TRENT’ANNI DA “LA TERRA E’ DI DIO” AD OGGI: UNA VITA, UN SOFFIO.
LA COMUNITA’ CRISTIANA DI BASE DI SAN PAOLO SI RACCONTA
“Perché fate cosi? Perché siete
così?”. Non è facile dare una risposta, concisa ma carica di senso, a chi,
vedendo la nostra prassi ecclesiale, ci pone oggi dall’esterno queste domande,
o a chi – i ragazzi che crescono, nuovi amici ed amiche che si aggiungono alla
nostra Comunità di san Paolo – ce lo chiede dall’interno. Con queste righe
vorremmo rispondere, almeno in parte, a tali domande. E, per farlo, dobbiamo raccontare una storia, la
nostra storia che, radicata negli anni 1967-68, arrivò ad un tornante cruciale
nel 1973, con la pubblicazione della lettera pastorale La terra è di Dio di Giovanni Franzoni e, da allora, è proseguita
fino ad oggi. Celebriamo, dunque, i trent’anni: una vita, per gli eventi che in
questo frattempo si sono accavallati; un soffio, tanto ci pare vicinissimo –
appena ieri – l’inizio del nostro singolare cammino.
C’è posta per la Chiesa cattolica italiana
Era mezzogiorno del 14 giugno 1973,
quando persone della “Comunità cattolica di san Paolo” iniziarono a distribuire
il settimanale Com, contenente un
inserto speciale: “Giovanni Battista Franzoni, abate e ordinario dell’Abbazia
di S. Paolo fuori le Mura in Roma - La
terra è di Dio, lettera pastorale”.
La particolarità della distribuzione
militante – allora del tutto normale – fu che, quella volta, essa avvenne ai
“confini” tra Italia e Stato della Città del Vaticano, e precisamente di fronte
al cancello, a lato del Sant’Uffizio, che delimita lo spiazzo antistante il
nuovo palazzo delle udienze, comprendente anche l’aula del Sinodo. In quella
sede, infatti, erano riuniti i membri della Conferenza episcopale italiana
(CEI) per la loro X assemblea generale. Terminati i lavori della mattinata,
verso mezzogiorno i prelati sciamavano per tornare nelle case religiose che li
ospitavano; molti in macchina, ma diversi a piedi, e furono proprio alcuni di
questi che si ritrovarono tra le mani la lettera. Tra un vescovo e l’altro,
uscì dal cancello anche don Franzoni: vestito con l’abito monacale nero, croce
pettorale di ferro, capelli completamente rasati, l’abate di san Paolo faceva
qualche timido sorriso ai confratelli che – alcuni con aria amichevole, altri
un po’ tesa – gli dicevano, sventolando la “lettera” appena ricevuta: “La
leggerò, la leggerò”.
Lessero. Lessero anche nella Curia
romana. E i più conclusero che era tempo che don Giovanni lasciasse il titolo,
e il compito, di “abate” (qualche giornale diede a Franzoni il titolo di “dom”
– dal latino dominus, signore – così
come si usava per gli abati benedettini in Belgio e Francia; in Italia, però,
questi mantennero ufficialmente il “don”).
Abbiamo aperto questo libro con La terra è di Dio. A trent’anni di
distanza, il documento appare “datato”, sorpassato, oppure per tanti aspetti
ancora attuale? Certo è che quel testo, nelle circostanze date, molto contribuì
a far precipitare la situazione; e, dopo le dimissioni di Franzoni da abate, a
portare la “Comunità cattolica di san Paolo” ad uscire dalla basilica Ostiense,
e ad intraprendere un nuovo cammino come “Comunità cristiana di base (Cdb) di
san Paolo”. Un cambiamento di nome che non fu solo terminologico.
Perciò quel documento è per noi uno
spartiacque tra un “prima” e un “dopo”; e dunque nel trentesimo anniversario ci
pare importante raccontare – per flash – il clima ecclesiale ed il contesto
socio-politico in cui poté nascere la “lettera pastorale”; e, poi, con un’altra
veloce carrellata, ripercorrere i trent’anni da allora trascorsi, e
interrogarci sull’oggi per misurarci, in un contesto ecclesiale e politico per
tanti aspetti profondamente mutato, con il sogno di sempre: lasciarci
interpellare dall’evangelo di Gesù Cristo e cercare di portare il nostro
piccolo tassello per una Chiesa “altra” – cioè tendenzialmente non legata al
potere ma aperta alla profezia, umile, ricca solo della Parola del Signore.
Dunque, non un’“altra” Chiesa (una in più!), né un abbandono della nostra Chiesa
storica, quella cattolica romana; ma un tentativo di favorire la sua/nostra
conversione evangelica.
Un “padre” del Concilio
Franzoni – nato in Bulgaria nel 1928, perché là, a Varna, lavorava il padre, toscano; cresciuto a Firenze; negli anni ‘47-50 al collegio Capranica di Roma, ove si formava l’élite ecclesiastica; entrato nel ‘50 tra i benedettini, ove cambia il nome natìo di Mario in quello di Giovanni Battista (ma per la gente sarà sempre semplicemente Giovanni); studente di teologia al Pontificio Ateneo di Sant’Anselmo di Roma; nel ‘55 ordinato prete – negli anni Sessanta era professore di storia e filosofia nel collegio di Farfa, legato alla grande abbazia benedettina della Sabina, cinquanta chilometri a nord di Roma.
Il 3 marzo 1964 il Capitolo dei
monaci benedettini dell’abbazia di San Paolo fuori le Mura “postula” Franzoni
come proprio abate; la Santa Sede conferma la scelta. La basilica Ostiense,
unica tra le quattro basiliche maggiori di Roma, non era retta da un cardinale
arciprete, ma delegato pontificio per essa era allora l’abate – mentre mons.
Primo Prìncipi era amministratore pontificio, responsabile delle questioni
economiche. In senso proprio, l’abate “ordinario” aveva giurisdizione
sull’abbazia e sulle monache benedettine di Santa Scolastica, in Civitella San
Paolo – un paesino ad una quarantina di chilometri da Roma, da secoli legato
all’abbazia di san Paolo. In quanto “ordinario” dell’abbazia – e dunque
investito di autorità magisteriale – l’abate, seppure non vescovo, era membro
di diritto della CEI e anche di un eventuale Concilio.
I monaci ritennero Franzoni la persona adatta per guidarli in un momento davvero eccezionale: si stava, infatti, celebrando il Vaticano II. Un Concilio – una coincidenza che fa riflettere – che papa Giovanni aveva annunciato per la prima volta proprio nell’abbazia di San Paolo. Il 25 gennaio 1959, infatti, dopo aver celebrato nella basilica la festa liturgica del giorno (la conversione di San Paolo), il pontefice aveva riunito in una saletta dell’abbazia il gruppetto di cardinali presenti e comunicato loro – sbalorditi – la sua intenzione di convocare un nuovo Concilio ecumenico.
Franzoni, come abate, divenne
automaticamente “padre” conciliare: allora, il più giovane dei “padri”. Partecipò
alla terza ed alla quarta (ultima) sessione del Concilio, che Paolo VI concluse
l’8 dicembre 1965.
Un monastero “dentro” le mura
Ricevendolo un giorno in udienza,
papa Montini raccomandò al neo-abate di sostenere la riforma liturgica voluta
dal Vaticano II. Cosa che don Franzoni – i benedettini, si sa, sono specialisti
della liturgia – ben volentieri si impegnò a fare.
L’abate si dedicò con entusiasmo alla
riforma liturgica e, anche, all’ecumenismo, promuovendo le “Settimane di San
Paolo”, giornate di studio – ogni 18 mesi – in cui esegeti cattolici, ortodossi
e protestanti approfondivano, in fecondo dialogo, aspetti della vita e delle
lettere dell’apostolo delle genti. Ma, nel contempo, iniziò sempre più a
domandarsi – insieme ai confratelli – quale fosse il ruolo di un monastero
ormai “dentro” la città. Un tempo, certo, esso era isolato, appunto “fuori le
Mura”, e difeso da alti muraglioni contro possibili assalti: costruito accanto
alla basilica Ostiense, là ove secondo la tradizione fu sepolto Paolo,
l’apostolo decapitato per ordine delle autorità romane. Un luogo situato in
aperta campagna, quasi sulle rive del Tevere, ad oltre un chilometro dalle Mura
aureliane che delimitavano Roma a sud.
La domanda di “se” e “come” inserire
il monastero nella vita tumultuosa della città, che ormai lo rinserrava da ogni
parte (il quartiere Ostiense nel Novecento era rapidamente cresciuto, e alla
metà del secolo era ormai una zona popolare e popolatissima del tutto “dentro”
Roma) incrociò un’altra decisiva domanda: “se” e “come” aprirsi alla
partecipazione della gente (oltre che abbazia, San Paolo era allora anche
parrocchia), per affrontare insieme i
problemi locali e, anche, quelli più vasti del mondo e delle Chiese. Del resto,
non aveva il Concilio sottolineato che la Chiesa è il “popolo di Dio”?
Quest’affermazione pregnante, radicata nella Scrittura, era da intendersi solo
in modo astratto e spiritualistico o non esigeva, invece, nei fatti, la
corresponsabilità di tutti i fedeli nella vita e nelle scelte di ogni comunità
e Chiesa locale?
