Riflessione del gruppo Marconi sulle letture di Domenica 1-1-06
(Liturgia della parola:
Nm 6,22-27; Sal 66; Gal 4,4-7; Lc 2,16-21)
Le letture di oggi hanno un filo conduttore organico ma presentano problemi tali per cui mi limiterò a registrare in modo molto lineare le reazioni che hanno suscitato nel gruppo.
Il libro dei Numeri riguarda le vicende della fuga dall’Egitto, miste alla descrizione di leggi e prescrizioni (che probabilmente non leggeremo mai nelle celebrazioni eucaristiche). Inizia con un censimento delle 12 tribù di Israele, come quello del tempo di Gesù, ma riguardante solo i maschi sopra i 20 anni, in grado di combattere. I Leviti rientravano in un censimento a parte perché si occupavano del culto e sostituivano materialmente i primogeniti di Israele da sacrificare al Signore. Anzi, poiché i Leviti erano di meno (per circa 200 unità) avrebbero ricevuto un’indennità di 5 sicli per ciascuno dei primogeniti soprannumerari. Aronne e i suoi figli vengono visti come intercessori, tra il Signore e il suo popolo e viene detto loro dal Signore di usare proprio queste formule: “Il Signore faccia brillare il suo volto su di te, rivolga a te il suo volto, ti dia la pace, ti sia propizio.”
Nei Galati Paolo si trova ad affrontare un gruppo di giudeo-cristiani che presentano derive pericolose: hanno, probabilmente, elaborato un calendario astrale paganizzante e, oltre alla fede in Dio, ripropongono l’osservanza delle opere della legge mosaica. Egli, quindi, sottolinea il contrasto tra la legge che valeva prima, che teneva prigionieri (dùloi) e la nuova era di Cristo, che ci ha resi figli (uiòi). Usa questa similitudine: il popolo di Dio è come un bimbo piccolo che era erede anche prima ma senza la disponibilità effettiva dell’eredità. Poi, è sopraggiunta “la pienezza dei tempi”, to pléroma tù chrònu, ed è avvenuta l’incarnazione.
Questo problema del prima e del poi crea la divisione tra cristiani ed ebrei: questi ultimi sostengono che tutto il messaggio di Cristo è già presente nel giudaismo (vedi i passi di Isaia). E a ben vedere non esiste anche un problema del dentro e fuori (nei confronti delle altre religioni)? È chiaro che nel momento in cui il trascendente sceglie di incarnarsi, si assoggetta alle categorie umane, e quindi deve scegliere un tempo e un luogo. Ma ciò non diventa discriminante nei confronti di popoli di altre epoche e di altri luoghi? Quale potrebbe essere allora il compito del cristiano se non un apostolato continuo, uno sforzo di diffusione del cristianesimo che, purtroppo, nel passato ha comportato storture e sopraffazioni? La nuova enciclica di Ratzinger con lo slogan “nella verità la pace”, che si pretende preso dalla “Gaudium et spes”, sembra contenere il rischio del richiamo all’unica ortodossia cattolica.
E l’incarnazione del divino è in ultima analisi da considerarsi unica? Il problema, ha fatto notare qualcuno, è stato già affrontato dalla religione indù che considera molteplici le manifestazioni di Dio.
Le domande, naturalmente rimangono aperte, ma è parso opportuno al gruppo concludere con la considerazione che se veramente i cristiani si sforzassero di far vedere il brillìo del volto di Dio, se adottassero realmente tra di loro e verso il prossimo l’amore di Cristo opererebbero dei prodigi tali da avere una irresistibile forza di convincimento.
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