Trent'anni : una vita, un soffio
L'incontro, del quale pubblichiamo le relazioni ed alcuni interventi, si
è tenuto il 4 ottobre del
Sono presenti all'incontro, oltre alle persone della comunità, molti
amici, alcuni a titolo personale altri in rappresentanza delle altre comunità
di base, come le comunità di Pinerolo, del Cassano di Napoli, di Formia, di
Verona, dell'Isolotto di Firenze, di Oregina di Genova, di Bologna, di Ancona.
È presente anche la comunità di S. Angelo a Scala con don Vitaliano. Sono
presenti diversi amici della comunità valdese di Piazza Cavour in Roma, e Pupa
Garriba della comunità ebraica di Roma.
Sono presenti anche alcuni giornalisti, tra cui Giovanni Avena di
"ADISTA" e Paolo Naso, direttore di "Confronti".
Sono venuti a trovarci poi, graditissimi ed inattesi ospiti, Alex
Zanotelli, di cui riportiamo l'intervento, e, sul finire dell'incontro, il
vescovo emerito di Saluzzo, da noi conosciuto quando era parroco alla
Garbatella, Padre Diego Bona.
I relatori della tavola rotonda ed i titoli delle rispettive relazioni sono:
Giuseppe Barbaglio, biblista:
"Una Comunità cristiana secondo il Nuovo Testamento"
Giovanni Franzoni, della comunità di San Paolo:
"Dissensi e
dissidenze: linguaggi tratti dall'esperienza civile ed ecclesiale per una corresponsabilità nelle Comunità di
base"
Letizia Tomassone, teologa e pastora valdese:
"Una teologa evangelica si interroga sul dissenso cattolico in Italia"
Presiede: Dea Sintonico, della comunità di San Paolo.
Introduzione alla tavola rotonda di Dea Santonico
Apriamo questo incontro, in cui vogliamo tutti insieme riflettere sui trent’anni di cammino della comunità dal ’73 ad oggi, con un grande, grandissimo benvenuto a tutte e a tutti:
- a coloro che trent’anni fa c’erano ed hanno vissuto quel momento forte in cui la comunità ha lasciato la basilica di S. Paolo per trasferirsi in questi locali
- a coloro che si sono uniti alla comunità negli anni successivi
- a chi ha fatto un pezzo piccolo o grande di strada con noi
- a quelli che, su cammini diversi, abbiamo incontrato in questi anni
- a coloro che sono qui oggi ma non conoscono la nostra storia
- e lasciatemi dare un benvenuto un po’ speciale a chi trent’anni fa non c’era perché non era ancora nato: alle ragazze e ai ragazzi che sono con noi oggi a condividere questo momento.
Vogliamo parlare di questi trenta anni con un occhio rivolto verso il passato ed uno che guarda verso il futuro. Ne parleremo con Letizia Tomassone, teologa e pastora valdese che abbiamo più volte incontrato in questi anni negli incontri nazionali delle donne e delle comunità di base italiane; Giuseppe Barbaglio, biblista, che ha seguito in questi anni la comunità, con un debole un po’ particolare per il gruppo biblico, per il quale è stato ed è un riferimento importante nel lavoro di ricerca e approfondimento delle Scritture, e Giovanni Franzoni, che non ha bisogno di presentazioni. Ci limitiamo a dire che è un assiduo, incallito frequentatore di questa comunità.
“Trent’anni: una vita, un soffio” - è il titolo che abbiamo dato alla nostra tavola rotonda. Interpreta così il titolo la comunità di base di Coteto di Livorno: “Una vita … ma se questa vita è offerta come testimonianza del cambiamento evangelico, come lievito che fermenta la massa, è meraviglioso averla vissuta. Un soffio, perché quando si ama il proprio cammino, la fatica, la sofferenza, le delusioni, il rifiuto non ci toccano più!”
Una vita – quella della comunità – che per molti di noi si è andata intrecciando negli anni con le storie delle nostre vite. Trent’anni e mezzo fa quando - nel marzo del ‘73 – mi sono affacciata per la prima volta in sala rossa (il locale della basilica in cui la comunità si riuniva) non potevo proprio immaginare che qui avrei conosciuto quello che poi sarebbe diventato mio marito, che qui avremmo celebrato sei anni più tardi il nostro matrimonio, il battesimo e la comunione dei nostri figli.
In questa breve introduzione possiamo dare solo pochissimi flash su questa storia lunga trent’anni, sperando che possano essere utili soprattutto per chi questa storia non la conosce.
Il ‘73 è l’anno dell’esodo dalla basilica di S. Paolo. Giovanni Franzoni si dimette dalla carica di abate. Le condizioni che il Vaticano gli aveva imposto per rimanere erano per lui inaccettabili. Molte le prese di posizione della comunità e di Giovanni che avevano portato a questo: la solidarietà agli operai che occupavano la fabbrica nel quartiere Ostiense, la denuncia del militarismo, la denuncia del concordato del ’29, per i privilegi che dava all’istituzione ecclesiastica. E poi c’era la nostra messa in basilica, con le chitarre, tante ragazze e ragazzi che si sedevano a semicerchio dietro all’altare e soprattutto – cosa non gradita in Vaticano – la preghiera dei fedeli libera e aperta a tutti. Il 9 giugno del ’73 esce La terra è di Dio, la lettera pastorale in cui Giovanni Franzoni denuncia le compromissioni del Vaticano nella speculazione edilizia a Roma e lascia intendere la sua volontà di proseguire il suo cammino da monaco fuori dall’abazia: il 26 agosto del ’73 l’ultima celebrazione in basilica, il 2 settembre la prima celebrazione in questo stanzone.
Le manovre del Vaticano seguitano e nel ’74 Franzoni viene sospeso a divinis (provvedimento che comporta il divieto di celebrare i sacramenti), per essersi espresso per la libertà di voto dei cattolici nel referendum sul divorzio. Dicevamo allora: non era in gioco un sacramento, si trattava di decidere su una legge dello stato che riguardava cattolici e non.
Due anni più tardi un ulteriore provvedimento: la riduzione allo stato laicale per la sua dichiarazione di voto di Giovanni per il Partito Comunista Italiano. L’unità politica dei cattolici, l’equazione cristiano = democristiano non si poteva toccare in quegli anni!
Franzoni insomma viene sempre punito, e pesantemente punito, per le sue scelte politiche, mai per motivi legati al discorso di fede.
A seguito della riduzione allo stato laicale, Giovanni scriveva al cardinal Poletti, vicario di Roma: “Quando pensai di andare a vivere tra la gente, di lavorare come gli altri e di conoscere la precarietà della condizione dei lavoratori mi ero forse dimenticato che sul mondo dei lavoratori - che votano per i loro partiti - oltre alla piaga della disoccupazione, della emigrazione e delle ristrettezze economiche, in Italia grava anche la scomunica. Ebbene io ho inteso ed intendo restare ‘ostaggio’ di questa massa di emarginati dalla Chiesa per motivi politici, finché chiarezza non sarà fatta per tutti. Nella Chiesa ci siamo, ma emarginati e sospesi, torneremo ad esserci con la pienezza dei nostri titoli e ministeri quando nella Chiesa non ci si chiederà più l’amputazione delle nostre scelte politiche”.
Non possiamo però dimenticare che insieme ai tanti provvedimenti presi dalla gerarchia ecclesiastica, grande è stata anche la solidarietà espressa a Giovanni ed alla comunità da parte di centinaia e centinaia di persone ed esponenti di movimenti legati alla gerarchia ecclesiastica. In seguito alla sospensione a divinis duecento sacerdoti firmarono un appello a suo favore. Ed espressero la loro solidarietà a Franzoni in occasioni diverse mons. Bettazzi, vescovo di Ivrea, e il card. Pellegrino, arcivescovo di Torino. Mons. Clemente Riva, vescovo ausiliare di Roma-Sud, ci fece visita in questi locali, dando un segnale completamente diverso rispetto alla gran parte della gerarchia ecclesiastica, che ignorava completamente la comunità: se Giovanni era punito, la comunità semplicemente non esisteva!
Questi avvenimenti vanno inquadrati nel contesto ecclesiale, sociale e politico di quegli anni. Il ’68, con la grande contestazione studentesca e operaia, il Concilio Vaticano II avevano acceso grandi speranze. Noi vivevamo nell’utopia che il cambiamento nella Chiesa così come nella società fosse davvero a portata di mano. In questo clima molte comunità erano nate in Italia e nella realtà romana: la comunità di S. Paolo non è stato un caso isolato. Era ed è inserita nel movimento nazionale delle comunità cristiane di base. Molti amici e amiche di varie comunità sono qui oggi con noi per esprimerci il loro affetto.
Dopo quegli eventi i riflettori della stampa – anche di quella di sinistra - si sono spenti su Giovanni – ormai personaggio troppo scomodo - e sulla comunità. Erano finiti gli anni in cui c’era l’onda che ci trascinava.
E la comunità? Mi ricordo una discussione infuocata in quegli anni su un libro, non sul suo contenuto, per il quale eravamo grati all’autore: Rosario Mocciaro, ma sul titolo: La comunità dell’abate Franzoni. La nostra comunità aveva una sua identità, non era la comunità dell’abate Franzoni – questo era ciò che contestavamo. A ripensarci credo però che ci stessimo dicendo una bugia: stavamo esprimendo ciò che ci sarebbe piaciuto essere, non ciò che eravamo. Allora noi eravamo la comunità dell’abate Franzoni.
In questi lunghi anni la comunità è cresciuta, grazie al nostro impegno, ma anche grazie ai tanti maestri e maestre che ci hanno aiutato. Oggi vogliamo molto bene a Giovanni, gli riconosciamo un ruolo profetico, ma non siamo più la comunità dell’abate Franzoni, né la comunità dell’ex abate Franzoni.
Tanti sono i gruppi e le attività che ruotano intorno alla comunità. Non possiamo parlarne qui. Voglio però dire che quella che considero la più grande novità di questi anni è l’attività delle donne nella nostra e nelle altre comunità italiane. Le questioni e i problemi posti dalle donne costituiscono La sfida per gli anni che abbiamo davanti a noi.
Voglio concludere questa breve storia dicendo questo: l’esperienza vissuta dalla comunità è ed è stata bella ma anche difficile, noi non abbiamo un copione da recitare e non sappiamo dove la nostra ricerca ci porterà. E’ un cammino che si va costruendo passo dopo passo, cercando di rispondere via, via alle domande che ci poniamo e che altri ci pongono. Quando, con Giovanni sospeso a divinis, stavamo interrogandoci su come e se celebrare matrimoni e battesimi, Laura e Vincenzo annunciarono a sorpresa, durante l’Eucarestia, il loro matrimonio. Dissero: “La responsabilità della scelta è nostra, ma nessuno può cancellare il fatto che la comunità è stata testimone dell’annuncio”. Un altro episodio. Due anni fa, un ragazzo ci ha chiesto di celebrare la festa di Confermazione in comunità. All’inizio abbiamo avuto qualche incertezza, abbiamo preso tempo: quella richiesta era nuova per noi e ci aveva un po’ spiazzati. Poi l’ ha spuntata lui.