L’occasione per formalizzare questo
“aggancio” fu offerta dall’enciclica di Paolo VI sullo sviluppo dei popoli,
pubblicata il 26 marzo 1967. Ricorderà infatti don Giovanni, qualche anno dopo
(cf. Rosario Mocciaro, La comunità
dell’abate Franzoni, Napoleone ed., Roma 1973, p. 217): “’La comunità
(cattolica) di san Paolo’ è nata proprio quando Paolo VI pubblicò la Populorum progressio. Fu allora che
mettemmo in piedi gruppi di studio per esaminare i problemi del Terzo mondo. La
nostra vicenda è nata proprio da un gesto di fedeltà a Paolo VI. Certo,
avvicinarsi ai problemi provoca un’analisi, un approccio alla realtà. Finimmo,
inevitabilmente, studiando il Terzo mondo dell’atlante geografico, per scoprire
il Terzo mondo che è appena al di là di queste mura”.
La “scoperta” del Terzo mondo, ma anche
delle responsabilità e dei problemi del “primo” mondo furono per così dire
simultanei. In tale contesto, la
parrocchia di San Paolo fece amicizia con un “padre bianco” (missionario in
Africa), esperto conciliare di un vescovo del Ruanda, divenuto amico di
Franzoni in Concilio. E Nicoletta Pandolfi, una giovane parrocchiana del gruppo
più vicino all’abate, partì volontaria per il paese africano, ove per tre anni si
dedicò all’assistenza domiciliare degli hanseniani che non volevano ricoverarsi
nei lebbrosari.
I gruppi di studio cui accennava don
Giovanni erano formati da qualche monaco e da gente della parrocchia, o che
comunque gravitava attorno alla basilica di san Paolo: operai, uomini e donne,
insegnanti, impiegati, professionisti, giovani (in particolare scouts e
aderenti all’Azione cattolica). In tale contesto nasce un affiatamento che
sboccerà, ogni sabato sera, in un incontro della gente disponibile con don
Franzoni, per aiutarlo a preparare l’omelia della domenica, alla messa di
mezzogiorno, quella appunto celebrata dall’abate.
In Omelie
a San Paolo fuori le mura di don Giovanni Franzoni raccolte dalla Comunità (Mondadori,
1974) si possono leggere tali testi che, oggi, avranno la patina del tempo, e
meraviglierà forse che turbassero così tanto lo “status quo” ecclesiastico e
politico; e, tuttavia, allora impressionarono perfino un uomo come Pier Paolo
Pasolini, che commentò quelle omelie con forti e commosse parole. Per par condicio aggiungeremo che Indro
Montanelli attaccò Franzoni, definendolo “l’abate che piange con un occhio
solo”, nel senso che Giovanni avrebbe denunciato la guerra americana contro il
Vietnam tacendo, invece, sulle storture del comunismo.
Gli incontri dell’abate, il sabato sera,
si svolgevano al pian terreno – quello aperto al pubblico – del monastero,
nella “sala rossa” (così chiamata per la tappezzeria di un bel tessuto rosso-fuoco
che ne ricopriva le pareti); un luogo-simbolo del gruppo laico che a poco a
poco si consolida, e assume un suo nome – “Comunità cattolica di san Paolo” –
per distinguersi, al fine di evitare confusioni o corresponsabilità non
richieste, dalla comunità monastica di san Paolo.
L’“effervescenza” che animava l’esperienza di don Giovanni e quella della “Comunità cattolica di san Paolo”, va inquadrata naturalmente in un preciso contesto storico, sociale ed ecclesiale: il 1968 con tutte le energie, le attese, le utopie che la grande contestazione studentesca ed operaia aveva suscitato anche in Italia; la lotta nonviolenta (Franzoni era anche un ammiratore e studioso di Gandhi) di Martin Luther King per combattere il razzismo negli Stati Uniti d’America e poi la morte del profeta, assassinato nell’aprile ’68; i movimenti di liberazione in America latina ed in Africa; la II Conferenza generale dell’episcopato latino-americano a Medellin (Colombia, 1968) che in qualche modo aprì la strada a quella che sarà la “teologia della liberazione”; l’eco ancora incombente del Vaticano II, un Concilio che in molti aveva creato la illusione che una radicale riforma della Chiesa romana fosse possibile e ormai imminente.
E, ancora: l’ascolto delle voci profetiche – come quelle di p. Ernesto Balducci e p. David Maria Turoldo – che insistentemente pungolavano la Chiesa cattolica italiana; il collegamento con le Comunità cristiane di base che stavano nascendo anche in Italia (nel ’68 ci fu a Firenze l’esplosione della vicenda dell’Isolotto) e che nel ’71 avrebbero tenuto, proprio a Roma, il loro primo convegno nazionale; la messa in discussione, in Italia, da parte di alcuni gruppi ecclesiali, del “dogma” della unità politica dei cattolici; l’avvio, negli anni 66-70, di nuove riflessioni teoretiche su Cristianesimo e marxismo che infine, nel 1972, a Santiago del Cile, porteranno alla nascita dei “Cristiani per il socialismo”, esperienza che nel ’73 sorgerà ufficialmente anche in Italia.
Senza questo humus composito, nemmeno noi saremmo nati; e tener conto di questo sfondo variegato e amplissimo è necessario per comprendere la “nostra” vicenda, una scintilla di un fuoco enormemente più diffuso.
Anche ispirati da tutti questi input, don Giovanni e la “Comunità cattolica” assumono posizioni, e fanno scelte, che scuoteranno l’establishment ecclesiale e politico romano: solidarietà agli operai che, nel quartiere Ostiense, occupano una fabbrica; denuncia del militarismo (e quindi richiesta al Quirinale di ripensare la “parata militare” del 2 giugno per celebrare la “festa della Repubblica”); solidarietà per il Vietnam; analisi critica dell’intreccio politico tra gerarchie ecclesiastiche e Democrazia cristiana; denuncia del Concordato del 1929 tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, per i privilegi e spazi di potere che esso dava all’istituzione ecclesiastica; istanze di partecipazione del “popolo di Dio” alla vita, ai problemi e anche alle decisioni su tutti i problemi ecclesiali.
Nel ‘71 Franzoni avrà poi una parte
decisiva nella preparazione e, nel ’72, nella nascita di Com, settimanale del “dissenso cattolico” e molto legato alle
Comunità cristiane di base [nel settembre ’74 si fonderà con il settimanale
evangelico Nuovi tempi e nell’89 si
trasformerà nel mensile di dialogo ecumenico ed inter-religioso Confronti].
In basilica Franzoni conservò sempre
una messa domenicale – quella delle ore 10,30 – in latino, accompagnata dal
canto gregoriano che a Giovanni piaceva molto. Ma ritenne che la messa domenicale
di mezzogiorno dovesse aprirsi ad altre sensibilità. Invitò la gente ad andare
al microfono, durante la “preghiera dei fedeli”, per proporre una libera
intenzione (si sentirono così “orazioni” per ottenere la “conversione” delle
strutture ecclesiastiche oppressive o colluse con i potenti; cosa che,
riferita, irritò molti in Vaticano); e fu felice che i ragazzi e le ragazze del
coro iniziassero ad usare le chitarre, per accompagnare i canti. Questa
“novità” apparve scandalosa (oggi ciò può sembrare incredibile, ma allora fu
così) ad una parte rilevante del “mondo cattolico” romano; e irritò
particolarmente un gruppetto di cattolici tradizionalisti di Civiltà cristiana che aveva iniziato
sistematicamente a “controllare” don Franzoni, considerato sempre più “pericoloso”.
Per “difendere la tradizione” questi provocatori – legati ad alcune frange
missine – arriveranno, durante una messa in basilica, a spaccare le chitarre
dei suonatori.
Ma questa bravata fu solo la
manifestazione colorita di una opposizione ben più corposa che, tra le quinte,
stava crescendo in larga parte della Curia romana (oltre che nell’area
democristiana) contro don Franzoni. Così si avviò, nell’ombra, il procedimento
per farlo dimettere. Alla fine del ’71 una “visita canonica” (interna alla
Congregazione benedettina cassinese alla quale era legata l’abbazia di san
Paolo), sollecitata dal Vaticano, dimostra però che la maggioranza dei monaci
ha fiducia in Franzoni. La Santa Sede ricorre allora alla “visita apostolica” –
cioè un’indagine inquirente, coperta da segreto.
La “visita apostolica”, affidata all’abate
vallombrosano Enrico Baccetti, e compiuta nel giugno ’72, si conclude in modo
spiacevole per il Vaticano, perché la maggioranza dei monaci difende l’abate.
Ma in luglio la Congregazione dei religiosi – l’organismo curiale che
sovrintende ai monaci, ai frati, alle suore del mondo intero; e che aveva
allora come segretario un benedettino tedesco, Agostino Mayer – con un colpo di
mano cambia la struttura del “Regime”, organo di governo della Congregazione
benedettina cassinese, formato da cinque membri (Franzoni, allora, tra
essi): il “Regime” viene
“commissariato” e d’autorità ridotto a tre membri (tra essi non vi è più
Franzoni), e posto sotto la presidenza – cosa inaudita, che lede la secolare
autonomia dei Cassinesi – dell’abate generale della Congregazione benedettina
silvestrina, don Simone Tonini.
In tale contesto, nel dicembre successivo
Tonini effettua una seconda “visita canonica”, ma non comunica né ai monaci né
all’abate il risultato della “consultazione”. In proposito, solo nel marzo ’73
mons. Mayer rende noto a Franzoni che appena un terzo dei monaci desidera che
lui rimanga abate.
