Luigi Sandri GERUSALEMME, CITTÀ SANTA E LACERATA Adista n. 82/2010 Mi sta a cuore Penso non possa esistere, al mondo, una persona alla quale non stia a cuore Gerusalemme: e questo per la semplice ragione che, con il grumo di nodi geopolitici, storici e religiosi che gravano su di essa, le sorti della pace o della guerra – implicante non solo il Medio Oriente, ma l’intero pianeta – sono legate proprio al fatto se nella “Città santa” vi sarà pace o guerra. Ho, tuttavia, dei motivi specifici che mi rendono particolarmente attento a quanto accade in quella città, alla sua realtà, alla sua storia e al suo destino; e perciò posso dire non solo che Gerusalemme mi sta a cuore, ma che essa mi pesa sul cuore. La ragione di questo mio inscindibile e (spero) indistruttibile legame deriva da questo: negli anni ’90 ho trascorso parte della mia vita professionale di giornalista come corrispondente dell’Ansa in Israele e nei Territori palestinesi occupati. «Studiare» dunque Gerusalemme – la sintesi delle speranze, delle tragedie, delle contraddizioni e dei sogni di quella regione – faceva parte del mio lavoro di ogni giorno. Questo ha comportato il dovere di tentare di conoscere più a fondo la storia della “Città santa” e, dunque, la genesi, lo sviluppo e le possibili soluzioni del conflitto israelo-palestinese che proprio sul «se» e sul «come» condividere Yerushalaim-al Quds vede le parti in causa, per ora, su posizioni inconciliabili. Su tale ginepraio di problemi si sono chinati diplomatici, statisti, politici e profeti, suggerendo via via, nei decenni, ipotesi per una pace giusta; ma, finora, invano. Non pretendo perciò di avere la bacchetta magica per sciogliere tale nodo gordiano. Ciò premesso, ritengo sia compito di chiunque voglia, con le sue possibilità e con i suoi limiti, dare un contributo per la pace a e su Gerusalemme, dire apertamente alcune parole. La prima è che quell’unicum che è Gerusalemme, per i legami che essa ha con ebrei, cristiani e musulmani, e per il suo significato universale, deve spingere il Governo israeliano e l’Autorità nazionale palestinese ad affrontare la questione – naturalmente, nell’àmbito delle risoluzioni e deliberazioni delle Nazioni Unite – consapevoli (non solo a parole, si intende) di questa vocazione straordinaria della città. La seconda è quella di proclamare l’inammissibilità, politica e morale, della sovranità israeliana sull’intera città, Ovest ed Est. I palestinesi hanno il diritto che la parte orientale della città diventi la capitale del loro costituendo Stato. La terza è che proprio l’assoluta originalità e complessità di Gerusalemme richiede che le due Parti ora in conflitto si accordino, nel quadro dell’Onu, per trovare una soluzione tale che la “Città vecchia” e i maggiori Luoghi santi ebraici, cristiani e musulmani passano essere da tutti liberamente visitati, o perché affidati ad un’autorità internazionale, o perché sotto la sovranità israeliana alcuni, palestinese altri, ma in un contesto di feconda collaborazione che non intralci la vita normale della città “bicefala” (capitale di due Stati) e l’afflusso ad essa di genti da ogni parte del mondo. La quarta parola è che non basta dire, genericamente, di essere a favore della pace nella “Città santa”; bisogna anche osare nominare i veri ostacoli a tale pace; altrimenti il proprio parlare è colpevole latitanza. Come dice Isaia: “Per amore di Sion non tacerò” (62, 1) sulle ingiustizie che la rendono, oggi, così lacerata da prefigurare una sventurata guerra. Un’ipotesi da far scoppiare il cuore.
* Giornalista, saggista, Comunità di Base di San Paolo (Roma)
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