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Relazione per il gruppo biblico della CdB di S. Paolo

sul libro di J. Ratzinger : “Gesù di Nazareth”

 

Una domanda, molte risposte.

Secondo il ben noto passo dell’evangelista Matteo (cap. 16, versetti 13 e seguenti) Gesù, a un certo punto delsuo cammino, chiese ai suoi discepoli: “Chi dite voi che io sia?” Pietro rispose: “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente”. Sempre secondo Matteo, Gesù si complimentò vivamente con lui e per quella risposta lo costituìfondamento della sua Chiesa. Subito dopo, però, annunciò che sarebbe andato a Gerusalemme per soffrire e morire, e lo stesso Pietro si scandalizzò, perché evidentemente aveva in mente un’idea di Messia diversa da quella del suo Maestro. Gesù allora lo trattò duramente, chiamandolo Satana e invitandolo ad andare dietro di lui e seguirlo invece di metterglisi di fronte. La domanda di Gesù non si è spenta. Essa continua a essere rivolta a tutti noi e chi in un modo, chi nell’altro, chi esplicitamente e chi silenziosamente ha tentato qualche volta almeno di dare o di darsi una risposta, cercando magari aiuto tra gli “addetti ai lavori”. Fra gli interventi di rilievo apparsi di recente in merito ci sono due libri: Quello di Joseph Ratzinger, papa Benedetto XVI, intitolato appunto “Gesù di Nazareth” e quello di Giuseppe Barbaglio: “Gesù ebreo di Galilea”. Nel primo la risposta è la stessa di Pietro: Egli è il Cristo, il Figlio del Dio vivente; nel libro si cerca poi di spiegare come e perché. Nel secondo non si dà direttamente una risposta, ma si forniscono notizie e strumenti lasciando che questa risposta scaturisca eventualmente dal lettore.

Il libro del nostro indimenticabile amico e Maestro GiuseppeBarbaglio (EDB, 2002; 5° 2005) tutti lo conosciamo; quello di Joseph Ratzinger “Gesù di Nazareth” (Rizzoli - 2007) l’ho letto anche per poter confrontare le mie impressioni con le vostre, se lo leggerete; ma la massa delle annotazioni a margine è diventata così ingente che ho pensato di raccoglierle in questa sorta di relazione, che troverete pesante per le continue, inevitabili citazioni e i confronti tra i due libri e con gli scritti di vari autoriche sono intervenuti in merito (tra i quali spicca, come molti già sanno, l’articolo di Flores D’Arcais su “Micromega” 3/2007). E’ un documento di lavoro dal quale partire per una discussione tra noi, e, se sarà il caso, con la Comunità ed oltre.

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L’essenza del libro di Joseph Ratzinger

Il libro di papa Ratzinger è molto più di un libro su Gesù, è una “summa”programmatica del suo pontificato e un attacco durissimo all’autonomia della politica e della ricerca scientifica.

La sua tesi di fondo, e cioè che (1) il mondo senza Dio (il Dio della Chiesa cattolica) è una realtà totalmente negativa, viene esposta in quanto tale specialmente alle pp. 77 e sgg. e 117 del libro ed è applicata poi, in particolare, (2) all’esegesi biblica, la quale, senza la fede nella divinità di Gesù, non avrebbe alcun senso.

Sotto il primo profilo (1) è significativa l’argomentazione contenuta nelle pagg. 76-78: “Nel frattempo si è sviluppata in estesi circoli della teologia, in modo particolare in ambito cattolico, una reinterpretazione secolaristica del concetto di “regno”… Si asserisce che prima del Concilio avrebbe dominato l’ecclesiocentrismo… poi si sarebbe passati al cristocentrismo. Ma -si dice- non solo la Chiesa separa, anche Cristo appartiene solo ai cristiani. Pertanto dal cristocentrismo si sarebbe saliti al deocentrismo… Con ciò tuttavia non sarebbe ancora raggiunta la meta, perché anche Dio può essere un elemento di divisione tra le religioni e tra gli uomini. Per questo bisognerebbe fare un passo verso il regnocentrismo…”Regno” significherebbe semplicemente (sottolineatura mia) un mondo in cui regnano la pace, la giustizia e la salvaguardia della creazione… Questo “regno” dovrebbe essere realizzato come approdo della storia. E questo sarebbe il vero compito delle religioni: lavorare insieme per la venuta del “regno”. Per il resto esse potrebbero ben mantenere le loro tradizioni … Osservando però con maggiore attenzione, si resta perplessi: chi ci dice infatti cos’è la giustizia?… Come si costruisce la pace? A un’osservazione più attenta l’intero ragionamento si rivela un insieme di chiacchiere utopistiche prive di contenuto reale, a meno che sotto sotto vengano presupposte… dottrine di partito. Un punto emerge su tutto: Dio è sparito.” (a pag. 117 lo stesso concetto è espresso più duramente; a pag.198 si precisa che “quando hai perduto Dio hai perduto te stesso: allora sei ormai soltanto un prodotto casuale dell’evoluzione: Allora il “drago” ha vinto davvero”). Come si vede, pessimismo totale su ogni sforzo, ogni iniziativa, dei singoli o delle piccole o grandi organizzazioni, anche internazionali, che non si pongano sotto il patrocinio di Dio o, per essere chiari, dell’unico organismo che sembra autorizzato a darne un’interpretazione autentica: la Chiesa cattolica romana. E scetticismo sulla “buona novella” portata da Gesù: “Il regno di Dio è tra voi” (o “dentro di voi” secondo un’altra traduzione) in attesa della sua escatologica realizzazione.