Quando il cerchio si sta sempre più
stringendo, Franzoni viene convocato da mons. Giovanni Benelli, allora potente
Sostituto della Segreteria di Stato vaticana. Il prelato esamina con l’abate
pacchi di documenti e articoli di Franzoni, o della stampa su di lui. A mano a
mano che l’esame procede – e passano oltre due ore – Benelli è costretto ad
ammettere che nei pronunciamenti di Franzoni non vi è nulla contro la fede; e
che l’abate riafferma sempre la sua “comunione” con il papa. Ad un certo punto,
però, monsignore esclama: “Si ricordi, caro padre abate, che nella Chiesa è la
Segreteria di Stato che fa la politica”. E con ciò l’udienza fu chiusa. Né
allora, né poi, Franzoni fu ricevuto da Paolo VI; e quindi non poté mai
spiegarsi con lui a viva voce.
E’ in tale contesto che, insieme ad un
gruppo della “Comunità cattolica”, ed a qualche monaco, Giovanni inizia a
preparare La terra è di Dio, tenendo
anche presente che, secondo voci
ecclesiastiche, presto Paolo VI avrebbe annunciato il Giubileo del ’75.
In effetti, mentre il progetto della lettera pastorale è già abbastanza
abbozzato, il 9 maggio 1973 il papa, pur un poco esitando ma infine decidendosi
per il sì, preannunzia che, tra due anni, si celebrerà il Giubileo (che,
secondo la tradizione romana, si doveva appunto tenere ogni venticinque anni;
l’ultimo era stato quello del 1950).
La
terra di Dio, datata 9 giugno, viene data da don Giovanni, come primizia,
al priore dell’abbazia di san Paolo e alle monache di Civitella; e quindi
diffusa su Com il 14 (il settimanale
portava la data del 17). Grande l’eco sulla stampa, che sottolinea la denuncia di Franzoni
contro le compromissioni del Vaticano per la speculazione edilizia a Roma,
città dal dopoguerra sempre governata dai democristiani. Nella stessa lettera
don Giovanni fa capire che la sua vita monastica in abbazia è giunta al
termine; e che egli si accinge a vivere sì da monaco, ma in una comunità
“immersa nella condizione violenta della città”. Non parla di dimissioni, ma le
lascia intuire. Formalmente egli si dimetterà un mese dopo, il 12 luglio, all’indomani
della festa liturgica di San Benedetto.
La “lettera pastorale” fu tradotta in
francese; considerata fonte di ispirazione da molti vescovi brasiliani; e
variamente citata dalla stampa internazionale.
Accolta con imbarazzo dalla
CEI e dal Vaticano, la lettera sollecitò invece, nel settembre ’73, una
reazione del card. Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino. Abbiamo
ri-pubblicato anche questo testo, che dimostra il coraggio del porporato –
ricordiamo, per inciso, che anche mons. Luigi Bettazzi, allora vescovo di
Ivrea, espresse cordiale stima per Franzoni.
Giovanni rispose al cardinale il 18
novembre ‘73, su Com: “La tua lettera
è stata motivo per me di grande gioia e, se ce ne fosse stato bisogno, di
rinnovata speranza nella Chiesa. La gioia viene soprattutto dal trovarti
fondamentalmente consenziente con i contenuti de La terra è di Dio e, ciò che più vale, proprio su quelle parti
essenziali che riguardano la nostra responsabilità di cristiani nei confronti
dei mali della società capitalistica ed il nostro dovere di desolidarizzarci
dal potere economico e politico per recuperare la libertà di annuncio del
Vangelo in tutta la sua durezza ed in tutta la sua potenza salvifica”. Franzoni
risponde poi ad alcune obiezioni del porporato, precisando il suo pensiero.
Il 20 agosto la Santa Sede
accetta le dimissioni di Franzoni da abate. Giovanni, ormai semplice monaco
benedettino, e la “Comunità cattolica”, si interrogano sul da farsi. La
decisione fu che era giusto continuare insieme. Ma, dove, fisicamente,
riunirsi? In un fabbricato, situato a mezzo chilometro dalla basilica, in via
Ostiense 152 B, che a piano terra aveva uno stanzone già usato da “Mani tese” –
un gruppo cattolico di solidarietà che raccoglieva carta straccia per venderla
e inviare il ricavato in Africa ed America latina. Lo stanzone era poi stato
abbandonato. Ripulito alla meglio sia al pian terreno che al primo piano, il
locale era pronto per accogliere la Comunità.
Domenica 26 agosto ’73 Franzoni celebra
per l’ultima volta nella basilica Ostiense, e qui, di fronte a tre mila
persone, pronuncia la sua ultima omelia e il suo commiato. Quel giorno stesso
egli si trasferirà, accolto fraternamente come un fratello, dai camaldolesi di
san Gregorio al Celio, non lontano dal Colosseo; e, qualche tempo, in un
piccolo appartamento in via Ostiense.
Il pomeriggio di domenica 2 settembre,
presenti molte persone, Giovanni celebra la prima messa nello stanzone. In effetti, il 21 agosto Franzoni aveva
chiesto al card. Ugo Poletti, vicario di Roma, il permesso di celebrar messa
nel citato locale. L’indomani il porporato aveva risposto di non poter “né
autorizzare, né proibire la celebrazione”, e di “rimettere alla tua coscienza
sacerdotale la soluzione provvisoria del caso”. Franzoni interpretò che la
celebrazione dell’Eucaristia nel locale di via Ostiense era dunque “tollerata”.
Ma Poletti replicò: “Io non l’ho detto”.
L’11 settembre ’73 il presidente
costituzionale del Cile, Salvador Allende, viene rovesciato da un golpe
preparato dalla CIA ed attuato dal generale Augusto Pinochet. La vicenda – che
scosse il mondo – ebbe particolare eco anche nella nostra Comunità, perché
presto esiliati e profughi politici cileni cominciarono a frequentare il nostro
gruppo.
Mentre la Cdb avviava la sua nuova vita,
affrontando i molti e nuovi problemi ecclesiali che la incrociavano, cominciava
a profilarsi all’orizzonte una questione squisitamente politica, ma dalla forte
ricaduta ecclesiale: il referendum – voluto dalla Dc, dai Comitati civici
legati ai democristiani e ad ambienti vaticani, dal Movimento sociale – sulla
legge Fortuna-Baslini sul divorzio, votata dal parlamento ed in vigore dal
dicembre 1970.
Il 21 febbraio ’74 il Consiglio permanente
della CEI – allora guidata dal card. Antonio Poma, arcivescovo di Bologna –
emanava un documento importante (ma, si apprese, al momento del voto il card.
Pellegrino era uscito dall’aula). Infatti, con una Notificazione i vescovi vincolavano in sostanza i cattolici, e
sollecitavano i cittadini, a votare “sì” per l’abrogazione della legge, nel
referendum che si sarebbe svolto il 12-13 maggio. Diceva il testo: “Alla luce
della Parola di Dio, la Chiesa ha costantemente insegnato che il matrimonio è
indissolubile, non soltanto come sacramento, ma anche come istituto naturale…
Il cristiano, come cittadino, ha il dovere di proporre e di difendere il suo
modello di famiglia”.
L’intervento dei vescovi ebbe grande eco.
I “laici” accusarono la CEI di “interferenza” nella vita politica italiana. La
Cdb di san Paolo si mobilitò per difendere, anche per i cattolici, la libertà
di coscienza nel voto. In tale contesto, aiutato dalla comunità, Giovanni
scrive Il mio regno non è di questo
mondo. Una risposta alla notificazione della CEI sul referendum (testo
pubblicato allora da Com e poi
ri-pubblicato nel ’76 in Tra la gente,
un libro edito da Com-Nuovi tempi).
Il documento – di cinquanta pagine, datato
14 aprile ’74, giorno di Pasqua – ripercorre le Scritture, la storia della
Chiesa, il sentire del popolo cristiano, per concludere: 1/ nell’insegnamento
della Chiesa romana sul matrimonio vi sono evidenti contraddizioni; 2/ con il
referendum i cattolici italiani non sono chiamati a votare pro o contro un
sacramento, ma semplicemente a giudicare in coscienza una legge prevista per
risolvere situazioni matrimoniali altrimenti insanabili; 3/ dunque si doveva
rispettare la scelta di coscienza e la responsabilità individuale; 4/ se le
autorità della Chiesa romana volevano rimanere fedeli alla dichiarazione Dignitatis humanae, sulla libertà
religiosa, varata dal Concilio nel 1965, non potevano che ribadire il loro
rispetto per le scelte di coscienza che avessero compiuto i cattolici italiani.
Idee che Giovanni (come molti altri e
altre della Comunità, preti e laici/e) porterà in giro per l’Italia in decine
di incontri. Il 24 aprile ’74 l’abate presidente della Congregazione
benedettina cassinese, don Angelo Mifsud, consegna a Franzoni una lettera in
cui intima al monaco di cancellare, pena la sospensione a divinis, ogni
dibattito pubblico. Franzoni – appoggiato dalla Cdb – contesta l’ordine come
ingiusto, e ricorda che comunque egli da tempo ha preso un impegno per la sera
stessa del 24, a Bergamo, e per due giorni dopo a Roma, alla fabbrica Fatme e
al quartiere Tuscolano.