Questo è il punto, il problema e il bello: gli eventi spesso ci scavalcano. Ma non è proprio questo che succede nella vita? E quella della nostra comunità è una vita vera. Niente di idilliaco. Un’esperienza con le sue contraddizioni, incertezze, paure, ma anche con la voglia di andare avanti, di crescere, di capire quello che succede intorno a noi, di continuare a confrontarci con le Scritture ed a testimoniare – per quanto ne siamo capaci – l’Evangelo di Gesù.
Relazione di Giuseppe Barbaglio
Non voglio fare un grande discorso, voglio dire due brevi cose in questo senso, cioè fare un tentativo di leggere insieme, quasi in parallelo, un po’ la storia di questa comunità e insieme la testimonianza storica delle comunità paoline. Voglio dare alcuni cenni, senza fare poi delle forzature in questo confronto, in questo parallelismo, e cogliendo qualche aspetto, in fondo, di somiglianza. Il tutto non con uno spirito celebrativo, tanto meno, come si dice oggi, autoreferente, ma diciamo con spirito anche autocritico, cioè di verifica, perché in fondo questi testi sono stati conservati a noi come Parola che ci interroga, ci coinvolge e in qualche modo ci cambia. Perché poi quando Paolo scriveva queste lettere non voleva ‘informare’ la comunità, voleva ‘formarla’, cioè cambiarla, perché le scelte di questa comunità fossero in linea con ‘la verità del Vangelo’, come diceva lui.
Allora ecco questi tre brevi cenni.
Nella I lettera ai Tessalonicesi - che poi è il primo scritto cristiano, risale al 50, quindi neppure 20 anni dopo la morte di Gesù ed è impressionante questa vicinanza – che Paolo affida a uno dei suoi affinché la porti all’assemblea dei tessalonicesi (Tessalonica era la capitale della provincia romana di Macedonia) in cap. 5, versetto 27, si dice: “Io vi scongiuro (quindi una presa di posizione abbastanza forte) per il Signore che questa lettera sia letta a tutti i fratelli”. Allora questa comunicazione orale poi dell’apostolo con l’assemblea. Questo è interessante, perché noi in genere traduciamo, quando Paolo scrive nel suo indirizzo, ‘alla chiesa’ e per noi suona come dire, un gruppo di persone. In realtà ‘la chiesa’ vuol dire l’assemblea dei credenti che si riunisce. E si riunisce all’ascolto anche delle lettere di Paolo.
Faccio questo breve piccolo
parallelismo: come già è stato detto, questa assemblea della Comunità di S.
Paolo si riunisce ogni domenica all’ascolto delle lettere di Paolo, all’ascolto
del Vangelo e degli altri scritti. Questo direi è un parallelismo abbastanza
evidente da farsi col Gruppo Biblico di cui Antonio è stato l’iniziatore, circa
trent’anni fa. Io sono arrivato grosso modo nel ‘77-‘78. Non c’è solo
l’ascolto, c’è un ascolto attento e c’è un ascolto anche di studio. Come la
comunità di Tessalonica si riuniva in assemblea all’ascolto della lettera di
Paolo, così
Il secondo cenno un po’ più
complesso: in I Corinti 11, 17 Paolo interviene sulle assemblee della comunità
di Corinto e interviene questa volta con un rimprovero, perché dice: “Io, prescrivendovi questo, non intendo affatto lodarvi (come dire “io vi
rimprovero”) perché voi convenite nell’assemblea per il peggio e non per il meglio”. Si riferiva alle cene,
alle assemblee della comunità di Corinto che si riuniva a celebrare quello che
lui dice ‘
Allora che cosa mancava a Corinto
di così grave per cui Paolo li rimprovera? Mancava quello che possiamo dire il
‘koinòn dèipnon’, cioè la cena comune, la cena condivisa. Quindi a Corinto non
è che negavano che ci fosse la presenza di Cristo nella Cena; no, il loro
difetto era che c’erano quelli che mangiavano a parte la loro cena, gli altri
non mangiavano nulla perché non avevano nulla e pretendevano che questa fosse
Direi, in sintesi, che per Paolo
Questo mi sembra interessante per
Terzo e ultimo testo: in I Cor.14,26 Paolo parla di queste assemblee di Corinto, questa volta non tanto sotto l’aspetto della Cena del Signore, dove avvenivano quelle cose così gravi per cui lui interviene a dire: “La vostra pretesa Cena del Signore non è una cena perché manca di solidarietà concreta tra di voi”, ma le assemblee si ritiene fossero le stesse, però alcuni ritengono che queste ‘assemblee della Parola’ fossero distinte dalle assemblee eucaristiche. Io ritengo che probabilmente erano le stesse assemblee, anche perché abbiamo una notizia di Plinio il Giovane, che era governatore della Bitinia, nel 110 circa, il quale parla di queste riunioni dei credenti in Bitinia, i quali si riuniscono di notte, cantano un carme a Cristo come fosse Dio e poi si riuniscono sempre per una cena fraterna.
Allora in questo testo Paolo dice: “Che cosa dunque, o fratelli, vi devo dire? Quando voi convenite (cioè venite tutti insieme a costituire un’assemblea) ciascuno di voi ha un salmo (o è un salmo delle Scritture ebraiche o più in generale un canto; di per sé il salmo era un canto accompagnato da strumenti musicali e io ricordo che anche qua Salvatore, con la chitarra, accompagnava i canti), ha un insegnamento, ha una rivelazione, ha una lingua (la lingua è la glossolalia, cioè questo esprimersi sotto una fortissima emozione, per cui il linguaggio non è razionale e nessuno lo capisce), e chi ha l’interpretazione”. Perché Paolo dice: questo che non fa un discorso comprensibile deve tacere nella comunità, a meno che ci sia nella comunità colui che lo interpreta, che si alza e dice: “Ecco, il nostro fratello voleva dire questo”. Ciascuno ha una lingua, ha un’interpretazione.
Questo mi sembra interessante. E forse uno degli aspetti più caratteristici, forse anche più importanti, è che ciascuno è attivo nell’assemblea, con il suo contributo di parola. Ora in questa comunità di S. Paolo questo è un’esperienza di tutte le domeniche, di tutte le assemblee.
Direi anche un’altra cosa. Paolo diceva che questi diversi interventi di diverso genere nella comunità erano espressione dell’animazione, dell’ispirazione dello Spirito e cioè lo Spirito distribuiva i suoi doni e chi aveva una parola esortativa, chi una parola rivelativa, chi una parola profetica e in questo modo la comunità, dice, è un edificio che si costruisce.
Allora ecco questa partecipazione attiva di tutti e di ciascuno. Ed il fine di ciò è, come dice Paolo: “Tutto questo avvenga ai fini della edificazione”. Questa parola poi nella tradizione ha assunto significati moralisti assolutamente di poco conto, ma originariamente questa oikonomè è la comunità, che è un edificio. Della comunità di Corinto Paolo dice: io sono un capomastro che ha gettato le fondamenta e il fondamento è Gesù Cristo e poi vengono tutti gli altri e costruiscono sopra.
Ora questo è interessante, perché non solo c’è la partecipazione attiva di tutti, ma questa partecipazione attiva di tutti è costruttiva della comunità. La comunità non è qualche cosa di fatto, non è qualche cosa che esiste, ma è qualcosa che si innalza come un edificio. E Paolo dice: quello che io vorrei dirvi è che tutta questa vostra partecipazione abbia quest’unico scopo: la crescita, la maturazione della comunità, insieme.
E infine vorrei citare pure l’altro testo di I Cor.11, 2 e seguenti., in cui Paolo dice: “Se c’è una donna che prega e che profetizza" (quindi queste parole sempre ispirate dallo Spirito, mentre tutti siamo preoccupati del riferimento di Paolo per le donne all'uso del velo, ecc.). Però la cosa importante da rilevare è che in questa comunità di Corinto non partecipavano attivamente solo i maschi, ma anche le donne. Lo Spirito distribuiva i suoi doni di parola, costruttivi della comunità, alle donne. Quindi certo c’è questo aspetto particolare, ma in fondo il discorso interessante è che nella comunità di Corinto Paolo riconosce il diritto di queste donne profetesse a parlare (dove profetesse allora voleva dire tutte quelle che intervenivano nella comunità con la parola, ecc.).
Nella Comunità di S. Paolo - io in quegli anni partecipavo alla Cena del Signore - ero molto colpito dagli interventi di diverse donne, che avevano uno spirito particolare, un carisma particolare di pacatezza, di saggezza. Me lo ricorderò sempre, questo mi ha sempre molto colpito.
Vorrei concludere questi piccoli accenni - che però mi sembrano anche significativi di un’esperienza che è molto più ricca di quello a cui io faccio riferimento qua - con il commiato, il saluto. Perché in queste assemblee non solo si leggeva la parola di Paolo, ma Paolo salutava tutti i presenti e salutava anche con delle espressioni molto belle. Alla fine della I Cor. dice: “Il saluto è di mano mia”. Perché Paolo dettava le lettere (scrivere una lettera era molto complicato, c’erano proprio degli scrivani professionisti), però alla fine prendeva lui il calamo e scriveva: “il saluto è di mia mano”, magari con i caratteri grossi, come dice in un altro caso: “Se uno non ama il Signore sia maledetto”. E poi ripete questa formula aramaica che doveva essere usata nelle comunità: “Maranathà, il Signore sta per venire”. E poi il saluto e l’augurio, al v.23: “La grazia del Signore Gesù sia con voi e il mio amore (bellissimo questo) con tutti voi in Cristo Gesù”.
E’ un bel saluto che io vorrei riprendere per voi tutti.
Io credo che se sono qui questa sera, se sono ospite e accolta dalla vostra generosità a condividere questo momento di cammino, ci sono anche dei motivi che appunto coinvolgono il mio essere parte di una Chiesa protestante molto radicata in Italia e il mio essere donna. Questi due primi motivi sono quelli che poi mi permettono di porvi delle domande sul vostro cammino, perché sono le due cose che fanno sì che noi abbiamo in realtà dei tratti di storia in comune con questa Comunità, ma anche più in generale con le comunità di base in tutta Italia; il mondo protestante italiano ha veramente una storia di grande spessore in comune, una storia che è fatta di persone, che è fatta di luoghi, che è fatta anche di volti e di presenze che sono qui questa sera, che è fatta di riviste (‘Com Nuovi Tempi’), che è fatta di movimenti: all’inizio, anche ‘Cristiani per il Socialismo’ è stato un crogiuolo molto importante proprio di contatto ecumenico; ma, aldilà dell’ecumenismo come lo si intende oggi: di contatto di vita e di ricerca di un cammino più autentico che stava sotto queste divisioni e queste finte contrapposizioni. Perché fin dall’inizio, anche se io ero molto giovane e soprattutto molto inconsapevole, negli anni ’70, però anch’io ho respirato quest’aria di un cammino comune, di un’appartenenza a uno stesso popolo; anche proprio frequentando questo luogo negli anni ’70 e ’80.