Vengono in mente i “profeti di sventura” che Giovanni XXIII si era illuso di mettere a tacere nella prolusione al Concilio Vaticano II. Con tanti saluti allo spirito innovatore del Concilio medesimo e ai molti passi evangelici che indicano il regno come meta prioritaria e come accessorio tutto il resto (Mt. 6,33; Lc., 12,31); si veda anche Mt. 25, 31 sgg. dal quale pare che, giunti di fronte al giudice supremo, non saremo interrogati sulla nostra appartenenza o sulla nostra fede ma sul fatto se abbiamo dato da mangiare agli affamati e da bere agli assetati ecc., cose che ogni persona dotata di buona volontà può fare o tentare di fare e che sostanziano il regno, mentre lo stesso evangelista mette in guardia al cap. 7, vv.21 e sgg. dal confidare troppo nel solo fatto di essere cristiani, anche ferventi, e addirittura facitori di miracoli! Per non parlare poi della circostanza non contestabile che la storia dei secoli in cui Dio “c’era” e laChiesa dominava non ci dà esempi di mondi nel complesso migliori del nostro. Questo vuoto tra Istituzione e prassi d’amore il povero Gesù (come molti profeti prima di lui) aveva sperimentato nel suo ambiente e condannato duramente: l’uomo aggredito dai briganti e lasciato morente sulla strada da Gerusalemme a Gerico non viene aiutato dai rappresentanti del Dio vivente (il sacerdote e il levita) ma da un samaritano, notoriamente considerato eretico in Israele. Un solo cenno infine alla convinzione, diffusa nell’epistolario cristiano canonico ma espressa in modo particolarmente toccante dall’apostolo Paolo nella I Cor., 13,13, che l’amore sia più importante della stessa fede.

 

Punto (2): applicazione della tesi all’esegesi biblica.

Mentre noi sappiamo con quanta coerenza e chiarezza Barbaglio ha insistito sulla necessità di distinguere i due livelli di approccio alle scritture cristiane (storico e della fede), lasciando al lettore, informato su quanto si può umanamente sapere circa i fatti accaduti, la scelta di varcare o no il “fossato della Pasqua”, cioè di credere o di non credere, (pag.594), questa distinzione è rifiutata in radice dal papa, e talvolta con toni violenti: “I peggiori libri distruttori della figura di Gesù, smantellatori della fede, sono stati intessuti con presunti risultati dell’esegesi”… “E l’Anticristo ci dice allora, in atteggiamento di grande erudito, che un’esegesi che legga la Bibbia nella prospettiva della fede nel Dio vivente, prestandogli ascolto, è fondamentalismo; solo la sua esegesi, l’esegesi ritenuta autenticamente scientifica, in cui Dio stesso non dice niente e non ha niente da dire, è al passo coi tempi” (pag. 58). In un attacco così duro e indiscriminato, come non sentire obbiettivamente coinvolto anche il libro di Barbaglio, la cui sorprendente e inattesa diffusione nelle stesse università cattoliche dà forse fastidio a qualcuno? Ha ben da dire Ratzinger che “questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale… perciò ognuno è libero di contraddirmi” (pag. 20). Le prime reazioni di vescovi e cardinali dicono il contrario; vorrei vedere quale biblista o teologo di università pontificie che la pensi diversamente dal papa avrà il coraggio di contraddirlo o anche solo di continuare a insegnare tesi di fatto, ma in modo così veemente riprovate al massimo livello della gerarchia; la sintesi delle opinioni del papa farà sicuramente parte del bagaglio non sempre ricchissimo degli insegnanti di religione, dei parroci, dei catechisti ecc. La cosa non è affatto da prendere sottogamba. Il sapere di una persona libera come Barbaglio sarebbe certamente stato sollecitato ad una risposta, ma non può più farlo né possiamo farlo noi per lui: parlano invece ancora, ed in modo che a me sembra efficacissimo, i suoi scritti.