A Bergamo (cf. Davide Palumbo, Fuori le Mura. Fatti e documenti per la
storia della Comunità di base di san Paolo in Roma, Borla 1994, p. 195) la
Camera di Commercio nega la sala, pur giorni prima assicurata. Piove a dirotto;
la gente è in strada. Allora i gesuiti accolgono i molti convenuti nella vicina
chiesa di san Pietro. Franzoni non terrà la conferenza promessa sul referendum,
ma spiegherà ai presenti: “Da tempo nelle nostre comunità di base non si fa che
parlare di una ricerca di fedeltà al Vangelo, ci si sforza di recuperare
l’autenticità e la genuinità nella fede… Ma il nostro discorso appare
pericoloso: perché? Forse perché stiamo cercando di condurre la ricerca anche a
livello di base, e non solo tra i teologi. Per questo un discorso come il
nostro, che pur affonda le sue radici nella tradizione del nostro popolo, che
non nega nessuna verità del Vangelo e non contesta neppure la necessità di
avere dei ruoli, cioè dei ministeri, nella Chiesa, è invece un discorso che
disturba tanto: perché tocca il punto di saldatura, l’articolazione tra le fede
religiosa e il potere politico ed economico. Perché nel momento in cui una
religione alienante, fatta di incensi, di intimismi, di moralismi, si trasforma
in una fede responsabilizzante, come quella predicata da Cristo, in quel
momento la casta sacerdotale va in pensione”.
Come gesto di buona volontà, comunque, il
26 aprile ’74 Giovanni ribadisce di volersi astenere, per il prossimo futuro,
da ogni dibattito pubblico, e dunque annulla anche i due impegni per Roma. Ma
la mattina seguente don Ambrogio Porcu, procuratore dei Cassinesi, notifica a
Franzoni la sospensione a divinis “latae sententiae” (la proibizione,
automatica, di celebrare i sacramenti). Giovanni definisce ”illegale” la
punizione; la Cdb, per protesta, decide di non celebrare l’Eucaristia, il
giorno dopo, domenica, limitandosi alla “liturgia della Parola”.
La punizione di Franzoni ha forte
risonanza nel mondo politico e in quello ecclesiale. Centinaia e centinaia di
persone, ed esponenti di movimenti legati alla gerarchia ecclesiastica, inviano
a Giovanni la loro solidarietà; duecento sacerdoti firmano un appello a suo
favore; anche vicari generali di alcune diocesi inviano la loro solidarietà. Ma
il 28 aprile il card. Poletti esprime “pieno consenso” alla punizione contro
Franzoni decisa – formalmente – dalla Congregazione cassinese.
Il 12 e 13 maggio finalmente si vota.
Risultato: circa il 60% di “no” all’abrogazione della legge sul divorzio e il
40% di “sì”. Increduli e smarriti, molti prelati scoprono le sorprese di
un’Italia che, secondo le statistiche vaticane, è “cattolica” al 98%. Titolerà Com: “Requiem per una crociata”.
Il 30 maggio, l’abate primate dei
benedettini, don Rembert Weakland, comunica a voce a Giovanni che la
Congregazione dei religiosi riteneva che l’unica possibilità per togliergli la
“sospensione” era che egli si trasferisse, per un anno almeno, in un monastero
benedettino in Francia. Tempo per decidere: entro l’8 giugno. E l’8 giugno, con
due lettere – a Weakland ed alla Cdb – Giovanni afferma di non sentirsela di
abbandonare il paese mentre accadono gravissimi eventi (il 28 maggio i fascisti
avevano organizzato la strage di Brescia). Da parte sua, la Cdb scrive una
“Lettera aperta alla Chiesa di Dio che è in Roma, ed a tutte le Chiese”, in cui
denuncia le manovre ecclesiastiche in atto ed invita Giovanni a restare, rifiutando l’”esilio” che gli si
prospetta.
Ma nella Comunità nasce un grande
interrogativo: con Giovanni “sospeso”, si poteva continuare a celebrare
l’Eucaristia? Non fu un problema da poco; fu sofferto e soppesato. La Comunità
discute, e valuta opinioni differenziate, di fronte ad una scelta difficile e
decisiva: quella di imboccare la via della “differenza” dai canoni liturgici
prescrittivi. Emergono tre opinioni: 1/ Giovanni celebri, malgrado la
“sospensione”; 2/ egli non celebri e, finché fosse stato “sospeso”, la Cdb si
astenga dall’Eucarestia; 3/ si continui a celebrare l’Eucaristia, presieduta da
uno dei preti della Comunità non colpiti da sanzioni canoniche (ve ne erano,
allora, 5-6). Infine, in via “transitoria” – così era percepita, per evitare
soluzioni immediatamente traumatiche – si scelse la terza proposta.
Il 19 luglio Giovanni viene dimesso
dall’Ordine benedettino, rimanendo
semplice prete – seppur ancora “sospeso”.
Per darsi un ancoraggio biblico e
teologico di maggior respiro, la Cdb di san Paolo il 27-29 settembre ’74
organizza un seminario su “Comunione ecclesiale e ministeri nella Chiesa”.
Introducono i lavori teologi ed esegeti di fama mondiale: il benedettino p.
Jacques Dupont, il valdese Bruno Corsani, il gesuita José Maria Diez-Alegria.
La Cdb si sente molto corroborata dalle indicazioni emerse nel seminario, e
incoraggiata a proseguire la sua esperienza cristiana “sacramentale” senza
necessariamente un presbitero di riferimento.
Una comunità senza
presbitero?
Priva, quasi, di ormeggi istituzionali, la
Cdb doveva infatti affrontare – non solo in astratto, ma nel concreto della
vita della gente – problemi cruciali riguardanti i sacramenti: a parte la
celebrazione dell’Eucaristia, si poteva amministrare il battesimo? Ci si poteva
sposare in comunità? I pareri erano contrastanti. A una coppia che intendeva
sposarsi in Comunità venne opposto un rifiuto (motivo: per non rendere ancor
più conflittuale il rapporto di Giovanni con il Vicariato); così i due giovani
dovettero sposarsi in una parrocchia. Ma alcune settimane dopo, il 17 novembre
’74, due fidanzati – Laura e Vincenzo – durante l’Eucaristia annunciarono alla
Comunità, molto sorpresa, la loro volontà di unirsi come sposi. “La
responsabilità della scelta – dissero – è nostra, ma nessuno può cancellare il
fatto che la Comunità è stata testimone dell’annuncio”.
Anche sollecitata da questo evento del
tutto inatteso, dopo un prolungato e sofferto dibattito (che già era iniziato,
a livello teorico, quando la “Comunità cattolica” viveva all’ombra della basilica),
e incoraggiata dalle indicazioni degli esperti appena citati, la Cdb si decise
per il grande passo: la “riappropriazione dei ministeri”, come dono di Dio ad
ogni comunità cristiana e viatico per aiutare a vivere il messaggio evangelico.
La nuova “prassi” (sgradita all’istituzione ecclesiastica, ma fortemente radicata nella Bibbia) inizia presto. Giovani coppie annunciano il loro matrimonio in comunità, ove viene celebrato festosamente. Un matrimonio “non canonico”, preceduto o seguito dal matrimonio civile in municipio. E alcuni genitori battezzano il loro bambino in comunità, essendo tutti i presenti “testimoni”; altri scelgono solo di “presentare” il loro bambino alla comunità, lasciando poi la scelta alla libera decisione del figlio, giunto in età consapevole. Una coppia di profughi cileni, cattolici, chiede – lei è divorziata risposata – se può egualmente fare la comunione durante la celebrazione eucaristica in Comunità. Un sì corale scioglie ogni dubbio.
La celebrazione del matrimonio non canonico in Comunità, e del battesimo non ufficialmente registrato, furono logiche conseguenze di una riflessione ponderata a lungo. Esse derivavano da un presupposto ecclesiale ben preciso: la volontà di separare assolutamente – malgrado il no permanente della gerarchia ecclesiastica – il carattere sacramentale del matrimonio dagli “effetti civili” dello stesso, assicurati a chi si sposava in chiesa (ove il prete, in virtù del Concordato, è anche ufficiale di stato civile). E, per quanto riguarda il battesimo dei bambini, contrastare la dominante prassi pastorale che rischiava di favorire una religiosità di massa, senza vera assunzione di responsabilità; e che garantiva all’istituzione ecclesiastica un modo sicuro e indolore per aumentare il numero dei propri fedeli (le statistiche ufficiali vaticane, come anche la pretesa che il Cattolicesimo sia quasi una religione civile degli italiani, si basano infatti proprio sul numero dei battezzati).
Pasqua 1975: pur “sospeso”, Franzoni riprende a celebrare
La notte di Natale del ’74 Paolo VI
apre solennemente il Giubileo – l’evento cui Franzoni aveva dedicato La terra è di Dio – dandogli per tema:
“Il rinnovamento e la riconciliazione”. La Cdb apprende che il 25 gennaio ’75
il papa si recherà alla basilica di san Paolo. Per raggiungere la chiesa il
corteo papale dovrà necessariamente passare per via Ostiense, e quindi anche di
fronte ai locali della Comunità. Questa circostanza fa nascere una idea:
“Perché non invitiamo il papa a fermarsi da noi?”. L’invito, sollecitamente
spedito al card. Jean Villot, Segretario di Stato vaticano, non fu però
accolto.
Nel marzo ‘75 Poletti fa sapere a Giovanni
che non avrebbe potuto incardinarlo nella diocesi di Roma (il Codice di diritto
canonico proibisce i preti “apolidi”, cioè che non dipendano da un vescovo o da
un superiore religioso). Franzoni chiede al cardinale: le autorità
ecclesiastiche avrebbero ritenuto un “gesto di rottura” se egli avesse ripreso
a presiedere l’Eucaristia? Il porporato non proibisce, né autorizza il gesto,
lasciandone la responsabilità al richiedente. Infine, fortemente sollecitato
dalla Cdb, e infine convinto dalle ragioni da questa apportate, il 30 marzo
‘75, domenica di Pasqua, Giovanni riprende a presiedere l’Eucaristia in
Comunità.