Questo pezzo di storia comune per me è rappresentato anche da alcune persone, per esempio io sono stata pastora a Genova e a Genova nelle chiese evangeliche ci sono persone che hanno fatto il cammino delle comunità di base di Genova; persone che quindi hanno fatto anche da ponte, in modo molto forte. Così come alcune battaglie che all’interno delle nostre chiese valdesi metodiste sono state fatte, sono state sostenute dalle vostre prese di posizione: battaglie sulla laicità, battaglie sulla critica al potere, che naturalmente anche noi, come Chiesa che vive come istituzione, dobbiamo affrontare. Temi sui quali ci avete in realtà aiutati a sfrondare alcune nostre difficoltà, ci avete aiutati a portare avanti una critica più forte e ad essere testimoni più autentici, per esempio anche sul tema del sacerdozio universale. Quindi voi stessi avete aiutato noi, protestanti italiani, a essere più autentici in questi cammini che percorrevamo, che certo in linea di principio ci appartenevano già, ma posizioni che bisogna sempre riguadagnare, perché niente è dato per scontato.
Così come una cosa su cui io mi sento oggi debitrice - in senso alto, in senso positivo - e su cui credo che dovremo fare ancora molto cammino comune, è l’attenzione al fatto che i valori cristiani non sono i soli valori religiosi vicini al divino che esistano nella storia dell’umanità. E quindi sul dialogo con altri cammini di fede, sulla questione del canone e dell’extra-canone. In questi giorni sfogliavo il vostro materiale prodotto qua nel laboratorio di religione con i ragazzi e le ragazze, ed è veramente molto interessante e molto vitale questo fatto che si attinga allo stesso modo da tradizioni religiose diverse. Questo ancora assolutamente non è una consuetudine dei percorsi delle comunità di fede che si riconoscono grosso modo nel mondo cristiano, anche se qualche tentativo viene fatto. Ma c’è ancora molta resistenza e forse c’è più resistenza oggi che non negli anni ’80, ad accogliere i cammini di fede di altri popoli e di altre culture, come cammini che non solo ci arricchiscono, ma stanno sullo stesso piano. Perché questo è il punto: come attingiamo alla Parola di Dio che ci è affidata nella Scrittura ebraica e nella Scrittura cristiana, così possiamo attingere da altre tradizioni, da altre Scritture e anche da altre tradizioni orali.
Questo è qualcosa in cui io sento che ancora voi come comunità di base, e forse proprio come comunità di S. Paolo di Roma, potete essere in qualche modo nostra guida, nostri maestri, anche forse per mostrarci i vicoli ciechi e quindi per aiutarci a prendere le strade più dirette e più luminose.
Per quanto riguarda il fatto che io sono qui anche grazie al rapporto con le donne, anche di questo io sono molto grata, perché è nel rapporto con le donne delle comunità di base che io ho potuto vivere non soltanto una ricerca teologica intellettuale, una ricerca basata sui libri, ma una ricerca di comunità. Questo è, io trovo, la più grande ricchezza, questa capacità cioè di scivolare dal livello della riflessione sui linguaggi su Dio e dalla riflessione su Dio, alla pratica; dove la pratica della liturgia, la pratica dei gesti, l’invenzione di gesti, di immagini, di parole, di modi di essere in relazione fa diventare la comunità un’altra cosa.
Credo che questa sia una sfida che ancora è posta ai gruppi di donne in generale, ma anche naturalmente alle comunità miste, dove, quando il discorso è passato, è passato ancora soltanto a livello della testa e non ancora a livello dei gesti. Da questo punto di vista io non conosco in realtà la pratica della Comunità di S. Paolo negli ultimi anni e quindi magari mi potete raccontare invece quello che fate nell’Eucarestia, quello che fate nel modo di essere comunità. Però credo che questa capacità di creare comunità a partire da una ricerca intellettuale sia qualcosa che fa la ricchezza del percorso delle donne delle comunità di base.
Quindi non si tratta soltanto di cambiare il linguaggio che noi usiamo su Dio, ma di cambiare il nostro modo di essere comunità.
A partire un po’ da queste premesse di cammino comune, volevo provare a porre alcune domande che a me stanno a cuore e che riguardano il nostro essere comunità cristiane oggi. Perché oggi noi siamo in una società dove la percezione del sacro e del divino è una percezione molto diffusa. Le persone, pur non avendo più una educazione di tipo cristiano o di tipo religioso, come poteva essere un tempo, vivono tuttavia non soltanto la ricerca e quindi il senso dell’assenza, come succedeva agli agnostici anni fa, ma hanno la percezione che esiste un altrove, un aldilà, un essere presente del sacro nella loro vita e che nelle cose positive e negative che accadono, è all’opera questo tessuto della vita che tutti e tutte ci contiene e che tutti e tutte ci fa essere in relazione gli uni con le altre.
Ecco, di fronte a questo
cambiamento proprio del modo di essere delle persone, che però non diventa più
istituzione, non si coagula più in un essere comunità, in un rito, in una cosa
condivisa, come risponde una comunità come la vostra? Come risponde a questa
percezione del sacro? Qual è il vostro modo di esprimere il vostro contatto con
la presenza di Dio, attraverso dei gesti che naturalmente non possono essere la
semplice ripetizione di quelli istituzionali? Giustamente Dea diceva: noi
vogliamo essere
Qui c’è un secondo nodo, ed è il fatto che oggi questa percezione del sacro si accompagna anche da un’altra parte ad un’alta consapevolezza del tema della giustizia. Magari non sono le stesse persone che percepiscono le due cose, ma questa questione della giustizia, che per voi è stata così fondamentale, tanto che si può dire che il vostro cammino è nato proprio da una ricerca sulla giustizia, questa ricerca come si collega nel vostro cammino ai temi della fede? Come è possibile oggi per voi tenere insieme le due domande? Questa è una sfida che anche noi, come comunità riformata, sentiamo; è una domanda che ci poniamo in modo molto forte, perché è facile essere solidali e agire o fare analisi sulla globalizzazione, sull’ingiustizia, sulla pace e la guerra, più difficile è tessere questo legame, un legame non scontato e che non legittima dei gesti - perché noi veniamo da una critica di qualsiasi legittimazione sacra dei gesti - ma che ci permetta di radicare il nostro agire in un livello più profondo della realtà.
E poi un’altra cosa volevo domandare: non so se io vivo in una realtà, quella veronese, particolarmente fortunata, ma trovo che nel mondo cattolico normale, istituzionale, la lettura della Bibbia, l’ascolto della Parola biblica, sia abbastanza promosso. Allora in questo senso una delle parole chiave degli anni ’70 delle comunità del dissenso ‘riappropriarsi della Bibbia’ è qualcosa che è entrata a far parte del mondo cattolico. Allora in qualche modo lì c’è una perdita di mordente critico; c’è un guadagno dal punto di vista che si allargata la capacità di accostarsi a questo testo e quindi di farlo diventare fermento critico e anche tutte le cose che ci ha mostrato stasera Barbaglio. Allora le comunità di base da questo punto di vista si definiscono ancora per scarto rispetto alle parrocchie, oppure c’è un avvicinarsi in qualche modo e lo scarto ancora resta soltanto dal punto di vista dei ministeri - che e rimarrà probabilmente il nodo più grande e più importante posto da questo tipo di cammino? Cioè: il ministero come ministero della comunità e non come il ministero di qualche personaggio, di qualche vocazione individuale: il ministero vissuto insieme dall’assemblea che si riunisce ad ascoltare.
E allora se c’è questo avvicinamento e in un certo senso questa fecondazione che voi avete portato all’interno del mondo cattolico nel senso della lettura della Bibbia, dell’Antico e del Nuovo Testamento, come chiesa voi continuate a vivere come una chiesa radicata territorialmente? Ho letto un’analisi sulle comunità di base in Italia che dice appunto: sono chiese che esprimono il loro meglio nell’essere radicate in un territorio, ma il respiro nazionale è meno evidente, non si è mai creata una struttura di fatto che vada al di là di un coordinamento.
Io ho riletto la storia delle Chiese Riformate nel 1500 e la cosa impressionante è che erano anche loro dei piccolissimi gruppi che si riunivano nelle case o magari in stanze come queste e che poi però, forzate dagli eventi, si sono date delle strutture collettive molto forti, delle confessioni di fede comune; per non sparire, per non essere riassorbite in un territorio, in una Chiesa che era più forte di loro, per conservare la loro identità. Ora voi come riuscite a conservare la vostra identità invece in questa situazione che è molto forte a livello locale, ma che non è legata a qualcosa di più forte a livello nazionale?
Ancora sulla questione dello scarto dal magistero cattolico, io credo che alcune delle ricchezze che voi avete riguardano non soltanto le questioni della giustizia, ma anche le questioni dell’etica. Per cui noi abbiamo in questi anni Barbero che viene allontanato a causa del rapporto con gli omosessuali, abbiamo tutte le questioni legati all’etica familiare e agli ex-preti che si sposano, ma tutto questo rischia di restare in una invisibilità rispetto alla Chiesa cattolica istituzionale. Allora, solo a partire da questo radicamento territoriale, come potete far fiorire di più questi elementi che sono elementi di trasformazione della Chiesa come assemblea e che nascono sicuramente anche dalla teologia del corpo? Nascono cioè dalla capacità di rimettere insieme spirito e corpo, e quindi dalla capacità di ridare pienezza e senso alla vita, che è fatta appunto di relazioni che non passano solo attraverso la testa, ma attraverso tutta la nostra esistenza.
L’ultima cosa è questa. Credo che in Italia l’attenzione alla teologia della natura, a quello che a volte si chiama l’ecofemminismo, alla questione della terra, alla questione dell’ambiente è stato portato al livello della riflessione teologica proprio da Franzoni. Oggi sono temi che sono sulla bocca di molti teologi, in molte discussioni su molte riviste, ma sono temi che sono nati in queste assemblee, sono temi che sono nati grazie alla vostra riflessione. Quindi anche di questo penso che dobbiamo essere grati e riconoscere in un certo senso un dono che ci è stato fatto e nel quale sono certa che la presenza delle donne di questa Comunità non è stata secondaria per formare questo pensiero, per formare questa teologia che oggi ci arricchisce.