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Il metodo storico-critico nell’esegesi della Bibbia.

Citando le scritture del canone cristiano si tocca il tema della loro interpretazione, intuitivamente delicatissimo perché, se su queste scritture si basa tutto l’edificio ecclesiastico, è di fondamentale importanza per la Chiesa che esse vengano rettamente comprese. A questo proposito si afferma innanzi tutto nel libro che il metodo storico-critico, ormai generalmente applicato anche nella ricerca sul Gesù storico, non è da rifiutare in sé (pag. 11; esso del resto è stato accettato da vari documenti del magistero ivi citati) ma dev’essere correttamente inteso. E’ lo stesso ragionamento che, in altre occasioni, il pontefice o i suoi portavoce hanno applicato alla coscienza, che resta, sì, l’ultima istanza delle nostre scelte, ma va illuminata dai dettami della Chiesa, o alla libertà dei parlamentari cattolici, che è fuori discussione purché rispetti i principi e i valori che la Chiesa ritiene irrinunciabili.

Nel suo articolo di commento al libro del papa, Paolo Flores D’Arcais ha perfettamente percepito la insanabile contraddizione insita nel tentativo di J. Ratzinger: l’esegesi biblica che voglia correttamente utilizzare il metodo storico-critico può farlo servendosi solo degli strumenti e dei metodi propri della ricerca storica; inserendovi l’elemento “fede” si fa un’altra cosa, forse teologia, forse omiletica, ma non si può pretendere di presentarne i risultati come “verità” storica e i metodi usati come “retto” illuminismo, una sorta di illuminismo illuminato dalla fede. Eppure il tentativo è chiaro: “Il mondo è ora presentato nella sua razionalità: proviene dalla Ragione eterna e solo questa Ragione creatrice è il vero potere sul mondo e nel mondo: solo la fede nell’unico Dio libera e razionalizza veramente il mondo” (pag. 207), e ancora (pag.146): “E’ decisiva la fondamentale comunione di volontà con Dio donata per mezzo di Gesù. A partire da essa gli uomini e i popoli sono ora liberi di conoscere che cosa, nell’ordinamento politico e sociale, corrisponda a questa comunione di volontà, per dare poi essi stessi forma agli ordinamenti giuridici”.

Affermando che i vangeli, una volta ammessa la divinità di Gesù, sono in toto affidabili come fonte storica (perfino quello di Giovanni: pag. 275) il papa fa correre un grosso rischio alla sua Chiesa, che dai vangeli trae legittimazione, perché, dimostrato falso un segmento, tutto il resto crolla. Proprio una esegesi storico-critica scevra da contaminazioni, paradossalmente rispetto alle opinioni del papa, offre una via d’uscita da questa impasse perché aiuta a capire, per quanto è umanamente possibile, le evidenti e altrimenti insanabili contraddizioni delle scritture collocandole nel loro contesto, nel loro tempo, nel loro genere letterario, ecc. Finché non si accetterà senza riserve la comune base di discussione che la più accreditata ricerca storica offre, si continuerà a colpi di ping-pong opponendo versetto a versetto in una sorta di eterna diatriba, simile a quella che Mt., 4,1 e sinottici immaginano sia avvenuta nel deserto tra Gesù e il diavolo, con l’aggravante che la Chiesa istituzionale ha spesso la tentazione di applicare la parte del diavolo a chi non la pensa come lei. La eventuale scelta di fede sarà pure folle come dice Fl. D’Arcais al termine del suo articolo, e di fatto per certi aspetti lo è, ma io preferirei comunque che si basasse su dei presupposti almeno ragionevoli se non altro per non correre il rischio che, diventata potere, costringa i sani a diventare folli. Ma facciamo qualche esempio.

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L’interpretazione letterale o fideistica non spiega le contraddizioni. Qualche esempio.