Scrive il 5 aprile L’Osservatore romano: “La sospensione a divinis è tuttora valida,
perché don Franzoni non ha fatto nulla per rimuoverne le cause… Gli atti di
ministero posti da don Franzoni il giorno di Pasqua sono dunque gravemente
illeciti e da valutarsi secondo le vigenti norme canoniche. Don Franzoni non
può vantare nessun consenso implicito, né tanto meno esplicito, da parte di
coloro che ‘lo Spirito santo ha posto come vescovi a reggere la Chiesa di Dio’
(At. 20, 28)”.
Due anni dopo, il 3 aprile ’76 mons.
Clemente Riva, vescovo ausiliare di Roma-Sud, fa visita alla Comunità. Riva,
rosminiano, è legato da rapporti di amicizia con Giovanni; a cavallo tra gli
anni Sessanta e Settanta insieme avevano lavorato, come rappresentanti dei
religiosi, in alcune commissioni della CISM (Conferenza italiana Superiori
maggiori) e della diocesi di Roma.
Si prega insieme ma, anche, la gente
della Comunità pone al prelato domande, legate soprattutto alla vicenda del
referendum e alla punizione di Franzoni. Risponde il vescovo: “Sono contento di
essere venuto tra voi. Sono venuto qui per ascoltare, rendermi conto e
riflettere. Ho pregato volentieri insieme con voi. Se dessi tutte le risposte
che mi chiedete, significherebbe che sono un uomo che può dare risposta a tutto
e, quindi, che ha potere. Non ho invece questa possibilità, non sono un uomo di
potere”. Mons. Riva afferma anche di considerare la Comunità di san Paolo “una
realtà di fede situata nel territorio affidato alla mia cura pastorale”. La Cdb visse questa visita come un
grande segno di speranza.
Il 6 giugno ’76 la Comunità pubblica
La violenza nella città e nella Chiesa di
Roma, quale contributo al primo Convegno ecclesiale nazionale, programmato
a Roma dalla CEI per l’ottobre successivo, su “Evangelizzazione e promozione
umana”. Nel testo si denunciano le compromissioni ecclesiastiche con il potere
politico dominante.
Il documento della Cdb esce mentre,
all’interno della Chiesa italiana, alta è la polemica innescata dal fatto che
sei intellettuali cattolici – Paolo Brezzi, Mario Gozzini, Raniero La Valle,
Piero Pratesi, Angelo Romanò, Massimo Toschi – avevano annunciato che si
sarebbero presentati come indipendenti nelle liste del Partito comunista
italiano alle elezioni politiche del 20 giugno. Con chiaro riferimento a queste
candidature, già l’11 maggio la presidenza della CEI aveva chiesto che si
evitassero “scelte che sono in aperto contrasto con il messaggio cristiano e
che possono mortificare la comunione ecclesiale”. Gli “indipendenti”
replicarono che la loro scelta non comportava una adesione al marxismo, ma solo
la volontà di contribuire a cambiare un sistema politico usurato. Padre
Turoldo, Franzoni e altri preti espressero la loro solidarietà ai candidati, plaudendo
alla fine della “unità politica dei cattolici”.
Da parte sua, su Com-Nuovi tempi Giovanni scrive che alle imminenti elezioni egli
voterà per il Pci. Un annuncio che suscita molti, disparati commenti. Il 20
giugno il card. Poletti indica a Franzoni le uniche tre soluzioni “possibili”,
da scegliere “entro dieci giorni”: “1. Un ritorno umile e sincero alla
disciplina ecclesiale, che comporta in primo luogo una dichiarazione precisa e
pubblica di riconoscimento degli errori commessi e di accettazione delle
disposizioni che potranno essere adottate; 2/ una domanda di riduzione allo
stato laicale; 3/ accettare la riduzione allo stato laicale ‘in poenam’ [per
castigo]”. La Cdb, in un documento inviato anche al porporato, il 28 giugno
riafferma il diritto di Giovanni, come di ogni cattolico, di fare autonomamente
le sue scelte politiche.
Franzoni, il 30 giugno, invia a Poletti
una “professione di fede”. In essa precisa: “La mia tensione con l’autorità
ecclesiastica non è mai dipesa, come ben sai, da motivi di fede, ma da mie
scelte politiche, che non ritengo erronee anche se in contrasto con la linea
ufficialmente portata avanti dalla CEI… Mi sento prete fino in fondo e quindi
non chiederò mai la riduzione allo stato laicale, anche perché, come meglio ti
spiega il documento della Cdb di san Paolo [del 28 giugno], noi non riteniamo
che il ministero sia un affare privato tra un prete e il suo vescovo”.
Il 7 luglio mons. Riva invita
Franzoni in Vicariato, per un colloquio con Poletti. Si tratta, di fatto, di
una seduta processuale, senza che Giovanni sia assistito da alcun avvocato. Il
cardinale chiede all’inquisito di chiarire, entro il 12 luglio, due
imputazioni: l’adesione a dottrine [il comunismo] riprovate dalla costituzione
pastorale Gaudium et spes del
Vaticano II; lo “scandalo” dato ai fedeli con un “dissenso continuo” contro
l’autorità ecclesiastica. Il 12 luglio Franzoni risponde, negando risolutamente
di aver mai aderito al comunismo ateo.
Anche tenuto conto dei buoni uffici che avrebbe
potuto svolgere mons. Riva, qualcuno nella Cdb immaginava che il contrasto
Poletti-Franzoni (ma dietro al cardinale c’era la Curia vaticana!) si sarebbe
potuto sanare.
La riduzione allo stato laicale
Il 22 luglio Paolo VI sospende a
divinis mons. Marcel Lefebvre, il vescovo tradizionalista francese che, prima
in Concilio, e ancor più dopo, aveva contestato alcuni punti-chiave del
Vaticano II (quali la dichiarazione sulla libertà religiosa, il ripudio
dell’accusa di “deicidio” agli ebrei, la riforma liturgica). In certi settori
della Curia romana Lefebvre era visto con simpatia, come un’“ariete” per
opporsi alla attuazione del Vaticano II e contrastare le “esagerazioni” dei
“conciliari”. Per questo, la sospensione del prelato provoca una sorda resistenza
in alcuni settori vaticani, ove si accusa Montini di “parzialità”: inflessibile
con i “conservatori”, tollerante con i “progressisti”.
In tale contesto il Vaticano
equilibra la “bilancia”,
formalizzando la punizione minacciata contro Franzoni ma non ancora
attuata. Il 2 agosto il card. Poletti – con l’esplicita approvazione del papa –
emana il decreto di riduzione di Giovanni allo stato laicale, con dispensa da
tutti gli obblighi connessi con l’ordinazione sacerdotale (tra essi la recita quotidiana
del breviario e il celibato). Le motivazioni: “Il profondo turbamento che
l’atteggiamento di don Giovanni Battista Franzoni ha causato e continua a
causare nel popolo di Dio”; le sue “ripetute disubbidienze”; il rifiuto, a due
anni dalla sospensione a divinis, di dare “segni di effettiva resipiscenza”.
In una lettera che accompagnava il decreto, Poletti scriveva a Giovanni: “E’ la contestazione che rompe l’unità [della Chiesa], non già la correzione… Oggi molti forse ti applaudono e ti invitano a resistere. Sei molto più sulla strada della pubblicità umana che della umiltà evangelica. Ma verranno anche per te i giorni della delusione, della prova, della solitudine. Sarai allora veramente un ‘povero’ e potrai sempre ritornare, se rinnovato nel cuore, con umiltà e fiducia alla casa del Padre, dove il Papa e molti fratelli ti aspettano e ti riceveranno con gioia”.
Il 4 agosto la sala-stampa vaticana, con
una “dichiarazione verbale”, presenta una propria “ricostruzione dei fatti”. Vi
si afferma che Franzoni “intende la Chiesa come una società democratica, tutta
rivolta al piano sociale, con un ordinamento lasciato al giudizio dei singoli…
Egli è stato ed è favorevole al divorzio; considera l’ordine sacro dipendente
dal volere della comunità ed a questa subordinato; nega esplicitamente il
primato di magistero e di governo del Sommo pontefice.” Infine, Franzoni
purtroppo si è fatto “strumentalizzare dalla sedicente ‘Comunità laica di san
Paolo’, come massa di manovra più agile e più libera, ossia meno esposta, nel
portare gli attacchi alla Chiesa istituzionale”.
Franzoni, ignaro, apprende della sua “riduzione”
mentre si trova a Nusco, in Irpinia, per una conferenza. La notizia lo
turba profondamente.
Il 7 agosto la Cdb di san Paolo denuncia
la “sostanziale arbitrarietà” del provvedimento ecclesiastico contro Giovanni,
basato su una “ecclesiologia autoritaria”. Il 10 agosto mons. Bettazzi, sul
settimanale diocesano di Ivrea, scrive una lettera di sostanziale solidarietà a
Franzoni. Giovanni si prende un po’ di tempo, e risponde a Poletti il 7
settembre: “Che nei miei confronti non ci fossero vere accuse di carattere
dottrinale emerge con chiarezza dal tuo decreto stesso… Se considerai invalida
la ‘sospensione’ perché comminatami in forma non canonica dalla Congregazione
benedettina, non posso considerare invalido il decreto di laicizzazione: esso è
stato approvato dal Romano pontefice e pertanto nel sistema giuridico della
Chiesa esso è da considerarsi formalmente valido in base all’attuale normativa
canonica. In altra sede e con altri strumenti dovremo approfondire e far
conoscere il fatto che nell’istituzione che è la Chiesa romana, si vive senza
alcun diritto di difesa e si può essere condannati in base ad una procedura
assurda ma legittimata da un potere monarchico in cui risiede una sorta di
pienezza di potestà che può al limite sostituire la legge. Debbo quindi
obbedire, ed obbedisco…”.