Vorrei anzitutto un poco giocare con le parole, perché tra ‘dissenso’ e ‘dissidenza’, di per sé, cogliendo le persone di sorpresa, potrebbe non esserci tanta differenza. Dal punto di vista etimologico la differenza c’è, anche se poi con l’uso si perde un po’, perché ‘dissenso’ significa un sensus diverso, cioè un’opinione diversa, mentre ‘dissidere’ vuol dire stare da un’altra parte, considerandosi esterni. Però, se mi perdonate, stiamo un po’ in questo gioco.
Innanzitutto io credo che il dissenso vada distinto dal pluralismo, perché nelle Chiese in generale, nelle comunità antiche di cui parlava Barbaglio, il pluralismo di espressione verbale o del gesto rituale era grandissimo. Lui non l’ha detto, perché si è attenuto alle lettere ai Corinti e ai Tessalonicesi, ma nello stesso suo lavoro su "Gesù, ebreo di Galilea" dice espressamente che probabilmente i primissimi discepoli ebrei osservanti rigorosi del gruppo di Gerusalemme spezzavano il pane, mentre non si parlava di bere il sangue, cosa che per gli ebrei era considerata abominevole, orribile. Quindi non è assolutamente escluso, Tanto più che Luca, testimone tardivo, ricorda che ci poteva essere la comunità di Gerusalemme di ebrei osservanti i quali spezzavano il pane nel senso di condividere, quasi di assimilare, di assumere la parola di questo loro grande maestro, di questa manifestazione della sapienza. Probabilmente non ci sono neanche le grandi espressioni di messianismo, mi pare, ma proprio di accoglienza di questo. Che poi dopo, in comunità nate appunto a Corinto, città mercantile, si fossero messi insieme i due gesti di spezzare il pane e bere il vino è comprensibile.
Io ricordo ancora che Padre
Cuniberto Mohlberg, mio professore di liturgia, diceva che c’erano comunità
copte d’Egitto che celebravano con acqua e pesce. Potevano ricordare
probabilmente
Letizia mi domandava com’è adesso il nostro rapporto con il gesto. Certo, nelle comunità di base, per esempio quella di San Paolo, ci si è riappropriati anche del gesto, questo è vero. E si è praticamente demolita la figura del sacerdote celebrante: il cosiddetto canone è pronunciato coralmente, poi si spezza il pane e si beve tutti dal calice. Però noi abbiamo notato da qualche anno che i nostri giovani alla messa non ci vengono, neppure se "riappropriata", perché quello che noi ci siamo conquistati faticosamente trent’anni fa, per loro è di nuovo da riconquistare. La prevalenza clericale è stata infatti sostituita dalla signoria del microfono ed esiste una gerarchia anche su questo. I giovani hanno difficoltà a venire al microfono, a inserirsi nel nostro linguaggio, nel nostro approccio, quindi cercano altre forme. E nei campi che si fanno, dove i giovani sono in maggioranza, ci stanno imponendo delle cose nuove. Per esempio all’ultimo campo si era affidata ai giovani di Olbia la celebrazione della Cena conviviale e questi non ci hanno messo né il pane né il vino, ci hanno messo canti e gesti che in principio sono stati accolti con diffidenza: anche a me, con tutta la mia anima di benedettino, liturgista ecc., si rovesciavano le budella. I gesti sono stati sostanzialmente due, uno di apporto, l’altro di getto. Quindi dei mattoni (che poi erano delle scatole di cartone), su ognuno dei quali c’era un pensiero, un desiderio, un’aspirazione e quindi c’è stato un lavoro durato venti minuti, con tutti quanti che scrivevano qualche cosa e poi si costruiva questa cosa là nel mezzo. Poi un altro gesto, che ha prodotto ancora più emozione: questi ragazzi se ne erano venuti dalla Sardegna con le tasche piene di sassolini di arenaria presi dalle loro spiagge che sono stati distribuiti tra tutte le persone; poi c’era un canestro nel mezzo e ciascuno andava lì e pronunciava una frase per "mettersi in gioco". Probabilmente loro sono un tantino più scettici di noi sulla questione del futuro, sono più ancorati al presente che non al futuro e quindi ecco questo mettersi in gioco senza sapere se ci sarà poi un gran risultato.
Io francamente sono rimasto sconcertato e mi batterò fino all’ultimo sangue perché resti il gesto del pane e del vino, ci mancherebbe altro; però non posso assicurare niente su quello che succederà, se accanto a questi gesti così legati alla memoria della passione, della testimonianza, della dedizione di Gesù di Nazareth se ne producessero degli altri ugualmente ancorati a questa memoria, ma non così legati alla tradizione liturgica.
Resta però il discorso del convenire. Parrebbe quindi un cordolo, questo del convenire insieme e partecipare allo stesso gesto, per produrre delle emozioni che poi finiscano lì e non si trasformino però in una crociata, in un investimento, in una sacralizzazione di ciò che si farà dopo, ma si confidi nel fatto che, una volta giunti a questa maturazione della consapevolezza della coscienza, ciascuno assuma là dov’è e con chi è le proprie responsabilità sulla vita, sull’amore, sulla vita degli altri, sulla pace e così via.
Quindi la diversità non è un grosso problema.
Il dissenso non è solo diversità,
fu conflitto. Fu conflitto perché il termine ‘riappropriazione’ sottintende che
c’è stata un’espropriazione, sennò tu non ti puoi riappropriare. Perché un
conto è andare a rubare in tasca degli altri, un conto è riprendersi ciò che
era proprio. Quindi la riappropriazione della Parola, dire cioè che
Ricordo sempre nei primi tempi
della comunità una sera c’era un vangelo che palava dei pubblicani e, ad un
certo punto, diceva che Gesù stava coi poveri e quindi aveva preso con se anche
i pubblicani. Dopo quasi un’oretta finalmente qualcuno, mi pare Ramos, disse:
“Ma guardate che i pubblicani non erano poveri, erano degli esattori delle
tasse, collaborazionisti dei dominatori romani, che strozzavano la gente:
davano ai romani quello che gli
chiedevano e il rimanente lo intascavano loro”. Quindi questa era gente
veramente odiata nei villaggi, nei paesi e così via. Allora mi ricordo che si
alzò Aldo e disse: “Io scarico quarti di bue al mattatoio la mattina alle tre e
qui mi fate perdere un’ora! L’intellettuale doveva dircelo prima, sennò che
cosa ha studiato a fare, se non per insegnare a me operaio qual è il
significato della Parola? Dopo poi se volete ve lo dico anch’io, che allora i
pubblicani erano una classe subalterna, Gesù sapeva che comunque erano dei
subalterni, erano anche loro dei servi, che però avevano accettato il pane del
padrone”. Quindi anche allora si recuperava il significato dell’essere teologo
non per insegnare, per far da filtro tra
Questo fu quello che Balducci chiama ‘dissenso creativo’ e anche Enzo Mazzi ha scritto un ottimo libro su questo dissenso creativo. Il dissenso creativo non è il mugugno, la maldicenza, il dir male del vescovo, della Chiesa, nei corridoi; non è soltanto malcontento, noia, tedio, disaffezione per il rito. Dissenso vuol dire proposta, anche magari battendo il pugno sul tavolo, come avete fatto voi donne: “Mi riprendo la vita che è mia che voi pretendete di gestire”.
Quindi riappropriazione della parola, riappropriazione del gesto, ricollocazione dell’intellettuale nel suo contesto e nella sua funzione vera. Tanto più che poi scoprimmo che anche l’intellettuale aveva qualcosa da imparare. Uscì fuori la teoria della cassaforte: sapete che certe casseforti hanno varie chiavi, complicatissime, e che nessuno in una banca, nessuno nel caveau ha tutte le chiavi, bisogna essere in tre o quattro, ciascuno con la sua chiave, per aprire la cassaforte. In questo senso era vero che l’operaio, l’impiegato, la persona che non conosceva l’ebraico o il greco non aveva la chiave di accesso a conoscere il significato di quella sentenza, di quell’opinione, di quell’evento; ma era vero anche che quando si parlava per esempio di amore, l’intellettuale, il prete che andava tentennando e facendo esperienze anche un po’ balorde, aveva bisogno di sapere… Per esempio il parlare di fedeltà matrimoniale: cosa ne può sapere il prete celibatario che, caso mai, se ha avuto qualche scivolone, non certo è vissuto nell’ambito dell’esperienza? Poteva venire una pastora protestante a dirci cos’è l’amore, la fedeltà ecc., ma su certe cose non si sapeva niente, si potevano usare parole di un predicatore come Gesù di Nazareth, probabilmente di cultura pastorizia, un contadino mediterraneo, ma di pecore, di vigne, noi cittadini sappiamo pochissimo, uno fa riferimento alle favole, alle poesie ecc., ma non ha quel contesto. Quindi effettivamente anche l’intellettuale per capire aveva bisogno dell’altro che aveva l’altra chiave, quella dell’esperienza diretta nel quotidiano, che invece chi ha studiato soltanto in seminario o in accademia o nelle biblioteche non ha.
Allora creativo in questo senso. Anche disobbediente, però a ragion veduta, non una disobbedienza capricciosa, aspra.
Quindi riappropriazione dei gesti, riappropriazione dei ministeri, riappropriazione anche dell’autonomia di scelte politiche. Questo fu estremamente importante ed è stato già molto sottolineato. Quando fummo attraversati da questi avvenimenti ci siamo sempre domandati che cosa significava. Comunque una prima cosa ci fu chiara: che al momento in cui si faceva questo gesto dello spezzare il pane, si auspicava che si giungesse a un segno di determinazione. Gesù aveva dato la sua vita esprimendola con un gesto e dicendo “Fate questo in memoria di me”. Certamente non intendeva dire: “Prendete e mangiate e dite grazie”, come fecero quelli delle nozze di Cana, che quando Gesù gli trasformò l’acqua in vino dissero: “E’ buono” e Gesù dovette rimanerci male, perché aveva fatto un gesto che chiedeva una comprensione più alta. Così molta gente che fa la comunione e dice: “E’ buono, mi consola, mi nutre, mi rende felice ecc.” non ha capito niente, perché “Fate questo in memoria di me” significa: “anche voi condividete e spezzate la vostra vita, anche a costo di dover pagare dei prezzi alti”. Quindi questo è il momento, il momento in cui si dice che il convenire insieme è finito e ciascuno esce; non c’è una indicazione: esci per andare dove? Nel collettivo, nel sindacato, nel partito, nel gruppo che lavora sui problemi sociali, sugli immigrati, sulla tossicodipendenza… Ciascuno poi deve avere la responsabilità di fare le sue scelte.
La seconda chiarezza venne sul discorso ‘giustizia e carità’. Ricordate che nel 1974 fu fatto un convegno: ‘Attese di giustizia e carità nella diocesi di Roma’, che poi fu chiamato ‘Convegno sui mali di Roma’.