  • Come si può ragionevolmente sostenere (pp. 34-38 del libro) che i rapporti tra Gesù e Giovanni il battista si sono svolti sin dal primo momento sotto il segno della prescienza che costui possedeva della messianicità di Gesù quando gli stessi vangeli ricordano (Mt., 11,2 sgg.; Lc. 7,18 sgg) che poco tempo dopo il battesimo Giovanni manda a chiedere a Gesù: “Sei tu che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”
  • Come si fa a scartare quasi con disprezzo (pag. 44) l’opinione generalmente diffusa tra i biblisti secondo cui i rapporti tra Giovanni il battista e Gesù, quali risultano dalle scritture canoniche, sono frutto di pesanti interventi della comunità primitiva, imbarazzata nell’ammettere una subordinazione (nel battesimo) del suo Maestro al profeta del deserto, il suo mischiarsi con i peccatori, forse un suo discepolato iniziale? E non è vero che “niente di ciò si trova nei testi” (ivi): a parte i già citati brani sui dubbi di Giovanni, i quali dimostrano che nulla di speciale era accaduto al momento del battesimo, i sinottici concordemente ricordano che Gesù iniziò la sua attività pubblica subito dopo l’arresto di Giovanni e raccogliendone pari pari il programma: “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino!” (Mt., 3,2 per Giovanni e 4,17 per Gesù).
  • Come si fa a sostenere la piena, consapevole e originaria “comunione ontologica” di Gesù con il Padre (p. 390 e passim) senza nemmeno farsi sfiorare dal dubbio che si tratti qui di una cristologia “alta” frutto di elaborazione della Comunità post-pasquale la quale nel fervore dell’annuncio del Cristo risorto trascura alcune contraddizioni oggi a noi chiare, come quei brani in cui Gesù si confessa candidamente inferiore al Padre (Mt. 24,36 e Mc., 13,22 : nessuno, neanche il Figlio, ma solo il Padre sa quando verrà il giudizio; Mt. 10, 18 e Lc., 18,19 “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo”; e si vedano anche Mt. 20,23 e Mc. 10,40). Questi brani, che sono poi quelli sui quali si fondavano tutte le “eresie” minimaliste (ebioniti, adozionisti, cristiano-giudei osservanti, ecc.), avrebbero dovuto, in una corretta esegesi, almeno essere portati a conoscenza del lettore e discussi. Tanto più che essi non possono essere frutto della elaborazione della comunità, la quale non aveva alcun interesse a inventarli, e quindi risalgono molto probabilmente a Gesù.

A Gesù, pur non essendo egli a conoscenza della data precisa del Giudizio finale, risale anche con ogni probabilità l’errata convinzione che tale giudizio fosse imminente. “In verità vi dico, vi sono alcuni dei presenti che non moriranno finché non vedranno il Figlio dell’uomo venire nel suo regno” (Mt., 16, 18 e sin.); “Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio” (Mt., 26,29 e sin., nel contesto dell’ultima cena); “In verità vi dico, non passerà questa generazione prima che tutto questo accada” (Mt., 24, 36 e sin.); “In verità vi dico: non avrete finito di percorrere le città di Israele prima che venga il Figlio dell’uomo” (Mt., 10, 23). Nonostante questo chiarissimo blocco di testimonianze, che alimentava ancora vivamente la speranza dei cristiani degli anni ’50 (cfr. I Ts. 4,5 e I Cor., 7, 29-31) e che richiedeva inviti alla pazienza alla fine del secolo per l’evidente ritardo (Gc., 5,8; 2° Pt., 3,8 sgg.) J. Ratzinger mette in guardia (p. 81, in parte attenuato a p. 224) dall’interpretare le parole di Gesù come se orientassero ad una attesa ravvicinata. Esclusa ogni verosimiglianza al tentativo di sostenere che la promessa di vedere il Regno si fosse realizzata con la Trasfigurazione (definito “patetico escamotage” da Fl. D’Arcais nel suo articolo: pag. 51) resta una lettura metaforica: ogni giorno possono capitarci occasioni uniche e irripetibili, di fronte alle quali le nostre scelte sono definitive e il giudizio su di esse è già pronunciato. Sulla probabile idea che Gesù si era fatto del regno e sulla necessità di portarne avanti i germi iniziali nella storia senza sostituirsi al giudice finale, si veda quanto dice Barbaglio nel suo “Gesù” alla pagine 339-342.

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I generi letterari: la metafora.

Questo discorso dei generi letterari, cui si fa appena cenno a pag. 11 della prefazione del libro del papa, per poi subito metabolizzarlo nella tesi di fondo, è l’unico che si possa utilizzare per conservare valore, metaforico appunto, ad alcuni passi dei vangeli dell’infanzia. Infatti, appena si tenta di dare loro un valore storico le incongruenze saltano agli occhi e su queste sarà interessante conoscere il pensiero di Joseph Ratzinger nel preannunciato secondo volume su Gesù, nel quale si spera che il “Gesù di Nazareth” non diventi il “Gesù di Betlemme”.

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Un anticipo sui vangeli dell’infanzia

Per esempio, se veramente vogliamo dare credito, come si torna a fare oggi (Catechismo della Chiesa cattolica – Compendio, nn. 94 e sgg), contro la generalità degli esegeti, alla nascita verginale di Gesù e a tutto il contorno fantasmagorico che l’ha accompagnata, come si spiega che poi la madre, che “conservava tutte queste cose meditandole in cuor suo” (Lc., 2,19) non comprenda perché il figlio si stesse trattenendo con i sapienti nel tempio (nell’episodio di assai dubbia storicità di Lc., 2, 41- 50) o lo ricercasse coi fratelli perché lo ritenevano impazzito (Mc., 3,20, racconto assai più verisimile perché “imbarazzante”)? E poi perché Gesù, nel pieno della sua attività pubblica, chiede ai suoi “chi dite voi che io sia?” (Mt.16, 13-15 e sin.) quando di un fatto tanto straordinario come la sua nascita miracolosa avrebbe dovuto trapelare qualcosa almeno nella cerchia dei discepoli?