“Quando pensai di andare a vivere tra la gente, di lavorare come gli altri e di conoscere la precarietà della condizione dei lavoratori – continua Giovanni – mi ero forse dimenticato che sul mondo dei lavoratori, oltre che la piaga della disoccupazione, della emigrazione e delle ristrettezze economiche, in Italia grava anche la ‘scomunica’ [comminata nel 1949 dal Sant’Uffizio ai comunisti atei]. Anche se questa non è poi così chiara, non puoi negare che gli operai o gli altri lavoratori che votano per i ‘loro’ partiti, quelli che sono espressione della classe operaia, non sono ben visti dalla gerarchia”.
“Ebbene – conclude Franzoni –
io ho inteso ed intendo restare ‘ostaggio’ di questa massa di emarginati dalla
Chiesa per motivi politici, finché chiarezza non sarà fatta per tutti. Nella
Chiesa ci siamo, ma emarginati e sospetti; torneremo ad esserci con la pienezza
dei nostri titoli e ministeri quando nella Chiesa non ci si chiederà più
l’amputazione delle nostre scelte politiche. Prepara dunque la festa, giacché
le monete che hai smarrito le ritroverai (Luca 15, 8-10), ma le ritroverai
tutte insieme; non rientreremo noi preti colpiti da soli, ma rientreremo con
tutti i compagni e le compagne che abbiamo incontrato nel frattempo nelle lotte
di fabbrica o nei campi, nelle lotte di quartiere o nella solidarietà con i
popoli del ‘Terzo mondo’. Quando nella Chiesa potremo starci tutti, dichiarando
ad alta voce le nostre scelte politiche, allora sarà festa grande”.
Risolto – si fa per dire – il “caso
Franzoni”, la Cdb di san Paolo, in collegamento con il movimento delle Comunità
cristiane di base italiane (e romane in particolare), prosegue il suo cammino.
Qui e ora non vogliamo e non possiamo naturalmente fare la cronistoria
dettagliata di questi 27 anni, ma ci limitiamo ad alcuni cenni, anche perché
molte idee e molta prassi sono continuate nel solco già illustrato.
A livello socio-politico, la Cdb riafferma
il principio del pluralismo politico, negando ogni identificazione – ufficiale
o ufficiosa – tra “cristiano” e “democristiano”.
Dopo mesi di lavoro in piccoli gruppi e in
assemblee specifiche, il 7 settembre dell’80 la Comunità pubblica Il cristiano e la sessualità. E’ il suo
contributo al Sinodo dei vescovi – e perciò viene inviato alla segreteria del
Sinodo, oltre che alla presidenza della CEI – convocato per l’ottobre di
quell’anno da Giovanni Paolo II
per discutere su “la famiglia cristiana”. Il testo mette in evidenza le
contraddizioni dell’insegnamento ufficiale cattolico su alcuni problemi, come
la contraccezione, il divorzio, i rapporti prematrimoniali, gli omosessuali.
Nell’81 la Cdb si esprime per la libertà
di voto nel referendum (17 maggio) sull’abrogazione della legge sulla
interruzione volontaria della gravidanza, adducendo per questo, pur nella diversità
dei temi, alcune delle ragioni di fondo con cui aveva motivato il sostegno alla
libertà di coscienza nel voto per il referendum sulla legge sul divorzio.
Il 21 maggio ’83, dopo mesi di studio, la
Comunità pubblica Conversione e
riconciliazione, anche questo come contributo specifico ad un Sinodo che in
ottobre, in Vaticano, discuterà appunto sul sacramento della penitenza. La tesi
della Cdb – che nella sua analisi è molto aiutata da José Ramos Regidor, membro
della Comunità ed uno dei massimi teologi, a livello mondiale, del problema
esaminato – è che il sacramento della penitenza ha subìto, lungo i secoli,
cambiamenti fortissimi; che la confessione auricolare imposta come norma dal
Concilio di Trento è solo un modo,
storicamente datato, non il modo
(cioè l’unico) per chiedere perdono a Dio delle proprie colpe; e che
l’imperativo dell’evangelo sono la “conversione”, il “ravvedimento”, l’impegno
per il Regno di Dio, e non la “confessione”.
Per l’aprile ’85 la CEI aveva convocato a
Loreto il secondo Convegno ecclesiale italiano, sul tema “Riconciliazione
cristiana e comunità degli uomini”. In vista di tale appuntamento, e per quanto
non invitata (come del resto era accaduto per il Convegno di Roma del ’76), la
Cdb il 6 gennaio 85 pubblica una sua ampia riflessione, Cristo di due ha fatto uno: la riconciliazione, scrive la Comunità,
si potrà avere se la Chiesa cattolica italiana si fa umile discepola
dell’Evangelo di Gesù e, povera e senza privilegi, cammina con tutti gli uomini
e donne di buona volontà.
E’ giusto notare, per inciso, come,
contrariamente a quanto affermato in ambienti ecclesiastici, la Cdb non si è
chiusa mai in se stessa, ma – per quel che poteva, e certo con i limiti che
aveva – si è sforzata di dare il suo contributo ad eventi maggiori della Chiesa
italiana e della Chiesa (cattolica) universale. Anche se nessuno, né alla CEI
né alla segreteria del Sinodo di vescovi, si è mai premurato di confermare
ricevuta di tali documenti.
Per quanto riguarda l’abbazia di San Paolo
ed i successori di Franzoni (Giuseppe Turbessi, Giuseppe Nardin, Luca Collino,
Paolo Lunardon), i rapporti di Giovanni con loro sono sempre stati sereni – pur
nella evidente e mai nascosta diversità di punti di vista. E Giovanni nelle
feste “comandate” non ha mai mancato di recarsi in abbazia (ed a Sant’Anselmo,
ove risiede l’abate primate dei benedettini) per portare i suoi auguri. Da
parte loro, alcuni abati di san Paolo successori di don Franzoni hanno
partecipato all’agape fraterna in Comunità. L’abate Nardin fece anche di più:
chiamò nel Consiglio pastorale della parrocchia di san Paolo un membro della
nostra Cdb.
La Comunità ha anche cercato di coltivare
i rapporti ecumenici, invitando talora la comunità valdese della chiesa di
piazza Cavour a partecipare alla sua Eucaristia, e andando a partecipare alla
Santa Cena dei fratelli e sorelle riformati. Questo a livello di prassi. A
livello teoretico lo sforzo maggiore della Comunità fu quello di arrivare a
redigere, nel Natale ’84, un ampio documento, Una comunità racconta
la sua teologia.
La commissione “Fede e Costituzione” –
organismo del CEC (Consiglio ecumenico delle Chiese) che si occupa dei problemi
teologici – dopo un’ampia consultazione nel 1982 aveva approvato a Lima Battesimo Eucaristia Ministero (Bem). Il
corposo testo esaminava lo “status quaestionis” dei tre argomenti, cercando di
individuare possibili piste per superare storiche contrapposizioni tra le
Chiese; e chiedeva a queste, ed ai gruppi cristiani che lo volessero, di
studiare il documento e inviare a Ginevra le loro osservazioni. E perciò la Cdb
inviò al Bem una elaborata risposta in cui “narra” la sua prassi sui sacramenti
esaminati.
Il CCEE (Consiglio delle Conferenze
episcopali europee) e la KEK (Conferenza delle Chiese ortodosse e protestanti
europee) convocarono a Graz, Austria, per il giugno 1997, la II Assemblea
ecumenica europea, sul tema “Riconciliazione, dono di Dio e sorgente di vita
nuova”. In vista di tale appuntamento i due sponsor prepararono un
documento-base, inviato alle Chiese e Comunità locali per riceverne
osservazioni e proposte. La nostra Cdb – una goccia nell’oceano! – studiò il
testo, e inviò le sue proposte per migliorarlo. Ed anche esponenti della nostra
Comunità furono tra il “popolo ecumenico” di Graz (così come, nell’89, erano
stati a Basilea, alla I Assemblea ecumenica europea).
Negli anni
Ottanta e Novanta alcuni membri, e amici, della Cdb si sono recati per un
periodo più o meno lungo all’estero, per esercitare la loro professione e
vivere in solidarietà con le popolazioni al cui servizio si erano posti: in
Nicaragua, come medici, Maria Edoarda Trillò, Mauro Gasbarra e Chiara
Castellani – la quale poi andrà in Congo; come giornalista, Marco Cantarelli; in
vari paesi dell’America latina Giulio Girardi, uno dei massimi esperti della
“teologia della liberazione”; in Guatemala, come educatore, Gerardo Lutte; in
Somalia e poi in Kossovo, il dottor Andrea Cadelano.
Tutto questo ha creato una “rete” di contatti che ha corroborato la Comunità. Che, inoltre, è stata molto arricchita dalle visite fatte, o dalle conferenze tenute nei suoi locali, da vescovi come il brasiliano Tomás Balduino, o il messicano Samuel Ruiz, invitati in sinergia con il Cipax (Centro interconfessionale per la pace) diretto da Gianni Novelli; dal vescovo anglicano Colin Winter; dal vescovo melkita palestinese Hilarion Capucci; dalla teologa Adriana Zarri; dalle “Madri della piazza di maggio” argentine.