Questo convegno era stato previsto come ‘Attese di carità nella diocesi di Roma’ e lì ci furono le pressioni fortissime delle ACLI, del sindacato e di don Di Liegro, perché fossero ‘Attese di giustizia e carità’. E non ricordo se si appellarono a un testo che io cito costantemente, un testo della Apostolicam Actuositatem, cioè il documento sul laicato del Concilio, in cui si diceva: “e non si dia ai poveri a titolo di carità ciò che ad essi è già dovuto a titolo di giustizia”, affermazione che potrebbe sembrare addirittura ovvia, ma che è determinante. Cioè c’è il blocco della carità: il cristiano non può permettersi il lusso di considerarsi nella grazia, nella misericordia, nella compassione, nella solidarietà fraterna, se prima non ha pagato, sul fronte della giustizia, tutto il suo debito, personale e collettivo.
Questa è una cosa che piano, piano si è andata chiarendo. Quindi, chi lede la giustizia, primo: lede la giustizia, secondo: per così dire si blocca anche spiritualmente. Tanto è vero che poi c’è nel Vangelo la famosa frase: “Se tu stai all’altare a portare il tuo dono e ti sovviene che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono all’altare, va’ prima a riconciliarti con tuo fratello e poi dopo tornerai all’altare”.
Quindi questo è stato un po’ il lavoro di riappropriazione e quindi anche di dissenso costruttivo.
Per venire poi alla "dissidenza", vale a dire che noi siamo "fuori" e non ce ne frega più niente, questa non c‘è mai stata. Ci possono essere stati momenti ma non di più. Però questa tendenza in certi ambiti c’è stata nel settarismo confessionale: più l’altra chiesa combinava delle porcherie, delle atrocità, torture ecc., più si diceva: “Ah, vedi? Sono la falsa chiesa”.
Il dissenso soffre perché
Quindi in questo senso noi non ci possiamo costituire in soggetto ecumenico, possiamo fare frammenti di ecumenismo, provocazioni, momenti di contatto, di avvicinamento, ma noi saremo sempre proclivi a soffrire degli abusi della Parola di Dio che si fanno nella Chiesa cattolica romana in modo particolare, non di gioirne, non di dire: “Ah, ah, vedi che abbiamo avuto ragione noi a staccarcene”. Ordinariamente qualsiasi persona, in qualsiasi tradizione, in qualsiasi cultura, in qualsiasi ritualità, in qualsiasi riferimento simbolico al mondo, che Di Nola chiamava ‘delle potenze superiori’, se non è uno che divida il mondo metafisicamente in buoni e cattivi, deve soffrire sia delle malvagità degli altri, sia delle malvagità della propria gente.
Quindi forse il dissenso, rendendolo consapevole, si potrebbe allargare: fare delle chiese di dissenzienti, che interrompano continuamente il rabbino, il pastore, il prete, il vescovo ecc. e dicano: “Sì, quello che dici ha un certo senso, però io un poco dissento, per questo motivo”.
Allora quello che noi ci siamo conquistati, di cui non siamo riusciti a convincere i giovani, e cioè l'accesso al microfono, andrebbe per così dire più democratizzato, più diffuso. Bisognerebbe che quando, per esempio, Franzoni durante la liturgia va al microfono per parlare si alzasse subito un coro, come nel ’68: “scemo, scemo!” in modo che Franzoni immediatamente ritorna a sedere. Poi in quel momento fa un vaglio: ma quello che volevo dire era importante o no? Non era importante? Allora hanno ragione loro. Invece se quello che voleva dire era veramente urgente, prende il microfono e lo dice veramente. Cioè dialettizzare, introdurre il dissenso anche nelle comunità del dissenso, cioè costituirlo come qualità dei rapporti.
E poi l’ultima cosa. Una difficoltà enorme delle comunità di base è derivata da questa ambizione: che tutti i problemi che ci hanno attraversato - i diritti degli omosessuali, il gay pride, le fabbriche occupate, i problemi internazionali, la fame del mondo - sono stati assunti dalla comunità. E questo naturalmente ha rarefatto intorno a noi le possibilità di alleanze.
Da che cosa è derivato questo?
Sempre da questa famosa faccenda: che noi non riteniamo di contare. Io stesso
mi ricordo, al momento delle primissime scelte, ai tempi della guerra del
Vietnam, mi posi il problema: ma che cosa succede se poi mi devo dimettere da abate?
E davanti alle fotografie che Livia Rokach ci proponeva su quello che succedeva
in Vietnam: ma se questo è già successo, se questi sono morti, che importa se
io non sono più abate di S. Paolo? E lo stesso, se noi dovessimo prendere
posizione per cui a un certo punto ci sbattono via veramente e muore
Volevo portare i saluti di tanti amici di Napoli che non sono qui, quelli della rivista ‘Il Tetto’, alla quale appartengo, che ha raggiunto il suo quarantesimo anniversario. Ma volevo ricordare che quest’anno abbiamo avuto molte occasioni, e forse ne avremo ancora, per riflettere sul passato. A Napoli per esempio ci ritrovammo intorno alla cara figura di Ciro Castaldo per fare memoria. Ma c’è stata anche una cosa che è stata ricordata dalla Tommasoni: trent’anni fa noi facemmo ‘Cristiani per il Socialismo’: qui è presente Giulio Girardi e tanti altri che con noi fecero questa esperienza, coinvolgendo migliaia e migliaia di persone.
Quindi è molto importante che ci siano dei punti di riferimento, per evitare che questa memoria si disperda. Perché questo rischio c’è: anche cose molto grosse e importanti possono non lasciare traccia o lasciare traccia molto labili. Credo che di questo ci sia bisogno proprio per il futuro.
Per il futuro io sono più ottimista rispetto a qualche cosa che è stato detto, forse come battuta.
Io credo che noi probabilmente siamo alla vigilia di una grande crisi della Chiesa istituzionale e che quindi quei patrimoni di esperienza, quei tentativi (perché credo che nessuno poi possegga la chiave per le soluzioni) fanno sì che queste esperienze maturate possano poi avere un’eco molto maggiore del piccolo ambito del dissenso cattolico, del mondo protestante.
Cinque secoli fa, quando c’è
stata
Finora si è parlato della comunità nel suo essere nel mondo e fuori. Io, appunto perché sono tanto vecchia, sono stata in comunità fin dai primi tempi della Basilica, vorrei dire pochissimo quello che noi siamo dal dentro e dal basso, soprattutto dal basso. E forse c’è qualche riposta per la pastora.
Io credo che la nostra caratteristica, il nostro essere, poggia su due cose: di essere tutti differenti e tutti liberi nella condivisione.
Perché siamo tutti differenti? Perché siamo venuti qui da strade molto, molto diverse, socialmente, culturalmente, religiosamente. Io per esempio sono venuta qui, e prima ancora in Basilica, da laica, non sapevo niente di religione (attenti, laica non significa atea, si fa una grande confusione). Ho capito una cosa: che qui c’era tutto da prendere e nulla da perdere. Ma altri avevano altri percorsi: chi veniva dall’Azione Cattolica, chi dalla FUCI, chi dalla parrocchia, chi da appartenenze ed educazioni diversissime. C’è per esempio una nostra compagna di viaggio che mi ha detto che era approdata qui da una famiglia, da dei genitori, che erano non solo credenti osservanti rigorosissimi, ma anche conservatori, monarchici e fascisti. Ha dovuto fare un bel cammino. Invece il mio cammino è stato facilissimo. Ma pensiamo quante persone hanno dovuto soffrire per cambiare. Eppure stiamo qui. Come abbiamo combinato tutte queste nostre differenze? Nella libertà e nella condivisione. Questi sono stati i nostri tracciati.
Libertà in che senso? Che il bisogno di Dio ci appartiene a tutti, anche ai laici e penso anche agli atei. E’ una cosa costituzionale, genetica dell’uomo, ce l’hanno le culture primitive e le società tecnologicamente evolute. Tutti. Le risposte sono variabili e noi abbiamo la libertà della nostra variabilità. Pur appartenendo sempre alla stessa Chiesa. Questa libertà ci ha impedito di fare di questa comunità una conventicola terapeutica, una setta, come mi sono sentita dire; e nello stesso tempo di essere attaccatissimi a questa nostra libertà, a queste nostre multiple risposte a questo bisogno, che trasferiamo a tutte le altre comunità. Per cui come non siamo una conventicola, non vorremmo essere neppure una grande costruzione, perché si scivolerebbe in uno scisma. No, noi siamo sempre un divenire, un cercare, un affannarci anche nel dire, nel parlare - anche straparlare, come forse sto facendo io in questo momento. E’ la nostra diversità che ci ha consentito di amarci, di credere e di camminare.
Sono della Comunità del Castano di Napoli. Stasera mi tocca un compito gravoso, che avrebbe svolto bene al mio posto Ciro Castaldo, che stasera purtroppo non è con noi. Oggi questo compito gravoso della segreteria è caduto sulla nostra comunità: un compito difficile, che vuole mettere insieme tante diversità, tante ricchezze che s’incontrano, si scontrano e dialetticamente camminano in un percorso insieme di ricerca e di fede. E’ un compito veramente oneroso e serio, che noi stiamo cercando con coraggio di intraprendere tra mille difficoltà, tra mille problemi. Ciro aveva dedicato trent’anni di vita a questo lavoro e lo faceva a tempo pieno, noi abbiamo i nostri problemi, le nostre famiglie, i nostri figli, il nostro lavoro e diventa veramente difficile.
Stasera io voglio portare qui il
saluto di tutti quelli che non ci sono. Quelli che ci sono lo stanno portando
di persona e stanno testimoniando l’affetto, l’amicizia alla Comunità di
S.Paolo e a Giovanni. Io penso di portare il saluto di chi stasera non ci sta e
che vorrebbe esserci: è più lontano e non ha potuto portare qui questo calore
dell’affetto verso
Giorni fa ascoltavo a Napoli Arturo Paoli, che diceva. “Noi dobbiamo finalmente schiodare Cristo da questa croce e farlo sedere al nostro fianco. E al nostro fianco guardarlo nei fratelli più dimenticati, più oppressi, più derelitti. Solo allora veramente la nostra fede acquisterà forza”. Molti vorrebbero mantenerlo quel Cristo sulla croce nelle scuole, nei tribunali, metterlo esposto come un’icona insignificante e senza senso. Per noi comunità ha significato un’altra cosa e continuerà a significare un’altra cosa.
Auguri alla Comunità di S.Paolo.
Intervento di Alex
Zanotelli
Ero in preghiera stasera qui a S.Paolo per il nostro Comboni che domani verrà fatto santo. Così ho pensato di approfittarne e son venuto nella vostra comunità. E’ la prima volta che metto piede qui, anche se io conoscevo bene Franzoni da prima. Per cui un grazie prima di tutto per l’invito, poi un grazie perché avete avuto il coraggio di continuare a trovarvi, anche in questi anni difficili.