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Vangeli verità rivelata e prassi difforme.

A queste ed altre “incongruenze” delle scritture, che costringono gli studiosi a sceverare i vari livelli e contesti della loro formazione, se ne aggiungono altre quando si confrontano brani di per sé chiarissimi con la frequente prassi in contrario della Chiesa che pure dice di possederne l’autentica interpretazione.

Per esempio, commentando la risposta sdegnata data da Gesù al diavolo che gli offriva i regni della terra nel loro splendore si dice (pag. 62): “Il Regno di Cristo non ha questo genere di splendore… cresce attraverso l’umiltà della predicazione di coloro che acconsentono a farsi suoi discepoli”, umiltà che chiunque conosca un po’ la storia delle conversioni al cristianesimo stenta a trovare. Ma ecco l’esempio classico di tale umiltà: Francesco d’Assisi. Figura luminosa, fiore all’occhiello di una Chiesa che poco però ha seguito il suo esempio. E nulla si dice dei movimenti pauperistici che più o meno nello stesso tempo percorrevano l’Europa (Catari, Valdesi ecc. ) e che furono sanguinosamente perseguitati perché chiedevano che la Chiesa si convertisse.

Sull’alta “autocoscienza” che Gesù aveva di sé secondo Joseph Ratzinger e che si dedurrebbe da numerosi passi evangelici si può rinviare, oltre che all’ampio commento che ne fa Flores D’Arcais nel suo articolo (spec. pagg. 39-44) all’intero capitolo XIV del libro di Barbaglio su Gesù, il quale può essere sintetizzato da quanto l’autore dice a pag. 572: “Non la natura, ma la storia è la radice della paternità di Dio.” Si aggiunga un’osservazione alla quale di solito non si fa caso: la confessione di Gesù come Messia (qualunque cosa intendessero con ciò i confessanti) era stata fatta, prima che da Pietro in Mt. 16,16, da tutti gli apostoli nell’episodio della tempesta sul lago (Mt. 14, 33). In Gv. 20, 28, la stessa confessione è fatta da una donna, Marta; ma solo quella di Mt. 16,16 è diventata famosa al punto di essere scritta a lettere d’oro sulla fascia a mosaico che circonda la navata centrale della basilica di S. Pietro e ciò solo grazie alle già citate parole “di investitura” (presenti solo in Matteo e di assai dubbia autenticità).

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L’immagine maschile di Dio e la donna nella Chiesa.

Per quanto concerne poi la corrente immagine maschile di Dio, che tanto occupa e giustamente preoccupa la teologia femminile per gli effetti devastanti che essa ha proiettato e in parte continua a proiettare sulla società, il papa, premesso che “naturalmente Dio non è né uomo né donna” (pag. 170) e citati alcuni passi delle Scritture ebraiche nei quali Dio è percepito come “madre” (Is. 49,15, ma più ancora si sarebbero potuti citare Gn., 1,27: Dio crea l’essere umano a sua immagine, maschio e femmina, e Is. 44, 2 e 24) conclude però (ivi): “Ma anche se non possiamo dare delle ragioni assolutamente cogenti, resta per noi normale il linguaggio della preghiera di tutta la Bibbia, nella quale, come detto or ora, nonostante le grandi metafore dell’amore materno, “madre” non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio” (come forse ingenuamente pensava papa Luciani).

