’unità nazionale e statuale serve porsi in contrapposizione con chi è portatore di interessi legittimi che, se giustamente incanalati, potrebbero dare un apporto importante alla costruzione dell’Italia che vorremmo? E a cosa porterebbe questa contrapposizione: ad una prova di forza? Se no, a che?

Io non ho risposte precise e definitive a queste domande. Penso però che vadano cercate, e presto, per non ripetere l’errore in cui incorse il Pci quando non solo non offrì una sponda ai movimenti del ’68 e degli anni Settanta, ma li contrastò. L’esito fu tragico.

 

* Pubblicista, membro del Consiglio direttivo del Centro Studi Federico Caffè di Roma