Io sono stato molto influenzato da ‘La terra è di Dio’, quando l’ho letto la prima volta mi ha molto, molto colpito e poi ho mantenuto, quando ero a Nigrizia, i contatti, soprattutto con Giovanni.
Io ritengo che la storia delle
comunità di base – io le chiamo le ‘piccole comunità’ – diventa un problema
fondamentale per la sopravvivenza della Chiesa, ma anche dell’umanità. In una
società come la nostra non c’è altro futuro. Questa società ci massifica. Anche
Notate però che la società civile organizzata deve diventare soggetto politico, altrimenti non serve a nulla. So che ai partiti questo non fa piacere; quando lo ho detto a D’Alema, lui s’è arrabbiato e mi ha detto: “Alex, solo i partiti sono soggetti politici”, ma io ho detto: “Mi spiace, D’Alema, ma proprio perché vi hanno tolto la possibilità di fare politica, soltanto se la società civile organizzata diventerà soggetto politico aiuterà anche voi a ricominciare a fare politica. Altrimenti non abbiamo futuro”. E guardate che in questo senso le comunità di base, i piccoli gruppi, diventano veramente essenziali e fondamentali.
Dopo l’esperienza a Korococho vi vorrei pregare di fare attenzione ad un paio di cose.
Prima cosa: guardate che non
potete leggere
E’ fondamentale anche per voi
comunità cristiane che vivete nel Nord del mondo: ricordatevi che non potete
leggere
Altra cosa fondamentale che Korococho mi ha fatto riscoprire è proprio il cuore della tradizione, sia ebraica che cristiana. Ebraica prima di tutto, perché la mia preparazione viene dagli Stati Uniti; ma poi ho continuato a leggere e alla fine era essenzialmente, io direi, una lettura anche biblica molto astratta, molto spiritualista. Korococho mi ha portato a ripensare radicalmente le Scritture ebraiche. E in questo senso io sono molto debitore e sono molto grato, oltre che ai poveri, alle piccole comunità ecumeniche degli Stati Uniti, dove oggi viene rielaborata e ripensata una Parola che serve per la resistenza contro il Sistema. Penso che ci stanno regalando delle cose molto belle.
Aiutato dei poveri, aiutato da questa ricerca, io sono arrivato ormai a capire una cosa molto semplice: che l’esperienza biblica che noi chiamiamo ebraica è l’esperienza di un Dio, Jahvè: non sappiamo che cosa significa, ma è un Dio che costituisce una rivoluzione nel Medio Oriente, perché non è il Dio del sistema. Tutti gli dei che erano apparsi fino ad allora erano stati degli dei che avevano benedetto il sistema, fosse esso l’impero faraonico, babilonese o le città stato. Per la prima volta in Israele appare una cosa incredibile: che Dio sta dalla parte degli schiavi, dalla parte di chi non conta, dalla parte dei rifiutati dal sistema; e che questo Dio vuole liberare questo branco di schiavi dall’impero.
Ogni impero è costruito su un’economia di opulenza che permette a pochi di avere tutto a spese di molti morti di fame. Per avere questo poi ogni impero deve seguire una politica di oppressione, dove gli apparati pubblici sono utilizzati per tenere a bada l’80, il 90% della gente. E, terzo, ogni impero è costruito su un’esperienza religiosa, dove Dio è prigioniero del sistema, è cooptato dal sistema e benedice il sistema, dice a tutti: “Ma che cosa volete, ma statevene tranquilli, al massimo se soffrite un po’ poi dopo c’è il paradiso!”. E’ la religione imperiale, ogni impero è costruito su questo.
Con Israele avete qualcosa di radicalmente nuovo, avete l’esperienza di un Dio che sta dall’altra parte e che sogna per questo suo clan l’opposto di quello che è l’impero: sogna non una religione, sogna che Israele diventi una società, una comunità alternativa all’impero. E’ fondamentale. Per avere una comunità alternativa c’è bisogno dell’opposto dell’impero, c’è bisogno di un’economia di uguaglianza, dove i beni sono condivisi, che domanda una politica di giustizia, una politica che parte dal diritto degli oppressi che Lui ascolta. E’ l’esperienza di un Dio che non è il Dio di Bush o dei faraoni o di Berlusconi, ma è il Dio degli schiacciati, degli oppressi. Ascolta il loro grido e rimette in discussione ogni sistema che schiaccia ed opprime.
Ecco il cuore dell’esperienza
ebraica, che Gesù ha reso ancora più radicale in quella Galilea schiacciata
dall’imperialismo romano. Gli ultimi studi che mi sono letto, a livello
storico, sociologico, affermano che al tempo di Gesù, il I secolo,
La morte di Gesù è politica, è una morte prima di tutto di uno schiavo: nessun cittadino romano è mai stato crocifisso. Ed è la morte di un sobillatore contro l’impero. Roma lo ha giudicato come un sobillatore contro l’impero. Ed è fatto fuori, crocifisso fuori le mura. Jon Sobrino parla di ‘partisan quality of disumanity’, cioè quel corpo crocifisso di Gesù è un’umanità di parte, cioè sta da quella parte, dei crocifissi; e Dio, l’abbà di Gesù, rimane fedele a quel crocifisso, rimane fedele a tutti i crocifissi della storia.
Ed ecco il mio appello a voi, comunità di San Paolo, in questo momento gravissimo, dove davvero milioni di persone sono crocifisse. Noi abbiamo detto di no alla guerra contro l’Iraq. E’ stata bella la mobilitazione, ma quando ci mobiliteremo contro la guerra mondiale annuale che noi facciamo con questo sistema economico contro i poveri? Ammazziamo quaranta milioni di persone all’anno. E’ una guerra mondiale all’anno che facciamo contro i poveri, non ce ne accorgiamo. Guardate che siamo tutti prigionieri nel bozzolo.
La lettura della Parola deve liberarci e incominciare a guardare la realtà per quella che è. Quel corpo crocifisso di Gesù è di parte, è un partigiano, come usa dire Sobrino, sta da quella parte, è carne infetta; e noi non possiamo più leggere le Scritture se non partendo da Lui e partendo dai crocifissi.
E vi prego, non dimenticatevi
dell’Africa, in questo momento in cui l’Africa vive una tragedia immensa.
L’Africa è travolta da diciassette conflitti. Pensate; la guerra in Congo, di
cui nessuno vuol parlare, ha già fatto quattro milioni di morti in cinque anni
di guerra. E’ assurdo, eppure avviene sotto i nostri occhi, avviene in barba a
tutti noi. Non se ne parla. Vi prego, ascoltate questo grido immenso che viene
da questo bellissimo continente, che è il continente madre: l’uomo nasce
dall’Africa, ormai gli scienziati ce lo dicono. Io lo chiamo il ‘polmone
antropologico del mondo’, non c’è nessun continente con la ricchezza culturale
e religiosa che ha l’Africa. Ascoltatelo questo grido. E quando leggerete
Intervento
di Raniero LaValle
Io con molta emozione naturalmente partecipo a questa memoria, che è una memoria anche di tante cose che abbiamo vissuto. E mi sembra che sia una memoria sovversiva, nel senso che è una memoria di una rottura, di un dissenso, di una contraddizione, che è stata feconda, che è stata liberatrice, che ci ha messo in movimento su tanti sentieri, anche non strettamente interni alla Chiesa, ma anche esterni: alla società, alla politica e così via.
Penso però che questa memoria vada anche purificata, per così dire, non possiamo farne solamente una memoria apologetica. Credo che il passato non vada solo ricordato. Certo, ha ragione Domenico Iervolino, è importante non dimenticare nulla, però non si tratta solamente di fare un inventario delle cose da non dimenticare, si tratta di vedere che cosa ricordare e perché. E per fare questa operazione è importante anche che il passato noi non lo consideriamo in qualche modo irreformabile. Cioè anche il passato si può cambiare, non solo il futuro. Il passato si può cambiare se viene purificato, se viene riscattato anche dagli errori che abbiamo fatto, dalle cose che non abbiamo capito e che forse avremmo dovuto capire, ma che adesso possiamo capire. E quindi penso che ci sia anche bisogno di questo lavoro sul nostro passato, anche per interrogarlo criticamente. Non possiamo solamente essere nostalgici, naturalmente, ma neanche narcisisti, dobbiamo anche vedere tante cose che potevano essere diverse.
Perché dico questo? Non è solamente una metodologia del ricordo. Dice Bonhoeffer che anche il passato ci è dato da Dio, è un dono di Dio, non solo il futuro. Noi abbiamo un rapporto difficile col passato: non è tanto facile fare le commemorazioni, secondo me, è bene pensarci molto, che sia veramente un momento di riflessione critica. Ma perché questo? Perché il problema è che uso fare del passato, cioè: come ce lo giochiamo nel futuro? Questo è il problema. Quindi non è questione del trentunesimo anno, qui stiamo all’inizio. E allora la domanda è questa: come lo usiamo questo passato rispetto all’adesso e rispetto appunto al futuro?
Parlo di questo perché sono stato un pochino provocato, perché mi è capitato e sono stato felice di fare un commento a "La terra è di Dio" trent’anni dopo. Penso di non avere fatto l’esegesi di quella lettera, penso di avere cercato di giocarla nel futuro: che cosa può voler dire d’ora in poi che la terra è di Dio, che il cielo è di Dio, che le cose sono comuni. Se una cosa è di Dio di chi è, oltre che di Dio, riguardo agli uomini.
Quindi giocare nel futuro. E la cosa mi pare di straordinaria urgenza, perché io ho l’impressione che quello che sta succedendo oggi, anche nei suoi aspetti più tremendi, più gravi, come quelli che ricordava Alex, la fame, le guerre, ecc., non sia solamente il proseguimento dei vecchi orrori. Non sono solamente i vecchi imperi che continuano e si riproducono, io ho l’impressione che ci sia qualcosa di nuovo. Io ho l’impressione che noi siamo in un punto di grandissima discontinuità rispetto a tutto il passato, compreso il nostro. Forse ogni generazione si crede di vivere un tornante della storia. A me non sembra. Io finora non avevo avuto questa impressione.
E allora penso che tutte le energie debbano essere mobilitate per cercare di capire questa cosa e quindi come rispondere. Noi ci troviamo di fronte a problemi di una radicalità enorme. Noi facciamo memoria di Gesù. Anche Gesù si trovava in un momento in cui probabilmente, se la promessa - che poi era la promessa della giustizia, della pace, della liberazione - restava per così dire imprigionata nella legge, nella esperienza ebraica, quella promessa falliva. Ed è per questo che è andato fino alla fine, che ha avuto questo bisogno di amare - ma non solo amare, ma amare sino alla fine, cioè portare l’amore all’estremo - perché sennò si giocava non la situazione di quel momento o quel rapporto con l’impero, ma si giocava tutta questa prospettiva di una umanità riconciliata, insomma si giocava la promessa.