A proposito di donne, è interessante che il papa si occupi, in coda al capitolo sui discepoli, dei versetti di Luca che ricordano il seguito femminile di Gesù (pag. 216): “C’erano con lui i dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con il loro beni” (Lc., 8, 1-3). Joseph Ratzinger, in linea con i più recenti documenti magisteriali sul problema delle donne nella Chiesa, riconosce che “il loro accompagnare Gesù nella fede era essenziale alla costituzione di questa comunità” ma, a scanso di equivoci precisa subito che : “La differenza tra il discepolato dei dodici e il discepolato delle donne è evidente; i due compiti sono decisamente diversi” (ivi). Ora, se con ciò si vuole intendere che le donne non facevano parte dei dodici in quanto rappresentanti delle 12 tribù d’Israele, questo è lapalissiano, e corrisponde alla mentalità del tempo che non avrebbe certo capito come una tribù potesse essere rappresentata da una donna; ma se si ha riguardo al significato più ampio del termine “discepolo” nel quale pure i 12 erano compresi, non è detto che anche le donne (oltre a fornire mezzi materiali al gruppo, almeno le benestanti), non facessero proselitismo nei modi e nei contesti loro più congeniali. Nessuna meraviglia che la loro attività, come spesso è accaduto nella storia, non sia stata registrata negli annali, che non si sia svolta nel cortile del Tempio o sulle piazze, ma questo non esclude che essa sia stata capillare e incisiva sia nei rapporti interpersonali, sia in quelli familiari. Le tracce di una elevata considerazione delle donne da parte di Gesù e della comunità primitiva sono evidenti: lo stesso Nazareno, nell’episodio narrato ancora da Luca in 10,38 sgg. mostra di preferire il discepolato “spirituale” di Maria ai “servizi domestici” della sorella Marta. Non faceva scandalo pensare che alle donne Gesù risorto avesse affidato il compito di annunciare ai discepoli la sua resurrezione (Mt, 28, 1 sgg. e sin.) come non faceva scandalo che nelle prime comunità, almeno in quelle paoline, le donne esercitassero funzioni di responsabilità (I Cor., 16, 19; Rom: 16, 1-2;At., 18, 1-3). Più in generale può citarsi il famoso brano di Gal., 3,20: “In Cristo non c’è più giudeo né greco, libero o schiavo, uomo o donna”. Cui non può contrapporsi l’altrettanto famoso brano di I Cor. 14., 34-35 “Le donne tacciano nell’assemblea” che è una tardiva interpolazione, come ha ampiamente dimostrato Giuseppe Barbaglio ne: ” La prima lettera ai Corinzi”, EDB, 1996, pagg.764-768).

Notevole scandalo dovrebbe invece aver provocato tra i contemporanei di Gesù vedere che un certo numero di donne lo seguivano dopo aver lasciata, anche temporaneamente, la casa e la famiglia, cosa inaudita presso gli altri “Rabbi”. Ma di questo non c’è menzione nel libro del papa.

Una domanda che ci viene spontanea sin da ora, ma che riguarda un periodo non contemplato in questo primo volume su Gesù, è se nel cenacolo ci fossero solo i dodici o anche gli altri discepoli, tra i quali naturalmente le donne che erano salite con lui a Gerusalemme per fare la Pasqua e che ritroviamo sotto la croce quando tutti gli altri erano spariti: questa circostanza ha importanti riflessi anche sul problema del sacerdozio (si veda in proposito l’ancora attualissimo libretto di Maria Caterina Jacobelli: “Sacerdozio, donna, celibato” Borla, 1981).

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La missione dei discepoli tra Israele e il mondo.

Anche il capitolo 6 dell’opera di Ratzinger “I discepoli” è pieno di contraddizioni e di affermazioni apodittiche che derivano dal rifiuto dei metodi dell’analisi storico-critica. Si comincia col ritenere che risalga a Gesù una visione universale della sua missione ed il conseguente invito agli apostoli a portare “il suo messaggio nel mondo; innanzi tutto alle pecore smarrite della casa di Israele, ma poi fino agli estremi confini della terra” (pp. 204 e 205). In altre parole tra brani come quello di Mt. 10,5.24 “ Non andate tra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani, ma rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele” … “ in verità vi dico, non avrete finito di percorrere le città di Israele prima che venga il Figlio dell’uomo” e brani come quello di Mt.: 28,19 nel quale il Gesù risorto dice ai suoi: “ Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo” non vi sarebbe contraddizione, ma solo differenza cronologica. Giudichi qualsiasi persona di buon senso se tra i due inviti non vi sia di mezzo tutta la faticosa esperienza della Chiesa primitiva, dipanatasi con vari esiti per alcuni decenni attraverso, per esempio, i conflitti tra Paolo e i giudeo-cristiani, discussi nel c.d. Concilio di Gerusalemme, chiaro indizio delle difficoltà incontrate nell’ammettere i pagani al cristianesimo e del fatto che non vi erano in proposito indicazioni certe da parte di Gesù. Una timida ammissione del ruolo avuto da Paolo in tutto questo si incontra a pag. 215, ma tra parentesi e in modo da non intaccare la tesi fondamentale. In realtà è molto più probabile che le parole di Mt. 28,19 non siano mai uscite dalla bocca di Gesù e nemmeno riflettessero le sue intenzioni.