La Comunità ospitò
spesso persone o gruppi vittime di dittature politiche o militari. Nel ‘78
accolse un gruppo di studenti musulmani sciiti iraniani che protestavano contro
il regime dello scià Muhammad Reza Pahlevi.
Dopo la caduta e la strage del
campo-profughi palestinesi di Tell el Zaater – Libano, agosto 1976 – per
aiutare i sopravvissuti alcuni membri della Cdb cooperano a formare la sezione
italiana del Soccorso palestinese (divenuto poi Soccorso sociale per i
palestinesi) che, fino ad oggi, ha dato sostegno a “Najdeh” (associazione di
soccorso sociale per i profughi dei campi, tra cui Chatila), promuovendo in
particolare asili d’infanzia e assistenza all’artigianato tradizionale
femminile palestinese.
Invitando vari
esperti, in Comunità sono stati organizzati anche molti dibattiti sul conflitto
israelo-palestinese.
Per quasi vent’anni
ha fatto parte della Comunità una ragazza ebrea romana, Franca, segnata dal
fatto che suoi familiari erano stati deportati nei lager nazisti. Orgogliosa di
essere ebrea, di grande intelligenza e sensibilità, “curiosa” di conoscere,
capire, soffrire, per nulla in cerca di scelte esistenziali e religiose
alternative, Franca è venuta da noi ed è diventata compagna del nostro viaggio
di ricerca: nel rispetto reciproco di fede diversa, nella convivialità e nel
dialogo dell'incontro, nella sofferenza e nel dolore, nella gioia e nel
sorriso. Franca morì nella primavera del 2001. Qualche tempo dopo la sua
scomparsa, in Comunità c’è stata una memoria di lei, alla presenza di un
rabbino.
Costante nella Comunità è stata l’attenzione e
l’impegno nel campo delle marginalità sociali e dei diversi problemi del
territorio; da ciò sono scaturite molteplici iniziative che hanno visto
coinvolti numerosi membri della Comunità, ma anche persone a questa non
appartenenti. Anzitutto il Comitato romano per la difesa dei Diritti
costituzionali del Cittadino handicappato e/o invalido: esso opera da quasi
trent’anni a sostegno dell’affermazione della persona debole e impedita come
soggetto di “diritto” e non di “pietà”. E poi due Cooperative Sociali – “La
Sponda” (1980) e “Spazio comune” (1984) – fondate quali strumenti per
l’erogazione di Servizi di assistenza e di prevenzione nei settori
dell’handicap, della terza età, della tossicodipendenza. Inoltre, da circa
venti anni la sede della Comunità ospita anche il Comitato di Quartiere
Ostiense.
Nei locali della Comunità una volta
alla settimana opera il cineclub Spazio Comune: nato a metà degli anni Ottanta
dalle ceneri del precedente Centro Ostiense di Cultura Proletaria, interruppe
le attività per diversi anni, riprendendole nel ’97. A
gestirlo, oltre ai fondatori Vincenzo Meale, Laura
Rasola e Paolo Scala, si sono aggiunti Angela Scala e Raffaele Meale. Nella
nuova edizione il cineclub è diventato un punto fermo nella cinematografia
d’essai romana, collaborando con varie associazioni (Teatro Sala Uno, Soccorso
sociale palestinese, Cipax) e ospitando vari autori sia affermati che
emergenti.
Dall’85 presso la Comunità – ma distinta
da essa – vi è la sede nazionale di Vocatio,
movimento per il rinnovamento della Chiesa romana promosso da preti sposati.
Fin dai suoi inizi la Cdb si pose il grave
problema della proposta di fede ai bambini e agli adolescenti. Aiutato dai
genitori interessati, Giovanni per trent’anni ha guidato, ogni sabato
pomeriggio dell’anno scolastico, il “Laboratorio di religione”: momento e luogo
per riflettere, con i ragazzi, sui temi della fede, rispettando il cammino di
ciascuno. Con Giovanni, i ragazzi e le ragazze del “Laboratorio” hanno
pubblicato diversi libri sulla loro esperienza – libri apprezzati anche da
operatori pastorali di varie parrocchie e da pastore e pastori evangelici. Nel
2000 i ragazzi hanno preparato Il
Giubileone, un fumetto che
illustra in modo simpaticamente critico le contraddizioni dell’Anno santo
convocato da papa Wojtyla.
Il “gruppo biblico” della Cdb ha
accompagnato e arricchito il cammino della Comunità, offrendo e condividendo
gli stimoli di riflessione e di approfondimento delle Scritture. Con incontri
settimanali – ogni lunedì sera – il gruppo ha studiato di volta in volta un
libro della Bibbia. In questa ricerca molto è stato aiutato da Giuseppe
Barbaglio, partecipe della vita della Cdb, e uno dei più autorevoli esegeti
italiani. Il gruppo per due anni ha anche studiato il Corano, per avvicinarsi
con maggior conoscenza di causa all’Islam (un amico musulmano è venuto al
gruppo, ogni tanto, per aiutare a capire meglio il testo).
Siccome molti di noi abitano assai distanti da
via Ostiense, già dalla fine degli anni Settanta la Comunità si è suddivisa in
gruppi, per quartiere di residenza o di interesse (come il gruppo biblico). A
turno, ciascun gruppo è incaricato di preparare la Eucaristia domenicale, che
si celebra sempre e solo in Comunità, in particolare introducendo le letture
bibliche della data domenica o festa. Così ogni gruppo ristretto deve
affrontare i problemi esegetici e storico-critici legati ad un determinato
brano. Come lezionario si segue, salvo eccezioni, quello della CEI, che però
spesso, nel brano biblico scelto, omette alcuni versetti. In tal caso, leggiamo
per intero il brano biblico indicato per quella domenica.
Per l’Eucaristia usiamo canoni composti da
alcuni/e di noi. Da essi, in un certo modo, emerge la “teologia” e la
”ecclesiologia” della Comunità e il suo modo di pregare.
Nella Comunità è presente il “gruppo
donne”, che porta avanti una riflessione “di genere” sui testi biblici e la
denuncia del patriarcalismo che ancora pervade la struttura ecclesiastica e la
società. Il gruppo opera in sintonia e in collegamento con analoghi gruppi
presenti in altre Comunità cristiane di base e con numerose altre donne
appartenenti a realtà ecclesiali e laiche diverse.
Con il passar del tempo, sempre più
anche la Cdb è stata visitata da “sorella morte”. La liturgia per le sorelle ed
i fratelli defunti si è svolta di solito nei locali della Comunità, in un clima
di intensa commozione. Gli addetti alle pompe funebri sono sempre rimasti
meravigliati a veder celebrare, “non” in una “normale” chiesa, una Eucaristia
assai partecipata (nelle Cdb chiunque lo desideri può andare al microfono a
commentare le letture bibliche del giorno).
I nostri passi
più recenti
Negli ultimi anni la Comunità non ha
più elaborato documenti ampi su temi sociali o teologici; ha tuttavia spesso
preso posizione su alcuni problemi
sociali o ecclesiali. Ad esempio, quando la guerra in Bosnia era al suo acme,
la Cdb si interrogò a lungo sul conflitto e le sue cause, mettendo in particolare
rilievo le responsabilità di cattolici croati, serbi ortodossi, musulmani
bosniaci. Mentre si stava consumando il dramma di Srebrenica (espugnata l’11
luglio 1995 dalle truppe serbo-bosniache,
provocando un massacro di civili ed un esodo di massa della popolazione
musulmana), la Comunità, la domenica seguente, 16 luglio, decide di fare il
“digiuno eucaristco”, come gesto estremo per dire “no alla guerra”, e ancor più
“no alla guerra in nome di Dio”.
Sempre nel ’95 la Comunità scrisse una lettera
a Giovanni Paolo II, per protestare contro le forzate dimissioni imposte dal
Vaticano al vescovo di Evreux (Francia), mons. Jacques Gaillot, particolarmente
impegnato con il mondo dell’emarginazione sociale e della esclusione – civile
ed ecclesiale.
Dalla metà degli anni Ottanta, con una
vena che l’avanzare dell’età non ha affatto indebolito, Franzoni – aiutato
dalla Comunità – ha pubblicato una serie di libri di vario argomento: Il diavolo, mio fratello (1986),
tradotto in tedesco; Le tentazioni di
Cristo (1990); La solitudine del
samaritano (1993); Merda. Note di teologia sulle cose ultime (1997);
Giobbe, l’ultima tentazione (1997); Lo strappo nel cielo di carta. Riso,
fecondità, cibo. Note di teologia sulle cose ultime (1999); La donna e il cerchio (2001), Ofelia e le altre (2001); La solitudine del samaritano, ovvero elogio
della compassione (2002, edizione “aggiornata” del precedente del ‘93,
tradotta in tedesco); La morte condivisa.
Nuovi contesti per l’eutanasia (2002).
Ma, per rimanere ai problemi che Giovanni
aveva iniziato con La terra è di Dio,
egli ha dipinto e compiuto, per così dire, il “suo” trittico, con Farete riposare la terra. Lettera aperta per
un Giubileo possibile (1996), in vista dell’Anno santo preannunciato da
papa Wojtyla per il Duemila, e poi con Anche
il cielo è di Dio. Il credito dei poveri (2000). Il libro del ‘96 è stato tradotto in tedesco, in
Austria. Come Franzoni precisa, questi due scritti sono stati il frutto di
un’ampia collaborazione di donne e uomini della Cdb, e quindi, di fatto,
rappresentano il pensiero dell’intera Comunità.