Mi pare allora che noi ci troviamo di fronte ad un problema simile a quello di fronte a cui si trova Paolo, che deve ragionare su questo, che deve raccogliere questa eredità di Gesù, che Gesù ha portato al livello della più alta testimonianza. Ma Paolo è l’espressione della comunità cristiana. Dunque la riflessione della comunità cristiana su questo evento di Gesù è proprio intorno a questo: che cosa ha significato? Perché questa novità? Perché proprio in quel momento lì bisognava andare anche fino alla croce? Perché? Che cosa c’era in gioco?
Ecco, a me pare che noi siamo in un tempo simile: è in gioco l’unità dell’umanità. Sta tornando l’idea che non tutti gli uomini e le donne sono uguali, che alcuni si salvano e altri si perdono, che alcuni sono presi e altri sono lasciati, che questo fa parte della natura delle cose. E quindi la promessa è veramente rotta, la promessa non è spendibile, non è eseguibile, perché una promessa che viene imprigionata in un ambito geografico ristretto, in un ambito numerico altrettanto ristretto rispetto alla totalità dell’umanità, è una promessa che è fallita, che fallisce.
Allora io ho l’impressione che oggi siamo in un momento in cui anche le guerre, le oppressioni, gli sfruttamenti, non sono semplicemente il proseguimento di quelle del passato, ma sono un’altra cosa, perché sono al servizio di questa cosa in qualche modo ultima, diciamo della rottura dell’unità del mondo e quindi di questo suo essere oggetto della promessa di Dio.
Allora questa memoria a cui partecipo, come dicevo all’inizio, con molta emozione, credo che ci debba stimolare anche a questo: a investire molto sul futuro e anche quindi arricchire le nostre riflessioni, le nostre teologie; cioè non ci fermiamo solamente a ripetere delle cose che siccome le abbiamo già capite, per fortuna noi meglio dell’altra chiesa, allora adesso stiamo tranquilli… Man mano che ripetiamo le cose che abbiamo capito trent’anni fa, vent’anni fa, dieci anni fa, si impoveriscono e ad un certo momento le perderemo, non potremo più neanche parlarne. E quello sarà il solo caso in cui giustamente una comunità finisce: se appunto il suo patrimonio è stato bellissimo, garantito, però gestito poi in modo talmente ripetitivo, che a un certo punto si consuma. E invece questo patrimonio, siccome è stato ed è grande, vive nella coscienza, nella vita, nell’esperienza di ciascuno di voi. Perché qui ci sono delle vite che si sono consumate in questa esperienza. Non è stato un luogo di riunione. Tu, Giovanni, non sei uscito dalla Basilica per vivere in un altro posto a fare le tue omelie secolarizzate oppure le tue riunioni; questo è stato un luogo dove una quantità di gente ha vissuto una gran parte della sua vita in ciò che essa aveva di più essenziale: la fede, la cultura, i figli, le amicizie… Questo è stata questa cosa. E allora, siccome questa cosa è stata grande, non si deve impoverire neanche semplicemente abbandonandola alla memoria, sia pure una memoria orgogliosa, ma una memoria che continuamente la rimette in gioco e fa sì che questo patrimonio non solo non si impoverisca, ma cresca.
Intervento
di Don Vitaliano della Sala
Io non ho molto da dire, se non comunicarvi un’esperienza. Voi celebrate i trent’anni, io tra poco celebro il mio primo anno di rimozione dalla parrocchia. Quando m’è successo pensavo che mi stesse cadendo il mondo addosso, che chissà quale grave sciagura stesse capitando alla mia vita. Invece il Padreterno mi sta come sempre insegnando delle cose, perché sto ottenendo quello che per dieci anni facendo il parroco non ero riuscito a ottenere nella mia comunità; nel senso che la gente, proprio a partire dalla riflessione su quello che stava succedendo alla comunità, sta riflettendo sul Concilio Vaticano II (proprio in un tempo in cui il Concilio Vaticano II verrà buttato chissà dove), sta riflettendo sul sacerdozio comune universale dei fedeli. Il tutto parte da un’esperienza concreta, quella della vita, quello che sta capitando a loro. Sta riflettendo sull’episcopato, su quanto un vescovo può pretendere da una comunità, su quanto le decisioni di un vescovo debbano essere rispettate, su quanta obbedienza sia dovuta…. Stanno riflettendo su queste cose: gente comune, gente normale, gente che di teologia non ne sa assolutamente niente; gente abituata a recitare il rosario e ad andare a messa, sta facendo questo cammino per me eccezionale, sconvolgente. Anche perché la novità abbraccia un’intera comunità, non ci sono persone che si sono staccate da un posto, come è capitato a voi, per riunirsi in un altro posto: c’è gente che sta lì e il professionista e il contadino, il giovane e il vecchio, tutti quanti stanno facendo questa riflessione, questo cammino che mi sta sconvolgendo, sinceramente. Alcuni di voi sono venuti pochi mesi prima della rimozione. Se tornaste vi accorgereste della differenza! Io ho fatto fatica per dieci anni: ho invitato alla preghiera dei fedeli, dando spazio libero a tutti di intervenire, ma ci ritrovavamo io ed Anna, che è la catechista che viene da fuori, a fare la preghiera cosiddetta spontanea e nessun altro. Per dieci anni. Adesso la gente si accapiglia per intervenire, per proporre preghiere. E’ una cosa molto bella.
Io a scuola ho studiato poco teologia, ma la sto studiando sulla mia pelle. Io questo brano del chicco di grano caduto in terra, che muore, non muore, non produce frutto, l’ho letto, e riletto tante volte, ho letto anche tante belle riflessioni, ma quando ve li vivete addosso i brani del Vangelo assumono un significato tutto particolare. Veramente forse era necessario che in quella comunità si chiudesse con la parrocchia burocratica, col parroco e si aprisse finalmente col cristianesimo vero, quello che nasce dalla gente, quello che nasce dalle riflessioni, che a volte sono esatte, a volte sono sbagliate, a volte cozzano contro non so che, che però nascono dalla gente.
Faccio un appello: non ci lasciate
soli, perché io faccio fatica a seguire questa esperienza, anche perché non
posso farlo, perché il vescovo mi vieta di starci. E allora è importante che ci
siano i teologi che scrivono dei bei libri, è importante che vengano lì, a
vedere come la gente li legge e li vive. E sarebbe una cosa bella che chi mette
per iscritto la teoria venisse a vedere i guai che producono anche i teologi
quando parlano del sacerdozio comune, quando dicono che
E’ veramente un appello che nasce
dal cuore, perché questa piccola comunità, che è un seme nella Chiesa, si pone
però i problemi dell’Africa, del Chiapas…Questa piccola comunità e le tante
piccole comunità sparse per
Intervento di Marcello Vigli
Subito dopo i
fatti dell’Isolotto, nei primi mesi del ’69, a Roma ci fu, al Teatro Centrale,
un primo incontro proprio sul tema che stiamo affrontando: è possibile che i
cristiani si organizzino in modo diverso dalla struttura parrocchiale
verticistica e nascano delle comunità? Dopo quell’assemblea ecclesiale via, via
se ne svolsero altre, per cui quando Giovanni fu costretto a venire via
dall'abbazia, al teatro Madison, qui vicino, ci fu un’assemblea in cui tutte le
comunità romane (erano molte allora) si ritrovarono insieme.
Di quelle realtà
oggi rimane ben poco, almeno visibilmente, ma ci hanno detto gli altri
interventi che di chitarre oggi sono piene le Chiese, che di letture della
Bibbia lo stesso Veneto è ricco. E non è il sale che si è dissolto? Non è il
seme che ha dato frutto? Non è che noi possiamo rammaricarci del fatto che siamo
morti e rivissuti in modo diverso.
Quando abbiamo
incominciato a fare questa strada sapevamo benissimo che noi avevamo due punti
precisi di riferimento.
Il primo: che il
discorso che facevamo sulla società non poteva non essere fatto sulla Chiesa.
Perché non è che abbiamo parlato di concordato, di potere, di democrazia perché
eravamo un po’ originali, ma perché abbiamo sempre saputo che per essere
credibili e non sentirci rimproverare di essere dalla parte del potere dovevamo
mettere in discussione il potere anche all’interno della nostra struttura. Ci
ha ricordato Letizia Tomassone che anche a loro, valdesi, è servita la nostra
esperienza per rimettere in moto il ’meccanismo di’; come del resto a noi è
servita tutto il loro cammino per imparare a leggere
Da allora questo
pilastro è rimasto sempre. Il nostro primo convegno nel ’71 fu sul concordato e
quanta fatica per convincere tutte le comunità italiane a confrontarsi sul
concordato! Perché non era così ovvio che chi voleva fare la rivoluzione, la
lotta di classe nella Chiesa ecc. poi capisse che questo problema apparentemente
secondario e istituzionale invece era il nodo sul quale ci saremmo scontrati
con realtà e caratterizzati.
E l’altro pilastro
è il non avere funzionari di Dio. Questa è stata la nostra forza. E’ vero,
forse l’élan vital verrà meno, lo Spirito Santo soffierà altrove
(orgogliosamente potremmo dire), ma noi abbiamo costruito tutto quello che
abbiamo fatto senza dover stipendiare nessuno. Questo è un punto centrale della
nostra esperienza, è una lezione che potremmo andare a dire a tutti, per
esempio ai movimenti di oggi che si stanno burocratizzando. Ieri alla
manifestazione dei no-global in prima fila c’era tutto un gruppo di
ex-sessantottini ormai diventati professionisti della politica. Nessuno di noi
è diventato professionista del dissenso. Noi siamo riusciti a fare ventotto
convegni trovando nelle diverse città delle strutture – volontarie,
autogestite, autonome – che hanno funzionato meglio di qualsiasi agenzia
turistica.
Questa è la nostra
forza. E allora se per il futuro noi vogliamo darci una strada, non perdiamo di
vista questi due punti fermi. Non si fa lotta di classe nella Chiesa, non si
considera la necessità che non ci siano più vescovi. Per amor di Dio! C’è
sempre bisogno che ci sia un ugello da cui esce fuori lo zampillo vitale,
quindi il momento istituzionale non è che possiamo dire che non deve esistere;
noi siamo qua anche perché c’è stata
Stiamo preparando
il convegno di Pescara: a Pescara non esiste una comunità cristiana di base,
eppure si è già messo in moto tutto il meccanismo, con gente che esce di scuola
e va là, finisce di fare il suo lavoro e va là. Ma chi avrebbe mai organizzato
una festa come questa se non ci fosse questo élan?