Perché tanta ritrosia nell’Istituzione cattolica nell’ammettere che, con ogni probabilità, Gesù non aveva pensato ad una Chiesa che durasse nei secoli, visto che riteneva imminente la fine del mondo? Perché non accettare che essa sia un frutto storico dei discepoli e delle discepole che volevano continuare a stare insieme, dapprima in attesa del suo “ritorno”, poi nella convinzione che fosse comunque presente tra loro e li guidasse attraverso i tempi mediante lo Spirito e gli insegnamenti che era riuscito a dare al gruppo originario? Per non ammettere una tale lacuna nel Maestro o perché il fatto di accettare che la Chiesa è nella storia comporta il rischio di metterne in discussione l’attuale struttura piramidale codificata da secoli e ritenuta immutabile “per diritto divino”, l’origine sacra dei suoi ministri, le sicurezze acquisite? Forse Gesù chiama ancora Pietro a seguirlo con fiducia fuori della barca, sulle acque dei tempi, ma Pietro continua ad avere paura (Mt., 14,31).

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I “dodici”, gli “Apostoli”, i “discepoli” e altre figure della Chiesa primitiva.

Altra distinzione troppo netta e apodittica nel libro del papa è quella tra i 12, che sarebbero gli unici a potersi fregiare del titolo di “apostolo”, e gli altri discepoli, accompagnata da varie elucubrazioni sul significato recondito del numero 12 oltre a quello generalmente ammesso secondo cui esso voleva significare le 12 tribù di Israele, cioè tutto e solo Israele, mentre i non israeliti sarebbero invece contemplati nei 70 (o 72) discepoli, quindi non apostoli, citati solo da Luca, (10,1sgg.) anche qui con cabalistiche interpretazioni simboliche del numero 70 (o 72).

C’è innanzi tutto l’affermazione, cui bisogna credere per fede e non per convincenti argomentazioni che nell’espressione “Ne costituì dodici” usata solo da Mc. 3,16, sia sottintesa una “investitura al sacerdozio” (pag. 205); più avanti il papa sottolinea che i 12 (o gli 82 ovvero 84, cioè i 12 più i 70 o 72) vengono inviati innanzi tutto per diffondere l’annunzio evangelico, ma questo aspetto è espresso in poche righe, mentre 4 o 5 pagine sono dedicate a quella che sembra all’autore l’attività più significativa: la guarigione delle malattie e gli esorcismi. Certo, questa attività è intesa in modo prevalentemente simbolico, destinata ad un mondo malato e preda del demonio, ma questa malattia e questa possessione non sono una specificità moderna: “di fatto il mondo antico… ha vissuto l’irruzione della fede cristiana come liberazione dalla paura dei demoni, una paura che nonostante lo scetticismo e l’illuminismo dominava tutto…” (pag. 208); a parte l’ambiguo richiamo allo scetticismo e all’illuminismo la cui funzione deteriore sembra anticipata all’antichità, la conclusione sembra allora che ben poco di nuovo è cambiato con il cristianesimo.

Di fatto, poco tempo dopo la morte di Gesù il gruppo dei 12 si dissolve come nebbia al sole e negli “Atti degli apostoli”, che dal titolo sembrerebbero stati scritti per raccontare le vicende di tutti, tale gruppo è ricordato solo nei primi capitoli e solo come entità indistinta, mentre i veri protagonisti, già alla fine degli anni 40, sono Pietro, Giacomo e Giovanni e un altro apostolo, Paolo di Tarso, che non era mai stato dei 12 ma che svolge una funzione fondamentale per la diffusione del cristianesimo tra i pagani. Come nebbia al sole sembra dissolversi, per ricomparire molto più tardi, anche il famoso primato di Pietro, che condivide il suo ministero con altri, sembra meno importante di Giacomo e non si appella mai al famoso “potere-dovere” delle chiavi. Nessuna menzione infine è mai fatta nel libro dei pericoli connessi al dare troppa importanza formale alla propria identità, denunciati da Mt., 7,21-23: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti: allontanatevi da me, voi, operatori di iniquità” Ma non erano queste le cose che gli apostoli erano inviati a fare? Non erano queste le caratteristiche che li avrebbero contraddistinti (Mc., 16,17 sgg.)?

Per fare un po’ di chiarezza in merito occorre ancora una volta rimandare al libro di Barbaglio su Gesù, che tratta alle pagg. 365 e seguenti appunto del “seguito” del Nazareno. Qui i 12, gli apostoli, i discepoli e altri importanti figure come i “profeti” e i “responsabili delle comunità” vanno al loro posto e a queste pagine si può credere non per fede ma per gli argomenti convincenti che vengono forniti. Un cenno a proposito del seguito femminile, per dire che su questo argomento la posizione di Barbaglio è più vicina a quella del papa che non a quella qui da me esposta: è una delle poche cose sulle quali non concordavamo e sulle quali purtroppo non posso più confrontarmi con lui.

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La “questione” del vangelo di Giovanni.