Proprio durante il Giubileo del Duemila
celebrato in modo così mastodontico da Giovanni Paolo II, ricorreva il quarto
centenario del rogo di Giordano Bruno, il 17 febbraio 1600 condannato come
“eretico” dalla Santa Inquisizione, con il consenso di papa Clemente VIII. In
vista di tale centenario Giovanni – insieme a molti/e della Cdb, oltre che a
“laici” ed a esponenti di altre religioni
– ha dato vita a Campo de’ Fiori
2000, un’associazione laica per ricordare il martirio di Bruno ma, anche,
le molte altre vittime della repressione del potere, lungo i secoli. Il 17
febbraio 2000, in un cinema prospiciente la piazza ove arse il rogo di Bruno,
lo stesso gruppo ha allestito una mostra fotografica sulla vita e le opere del
martire. La mostra è stata esposta anche nella sede della Cdb, e poi portata in
varie scuole.
Nel 2003 il problema che più ci ha
angosciato è stata la minaccia, poi attuata, della “guerra preventiva” anglo-americana
contro l’Iraq. La Cdb, in quanto tale, ha partecipato a tutte le grandi
manifestazioni pubbliche contro la guerra; e, in dialogo fraterno con il
parroco di Santa Galla e con la comunità evangelica battista di via Pullino
(ambedue del quartiere Ostiense) ha preparato, e poi diffuso in migliaia di
copie alle stazioni della metro, un volantino – firmato da decine di gruppi,
parrocchie, congregazioni religiose maschili e femminili – per dire “No alla
guerra, Sì alla pace”. Il 5 marzo la Cdb ha partecipato, a Santa Galla, alla
giornata di digiuno e preghiera per la pace indetta dal papa per quel mercoledì
delle Ceneri.
Lo stesso giorno, otto “preti contro”
(così chiamati dal titolo di un libro-intervista di Corrado Zunino), tra cui
Giovanni, hanno scritto una lettera a papa Wojtyla, per esprimergli solidarietà
nel suo impegno per la pace in Medio Oriente.
Con la ri-pubblicazione de La terra è di Dio, e l’inquadramento
storico essenziale di quanto avvenne allora e in seguito è avvenuto, ci pare di
aver dato un avvio di risposta alle domande – “Perché fate cosi? Perché siete
così?” – che ponevamo all’inizio.
Una risposta corroborata – come si è visto
– da ampie citazioni di Farete riposare
la terra e di Anche il cielo è di Dio;
e arricchita – come si vedrà – da un commento di Raniero La Valle (già
direttore de L’Avvenire d’Italia e
senatore e deputato della Repubblica, giornalista e scrittore, il quale, pur
senza far parte della Cdb di san Paolo, ha seguìto come amico l’esperienza di
Franzoni); e, ancora, da parte di Giovanni, di una “ri-trattazione” – parola
che, nella sua radice latina, non significa “smentita” ma, piuttosto, nuovo e
sereno ripensamento che, ammaestrati dalla vita, si può avere su ciò che si è
detto, scritto, fatto in passato.
In questi anni ciascuna e ciascuno di noi
– come tutti, del resto – ha affrontato problemi, incognite, gioie e
sofferenze. Ma lungo i percorsi difficili dell’esistenza la Comunità è stata la
nostra piccola patria spirituale. Non, certo, isola felice, abitata da gente
perfetta e soddisfatta, monda da proprie contraddizioni e aliena da quelle
delle Chiese e della società: ma, piuttosto, minuscola realtà immersa nel
grande oceano delle Chiese e del mondo, attraversata e sferzata anch’essa
continuamente da dubbi, incertezze, difficoltà.
Grazie a Dio, malgrado tutto siamo ancora
qui. Siamo eguali, e siamo diversi, da come eravamo nel ’73. Intanto, pur
essendo sempre Giovanni in mezzo a noi, la Comunità si è sempre più pensata e
sentita come il vero “soggetto”; non siamo più – come un tempo ci si
etichettava – la “Comunità di don Franzoni” ma, a tutti gli effetti, la
Comunità cristiana di base di san Paolo. Non solo in senso sociologico, ma
teologico. Perciò abbiamo approfondito i ministeri nella Chiesa e il rapporto
Eucaristia-comunità, convinti che senza un radicale ripensamento di tali temi
una Comunità, come la più grande Chiesa, è irrimediabilmente destinata ad
essere clericale, e dunque stridente con il messaggio evangelico di liberazione
dalle caste sacerdotali.
Di conseguenza, dal punto di vista
biblico-teologico, e nella prassi conseguente, abbiamo superato i dubbi che
avevamo negli anni ‘73-76, e sottolineato sempre più la centralità della compartecipazione
di tutta la ekklesìa, la assemblea
locale, anche nella celebrazione dell’Eucaristia. Memori del “Fate questo in
ricordo di me” rivolto da Gesù a tutti i suoi discepoli e discepole, e dello
Spirito per questo donato a tutti e tutte loro nel giorno glorioso della
Pentecoste, siamo infatti venuti maturando la convinzione che è la Comunità (ogni comunità cristiana) il
vero “soggetto” del dono divino dell’Eucaristia, e che dunque è la Comunità, e
non un prete inviato dall’alto, il titolare del diritto-dovere di celebrare la
Cena del Signore.
La riflessione sui “segni dei tempi” e
sulla Parola del Signore, ci hanno
reso sempre più edotti che saremmo in flagrante contraddizione se, come Gesù,
non sapessimo “spezzare il pane”, cioè condividere la nostra vita con gli
altri. Perciò sappiamo di doverci mettere sempre più in discussione tra noi e
con gli altri, per cogliere occasioni e spazi ove baleni il Regno di Dio; ove
prevalga la cura, la convivialità e l’accoglienza degli altri.
Anche su una serie di altri temi – la
laicità della fede (il “vivere di fronte a Dio come se Dio non ci fosse”,
secondo la folgorante affermazione del teologo luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer);
la ri-lettura delle Scritture secondo il metodo storico-critico e secondo la
teologia femminista; il rapporto, fattuale e teologico, con le altre Chiese e
le altre religioni; la bioetica – abbiamo fatto passi che trent’anni fa non
erano nel nostro orizzonte.
Certo, se oggi guardiamo ad alcune
nostre affermazioni degli anni Settanta, e ad alcune polemiche di allora,
queste ci sembrano… scolorite dal tempo. Sorridiamo noi stessi di qualche
pizzico di presunzione che trasluce da alcuni nostri interventi. Se dunque qui
abbiamo citato – speriamo con levità – quei fatti e documenti è stato solo per
ricordare, obiettivamente, il cammino che abbiamo percorso, lineare o tortuoso
che sia.
Molto cambiati, per tanti aspetti, dal 1973 ad oggi, vorremmo che identico fosse rimasto lo spirito del nostro impegno: continuare a scavare nell’Evangelo; a farci interrogare dalla storia; dalla società; dai drammatici problemi Nord-Sud del mondo; dalle sfide della globalizzazione; dal collasso dei regimi est-europei e dalla supremazia dell’unico “impero”, quello statunitense; dalla vita di ogni giorno; dai cangianti modelli culturali. E sempre contrastando il potere nella nostra Chiesa cattolica romana, e anche nelle altre, secondo il “Ma tra voi non sia così” che Gesù intima a chi voglia entrare nel Suo regno (cf. Mt 20, 26). E memori delle parole del Signore sui “servi inutili” (cf. Lc 17, 10).
Non siamo approdati oggi a qualcosa di
definitivo, a sicurezze assolute. Anzi, ci sentiamo del tutto inadeguati di
fronte alla gravità, complessità ed urgenza dei problemi geopolitici, umani ed
ecclesiali incombenti. E tuttavia
affermiamo la legittimità ecclesiale e teologica dell’esperienza delle
Cdb.
Non ci pare, del resto, di essere isolati.
Infatti, se non proprio nella “comunione gerarchica” rigidamente delineata dal
Codice di diritto canonico, ci sentiamo però inseriti e pacificati nella più
ampia comunione con tanti fratelli e sorelle nella fede con cui vediamo di
essere in sintonia di ricerca e di prospettive; e, anche, profondamente legati
ai moltissimi cristiani e cristiane che ovunque nel mondo hanno la grazia e la
responsabilità di proclamarsi discepoli e discepole di Gesù morto e
risuscitato. Anzi, ci sentiamo legati con credenti di altre fedi e con tante
persone di buona volontà che ovunque cercano, giorno per giorno, di edificare
la pace nella giustizia e nella solidarietà.
Siamo ben coscienti di essere solo
un granello che ogni momento può essere spazzato via. Perciò, mentre
raccogliamo la nostra storia (infinitesimale segmento della Storia), imploriamo
la brezza dello Spirito, pregando che chi verrà dopo di noi faccia meglio di
noi.
La terra è sempre di Dio; anche il
cielo è Suo. Seppure pesi su di noi, per il microscopico spicchio che ci tocca,
la responsabilità di custodire il creato e di edificare un mondo giusto,
sappiamo infine di essere nelle mani dell’Ineffabile – benedetto sia il Suo
nome. E perciò abbiamo speranza.
Roma,
2 settembre 2003
La
Comunità cristiana di base
di san Paolo in Roma