Francesco Zanchini A margine dell'incontro di Teano: un commento all'articolo di Nino Lisi La lettera di Lisi è portatrice di rilievi interessanti, ma (dove non trascura l'equanimità necessaria ad interpretare gli eventi) incorre in semplificazioni pericolose, dalle cui maglie facilmente sfuggono dati rilevanti della strategia del governo "piemontese" nel reperire le risorse finanziarie, militari ed umane, necessarie alla costruzione/protezione dello stato unitario nascente. Penso in primo luogo all'operazione (ineluttabile) di liquidazione del patrimonio ecclesiastico, conservato -ma solidamente in mano all'esecutivo e sotto un segno laico e secolare- unicamente per finalità compatibili con quelle dello Stato e degli enti pubblici (e, per il resto, rimesso sul mercato mediante un'operazione grandiosa di smobilizzo). Penso, altresì, al passaggio alla mano pubblica, o ad imprenditori del nord, dell'intero sistema economico degli stati preunitari (inclusa la liquidità in custodia alle banche del Sud, con soppressione del diritto di battere moneta, spettante a molte di esse prima dell'annessione), e non escluse le manifatture industriali e artigiane esistenti, con il relativo patrimonio di know how, coperto o meno da brevetti. Penso, infine, all'acquisizione al demanio militare del Regno dell'intera flotta e dell'artiglieria degli stati investiti dalla conquista sabauda, così come del loro sistema di trasporti, ferroviari e navali, del patrimonio forestale, dei porti e arsenali addetti a servizio della pesca, oltre che dei loro traffici commerciali precedenti. Penso, infine, al progetto di destinazione esclusiva allo sviluppo della Padania delle risorse liberate, in guisa di bottino di guerra in più maniere mascherato da sofistiche motivazioni, principe fra tutte quella della 'debellatio' del potere pontificio, colpevole per non essersi dichiarato disposto a trattare una pace fondata sui fatti compiuti. Eccetera eccetera eccetera, come bene insegna, quanto meno per il Sud, la lezione di Sciascia; mentre quella di Lisi mi pare una narrazione monca e semplificata, cui è estranea una valutazione del prezzo pagato dal sistema unitario al rifiuto delle sue classi dirigenti di incamminarsi sulla via di un decentramento capace finalmente di man mano ricostruire, anche con una leva fiscale periferica, un qualche riequilibrio, materiale e morale, a compenso delle disparità create brutalmente da un'avventura annessionista non molto diversa da quella percorsa in seguito verso le direttrici di espansione ( fra Crispi e Mussolini), proteseverso la sponda libica e il Corno d'Africa. Se quindi è vero che quello unitario è uno Stato al quale manca il popolo, ne consegue che la vera discontinuità (almeno sotto questo profilo) è senz'altro la nascita della Repubblica, col suo coronamento nella costituzione del 1948, adottata dopo il primo grande scontro politico interno: quello del referendum istituzionale sulla forma del nuovo Stato. E coerente con questa matrice è pure il tono riparatore dell'art. 2 della sua costituzione, cui si affianca la sottolineatura dei doveri di solidarietà da essa imposti. Francesco Zanchini |
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