Alla “questione giovannea”, cioè al problema se il quarto vangelo sia o no utilizzabile per ricostruire la figura storica di Gesù, il libro di J.R. dedica l’intero, lungo capitolo 8°. La conclusione è che “Questo vangelo ci mostra il vero Gesù e possiamo usarlo tranquillamente come fonte su Gesù” (pag. 275). La generalità degli esegeti non la pensa così, anche se ammette che su alcuni punti l’autore abbia avuto a disposizione attendibili fonti antiche diverse da quelle conosciute dagli autori dei vangeli sinottici. La stessa “Bibbia di Gerusalemme” pubblicata in numerosissime edizioni EDB con l’ imprimatur ecclesiastico afferma, più prudentemente, nelle premesse al testo giovanneo: “Il IV vangelo… è un’opera complessa, imparentata alle forme più primitive della predicazione cristiana; è anche il punto di arrivo di uno sforzo, perseguito sotto la guida dello Spirito Santo, per una intelligenza più profonda e luminosa del mistero di Cristo” (pag. 2258 ed. 2002) e anche “La concezione della storia supposta dal IV vangelo differisce profondamente dall’idea che si fa lo storico moderno”( id., pag. 2262).

Il paragrafo “Giovanni e i sinottici: due vangeli incompatibili” contenuto nel citato articolo di Fores D’Arcais su “Micromega” offre numerose argomentazioni critiche contro le certezze ratzingheriane. Altre se ne possono trovare nel testo di Barbaglio, per es. alle pagg. 54 e sgg. dove vi è un confronto tra i vangeli circa la loro utilizzabilità nella ricerca storica: “La storia della ricerca ha raggiunto risultati interessanti. Anzitutto, il vangelo di Giovanni, complessivamente preso, è da mettere da parte; il Gesù terreno vi è trasfigurato in un essere divino…”. Il libro del papa e il vangelo di Giovanni sono imparentati dalla stessa ansia pastorale ed omiletica, ma forse il papa, che ha a sua disposizione ben altri strumenti di ricerca e si rivolge ad un pubblico che dovrebbe avere ben altre esigenze di conoscenza, avrebbe potuto raggiungere il suo scopo in modo diverso, difendendo cioè la sua visione di fede senza pretendere di delegittimare tutte le altre vie di ricerca.

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La morte di Gesù: violenza od offerta di sé?

Altro punto che sta molto a cuore a papa Ratzinger, come si vede anche nei più recenti documenti magisteriali sull’eucarestia, e che in questo libro è trattato come anticipo del volume che dedicherà agli ultimi momenti della vita di Gesù, è la presentazione della morte del Nazareno come offerta intenzionale (p. 324), cui il Nazareno sembra da sempre predestinato. “La Croce è il fulcro del discorso del pastore, e non come atto di violenza che colga Gesù di sorpresa e che gli venga inflitto dall’esterno, bensì come offerta spontanea di se stesso” (ivi) affermazione basata sulla lettera del vangelo di Giovanni, 10,17 “Io offro la mia vita per riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso” e che sottintende la visione della morte di Gesù come “sacrificio”. L’affermazione così drastica, che farebbe pensare ad una sorta di suicidio, è attenuata subito dopo: “l’istituzione dell’eucarestia trasforma l’atto di violenza esterno della crocifissione in atto di offerta volontaria di se stesso agli altri” (ivi, sottolineature mie). Il tema è stato trattato diffusamente da vari biblisti e teologi sull’ultimo numero della rivista dei Dehoniani “Parola, Spirito e Vita” (n° 54 – II sem. 2006) tutti unanimemente contrari ad ammettere che la visione sacrificale facesse parte della comprensione originaria dell’eucarestia. Ricordo con quanta sorpresa degli ascoltatori, e talvolta con quanto loro scandalo, Giuseppe Barbaglio nelle sue conferenze faceva all’occasione notare che la parola “in sacrificio”, entrata a far parte da secoli nel canone della messa, non si ritrovi in nessuno dei passi neo-testamentari che ci tramandano il racconto dell’ultima cena (Mc., 14, 22-25; Mt., 26, 26-29; Lc., 22, 14-20 e I Cor., 11, 23-25).

Mi piace infine citare, dalla sezione dedicata alle parabole, la migliore forse del libro, un passo che condivido pienamente: commentando la parabola“dei due fratelli” (Lc., 15, 11-32) a pag. 239 e sgg., Joseph Ratzinger si sofferma sulla figura di solito trascurata del fratello maggiore e conclude: “In questo modo, con la parabola il Padre attraverso Cristo parla a noi che siamo rimasti a casa, perché anche noi ci convertiamo per davvero e gioiamo della nostra fede” (pag. 249). Che è l’augurio e la speranza di tutti e per tutti gli uomini e le donne di buona volontà.

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Antonio Guagliumi

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