Gruppo Roma Sud-Est della CdB di San Paolo
XII domenica tempo ordinario anno A
Il gruppo si sofferma quasi esclusivamente nella sua riflessione sulla prima lettura: il brano di Geremia.
Questo perché constatiamo – come spesso succede – che il canone ci propone letture che ci appaiono slegate tra loro. Anche il vangelo di Matteo, sembra avere questa caratteristica. Conoscendo le origini dell’autore,un ebreo profondo conoscitore ed esperto della legge mosaica, il testo proposto sembra essere una raccolta di detti di Gesù espressi in contesti diversi e messi insieme un po’ forzatamente.
L’attività del profeta Geremia si colloca in un periodo storico molto importante per il popolo ebraico. Intorno al 600 a.C. Israele risultò vittima delle grandi potenze dell’epoca e in particolare del re di Babilonia, Nabucodonosor che nel giro di 20 anni lo conquistò ben 2 volte, distruggendo infine Gerusalemme e il tempio deportando il re e la popolazione superstite in Babilonia. Nel territorio di Giuda rimase solo la parte di popolazione più povera, lasciata completamente in balia di bande di soldati sfuggiti al massacro.
In questo quadro storico si inserisce l’azione di Geremia, volta a convincere il suo popolo ad accettare il predominio dei babilonesi per evitare ulteriori catastrofi ad Israele: per questo fu accusato di disfattismo e tradimento.
Solo in questo modo si riescono a comprendere le dure parole di vendetta di Geremia che esprime in questo brano.
Ma come conciliare questo brano con il comportamento di Gesù, che di fronte ai suoi nemici, invoca il perdono del Padre “perché non sanno quello che fanno?”
Nei testi dell’antico testamento, la giustizia di Dio passa spesso attraverso l’umiliazione e la sconfitta dei nemici, nelle vicende della vita e della morte di Gesù, questa “dinamica” viene ribaltata: Gesù invita i suoi discepoli a non aver nessun accanimento contro i nemici.
Geremia è considerato un dei grandi profeti della tradizione biblica: eppure noi – alla luce dell’insegnamento successivo di Gesù – facciamo fatica a riconoscergli questo ruolo.Più che sforzarsi nel discernimento tra veri e falsi profeti, oggi – sulla scia del pensiero moderno – siamo più propensi ad accettare che i grandi testimoni della fede, quelli antichi e quelli moderni, non sono sempre coerenti alla loro fede, più semplicemente riescono – in alcune occasioni dellaloro vita – a vivere momenti di grande tensione profetica.
E’ esattamente quello che succede anche a noi. E’ per questo motivo che pensiamo che tutti i credenti di qualsiasi fede debbano rinunciare ad appropriarcidel nome di Dio. Tutte le volte che nella storia si è verificato questo, ci sono state terribili conseguenze nella storia dell’umanità.
La consapevolezza della nostra incoerenza, del nostro vacillare tra momenti di testimonianza e di disimpegno ci porta a vivere la nostra vita e la nostra fede senza rivendicare precise appartenenze, ci porta a da impegnarci insieme a credenti e non credenti. Soprattutto deve portarci a vivere la nostra fede attraverso gesti concreti, senza ricondurli necessariamente alla rivendicazione di una identità, di una appartenenza.
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