CdB di San Paolo - Gruppo Grottaperfetta
domenica 16 Novembre 2008
La parabola dei talenti
Beni, talenti, investire, guadagnare, denaro, regolare i conti, banchieri, interesse: sembra una cronaca del Sole 24 ore.
L’autore di questa pagina rielaborando la parola di Gesù, intendeva usare un caso tratto dall'esperienza quotidiana per stupire l’uditore, per scioccarlo, mettendo in crisi la sua immagine cristallizzata di Dio. "La chiave dell'intera parabola è il dialogo fra il servo pigro e il padrone", la condanna di quel "timore servile che cerca rifugio e sicurezza contro Dio stesso in una esatta osservanza dei suoi comandamenti”.
"Parabola dei Talenti" (Mt 25,14-30) fa parte del 5º Sermone della Nuova Legge (Mt 24,1 a 25,46) e si colloca tra la parabola delle Dieci vergini (Mt 25,1-13) e la parabola del Giudizio finale (Mt 25,31-46). Queste tre parabole chiariscono il concetto relativo al tempo dell'avvento del Regno. La parabola delle Dieci vergini insiste sulla vigilanza: il Regno di Dio può giungere da un momento all'altro. La parabola dei talenti orienta sulla crescita del Regno: il Regno cresce quando usiamo i doni ricevuti per servire. La parabola del Giudizio finale insegna come prendere possesso del Regno: il Regno è accolto, quando accogliamo i piccoli.
Tra i giudei della linea dei farisei (tipologia mai scomparsa, vedi TFP, che intendono la TRADIZIONE come un museo, dove si seppelliscono i tesori) alcuni immaginavano Dio come un Giudice severo che trattava le persone secondo il merito conquistato seguendo le osservanze. Ciò causava paura ed impediva alle persone di crescere. Per aiutare queste persone – immaginiamo noi - Matteo racconta la parabola dei talenti.
La chiave principale della parabola non consiste nel produrre nuovi talenti, ma indica il modo in cui bisogna vivere la nostra relazione con Dio. I primi due servi-impiegati non chiedono nulla, non cercano il proprio interesse, non conservano i talenti per sé, non calcolano, non misurano. Lavorano come se il padrone non ci fosse, quel padrone che oltre a una totale libertà, ha lasciato loro non solo i ‘talenti’ ma tutto quello che è suo. Con la più grande naturalezza, quasi senza rendersene conto e senza cercare merito per loro, cominciano a lavorare, affinché il dono ricevuto frutti per Dio e per il Regno. Il terzo servo-impiegato ha paura e, per questo, non fa nulla. Secondo le norme dell'antica legge, lui agisce in modo corretto. Si mantiene nelle esigenze stabilite. Non perde nulla, ma nemmeno guadagna nulla. Per questo perde perfino ciò che aveva. Il Regno è rischio. Chi non vuole correre rischi, perde il Regno!
Dossetti, in un suo discorso dell’88 a Bologna, sottolinea il legame e il senso escatologico della parabola. La prima cosa che si deve inculcare nel cristiano è che non solo può, ma deve impegnarsi nella storia, sia pure col massimo distacco possibile pena la perdita della sua credibilità come esploratore e testimone dell'invisibile. Deve sempre essere pronto a lasciare il suo ruolo tanto più quanto più possa essere umanamente appetibile - come un viaggiatore deve lasciare la camera d'albergo in cui ha pernottato una notte, disposto persino a lasciare la valigetta con cui vi era entrato.
La vocazione "secondo il NT" è unica e irrevocabile e immutabile, e tende escatologicamente verso la speranza a cui Dio chiama i credenti.
E così pure le professioni e le altre attività sociali tutte sono storiche, mutevoli, trasformabili, limitate nel tempo e, nel processo della loro accettazione e del loro esercizio, vanno assunte, subordinate, risolte in dipendenza della vocazione e quindi sempre in proporzione della speranza e dell'amore.
A chi non ha sarà tolto anche quello che ha: giusto, a che ti serve una barca se non esci dal porto?
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