Allora io direi a
Giovanni e a tutti gli altri: sì, celebriamo, ripensiamo, però sappiamo che
abbiamo questo patrimonio da portare avanti e su questo non possiamo derogare.
Ci possiamo dividere, separare, ma l’importante è che ci troviamo d’accordo su
questo: noi andiamo avanti perché c’è gente che ci crede - e quando non c’è più
gente che ci crede è bene che le comunità non ci siano più, diciamocelo
francamente. E dall’altra parte non
derogheremo mai a questo principio di fondo: non si può costruire un mondo
diverso se non si costruisce una Chiesa diversa.
Intervento di Paolo Naso
Anch’io sono qui per porgere un
saluto da fratello che per diverse ragioni ha condiviso dei pezzi importanti
della propria storia con il movimento delle Comunità di Base e con
Il secondo amarcord al quale mi vorrei brevemente affidare è invece quello di un ragazzino che col suo motorino andava a diffondere COM, che conosceva persone che sono anche qui oggi, che venivano a presentare questa testata. Poi COM divenne COM-Nuovi Tempi. Allora il ragazzino che era protestante divenne ancora più convinto, perché faceva qualcosa anche per la sua parrocchia, non soltanto per quella degli altri; fino poi ad arrivare a Confronti, con le vicende che vi sono note.
Quindi pezzi importanti, in cui
il gioco degli anniversari serve per fare un brevissimo ragionamento su questi
anni. Confronti ha superato da poco i trenta anni. Nella lunga esperienza di
COM, COM-Nuovi Tempi, Confronti, anche noi ci siamo interrogati. E mi vengono
in mente tre parole. Innanzitutto la parola ecumenismo. Io vorrei che il
movimento delle Comunità di Base e
Questo l’abbiamo vissuto e sperimentato in decine di convegni, in decine di occasioni, quando la partita ecumenica a livello istituzionale era affidata ad alcuni specialisti, invero estremamente riottosi a condividere l’ecumenismo come esperienza di popolo. Questa è una cosa da rivendicare, ma oggi bisogna anche assumere che invece la partita ecumenica si è fatta più complicata. Io direi che si è anche arricchita: oggi non è un tempo di deserto ecumenico come era negli anni ’60 e ’70, oggi l’ecumenismo è maggiormente senso comune delle Chiese, anche nella loro dimensione istituzionale.
Allora io vorrei, sognerei (anche se mi rendo conto dei problemi politici che rendono la cosa difficile) che in questa nuova fase ecumenica, in cui l’ecumenismo è maggiormente realtà di base, realtà che appartiene alla vita di tutte le Chiese, il movimento delle Comunità di Base fosse più presente, fosse più riconosciuto. Lo so che ci sono problemi che non dipendono da voi, me ne rendo perfettamente conto, ma è questo forse il contributo più importante che anche le Chiese evangeliche potrebbero provare a giocare, cioè promuovere un ecumenismo a tutto campo, nel quale la dimensione istituzionale fa spazio invece alla dimensione della Chiesa confessante, di coloro che si richiamano alla Parola di Dio.
Seconda parola su cui molte cose sono cambiate: la parola dialogo interreligioso, o pluralismo culturale, o società multireligiosa. Ecco, questa è una dimensione che si è via, via acquisita negli anni. Non era all’origine nel vostro movimento, non era presente nei primi incontri ecumenici che si sviluppavano. Oggi ci rendiamo conto invece di quanto la dimensione della pluralità religiosa sia un aspetto costitutivo della nostra società, del tempo presente; e che non è data società conviviale, società riconciliata, senza assumere la complessità di queste presenze religiose. E questo sicuramente costituisce una sfida, non soltanto per le comunità di base, ma credo per tutti quanti vogliono essere cittadini consapevoli in un tempo di complessità.
La terza parola, una parola più generica, è appunto la parola complessità. Le analisi degli anni ’70 erano analisi semplificate: erano analisi per contrasto, erano analisi rigide, che in qualche modo individuavano attori sociali, una scena sociale precisa e definita. E queste analisi ce le siamo portate dietro per anni troppo lunghi, non soltanto le CdB, io credo anche le Chiese evangeliche, anche il movimento ecumenico, anche certe forze sociali e certe forze politiche. Oggi capiamo che la categoria della complessità è una categoria importante, se vogliamo capire il tempo che viviamo. Non è semplicemente un problema di ricchi contro poveri, di sfruttati contro sfruttatori, non è un problema di primo mondo e terzo mondo, ci sono nodi più complessivi. Pensate alla questione della globalizzazione, che non è semplicemente un problema di scontro sociale, di scontro economico, ci sono mille altre implicazioni. Il tema che Giovanni ha elaborato in questi ultimi anni, il tema della terra (vecchio tema) e il tema dello spazio (provocazione a individuare il tema di domani), non è semplicemente una questione esauribile in modelli di sviluppo, è una questione che richiama altre questioni: la responsabilità, l’uso del tempo, il valore del tempo come questione etica fondamentale. Bene, è un tema che non ci stava nella rigidità delle analisi di venti o trent’anni fa, ma che oggi scopriamo essere una chiave fondamentale.
Quindi ecumenismo a largo
raggio, dialogo interreligioso, complessità. Su queste tre parole
io credo che il nostro cammino insieme possa essere ancora molto lungo. Noi
spesso ci lamentiamo: la diaspora, siamo pochi, siamo isolati… Mi sono
familiari questi ragionamenti. Pensate: una chiesa che vive da otto secoli e
che conta trentacinquemila persone in Italia, mentre altre chiese in pochi
decenni hanno conquistato cento, duecentomila persone, capite bene che questi
problemi se li pone strutturalmente. La diaspora, il piccolo gruppo, la
minoranza che cerca disperatamente di far sentire la propria vice. Benissimo,
ma attenzione a non fare Fort Apache, attenzione a non cadere nella sindrome
depressiva della minoranza. La minoranza può essere significativa, la minoranza
può essere lievito, la minoranza può essere sale. Attenzione: no alla sindrome
depressiva, ma no anche alla sindrome euforica, cioè al pensare di cambiare il
mondo o
In questo senso il tema della visibilità è un tema fondamentale. Il tema della comunicazione è un tema fondamentale. Non voglio chiudere, non sarebbe proprio giusto nei vostri confronti, nei confronti della giornata, con uno spot, però dico che noi siamo quello che leggiamo, noi siamo quello che costruiamo sotto il profilo culturale, quello che comunichiamo culturalmente. Questo noi siamo. Se noi leggiamo in un certo modo, comunichiamo in un certo modo e siamo qualcosa; se leggiamo qualcos’altro saremo qualcos’altro. Quindi attenzione quando ci lamentiamo di essere piccoli, di non avere abbastanza voce. Chiediamoci anche: facciamo tutto quello che possiamo per valorizzare quelle forme di comunicazione, di collegamento, di cui disponiamo? Per dare forza, sostanza, a testate che con mille difficoltà si pongono il problema di dare visibilità a contenuti che difficilmente arriveranno sulla grande stampa. Però questo non è semplicemente l’occasione per condannare gli altri – “il sistema che non ci dà visibilità” - ma credo sia anche l’occasione per assumerci la nostra responsabilità di credenti consapevoli, ma soprattutto di consumatori consapevoli.
Detto questo, buon compleanno alla comunità di base di San Paolo!
Sintesi
della replica conclusiva di Giovanni Franzoni
Numerose sono state le testimonianze dell'utilità, addirittura della necessità che esistano nella cristianità punti di riferimento e di stimolo quali la comunità di San Paolo e le altre comunità cristiane di base. D'altra parte è stato anche sottolineato da alcuni il rischio di evanescenza, di spreco, di perdita di visibilità e di influenza nel contesto umano, sociale, politico; di qui forse l'auspicio di una "solidificazione" organizzativa di tutto il movimento delle comunità cristiane di base in Italia. È questo l'aspetto problematico, forse quello centrale, dell'odierna situazione: il dissenso, (diverso dalla separazione, dallo scisma, come è stato ampliamente ripetuto) non può non nutrirsi, secondo la nostra visione, di parresia, di parole franche e chiare, e anche di gesti significativi e sinceri; questo pone le CdB in una posizione scomoda, diversa da quegli ormai numerosi e ben strutturati movimenti e personaggi, che "mugugnano", sono coscienti di essere scontenti di una Chiesa che sembra arroccarsi sempre più in posizioni preconciliari, ma evitano di prendere chiaramente posizione, e di porre azioni conseguenti su persone, documenti, atti dell'istituzione.
È questo forse il motivo principale del nostro non attrarre grandi folle e del non riuscire facilmente a farci ascoltare in un più ampio raggio. Lo stesso rifuggire delle nostre comunità da una solida struttura organizzativa ci costringe ad una condizione di precarietà, al rischio di… morire!
Che fare? Forse mantenersi fedeli al proprio carisma, ma anche non stancarsi di cercare vie nuove, non accontentarsi del proprio piccolo e amato recinto in cui "salvarsi l'anima".
Allora la risposta cerchiamo di scriverla. Certo giocarci per intero, se è necessario, in un momento che non è la semplice prosecuzione degli orrori precedenti, ma che è un momento che è decisivo, questo rimane un punto importante. Però siccome siamo in un discorso di fede, essere sicuri che la potenza dell’Altissimo, che ci ha tratto una volta da un pugno di argilla, può risuscitarci continuamente, può risuscitare le comunità e così via. Quindi io ho sbagliato: non il trentunesimo, altri trenta.
Intervento di Padre Diego
Bona, vescovo emerito di Saluzzo e già parroco alla Garbatella
Io devo ringraziare Gianni Novelli che mi ha informato di questa celebrazione. Mi ha detto: “Ci andiamo?”. E come no! Anche perché ricordo tanti anni alla Garbatella in cui c’è stata una buona comunione, un’amicizia. Per esempio ricordo che quando abbiamo fatto la celebrazione della Settimana di Preghiera alla Garbatella, col vescovo Riva, la comunità ci ha dato veramente una mano forte. Allora sono venuto con voi a dire che vi voglio bene. Cosa volete che vi dica di più?
Poi sono stato lungo tempo fuori Roma e non ho più avuto contatti diretti. Ogni tanto incontravo Alex, che è cittadino del mondo, lo trovi dappertutto. E poi una volta ho avuto occasione di ritrovare a Saluzzo anche Giovanni e mi ha fatto tanto, tanto piacere.
Franzoni: Non mi era mai capitato, io ero in platea, che un vescovo scendesse dal palco per venire ad abbracciarmi. Mai successo!
Bona: Non viziatemi! Però mi sorprende che Giovanni è sempre più giovane. Ma come fa? Vengo dalla celebrazione di San Francesco, che aveva il cuore grande. Credo che se San Francesco fosse qui manifesterebbe la sua gioia. Il Signore vi benedica!