L’imperialismo
spaziale, chiave del New American Century Lo
spazio è l’elemento centrale nella strategia del primato di potenza e
nella prospettiva della Full Spectrum Dominance[1] Gabriele
Garibaldi
Giornalista Sintesi Nel gennaio 2001 Rumsfeld,
neo-segretario alla Difesa degli Stati Uniti, annunciava pubblicamente
le raccomandazioni della “Congressional Commission to Assess United
States National Security Space Management and Organization” da lui
presieduta: “Sappiamo dalla storia che ogni
elemento - aria, terra e mare - ha visto dei conflitti. […] La realtà
indica che lo spazio non sarà differente. Data questa virtuale
certezza, gli Usa devono sviluppare i mezzi sia di deterrenza che di
difesa contro atti ostili nello e dallo spazio. Ciò richiederà
superiori capacità spaziali […]. Gli Usa devono avere l’opzione di
dispiegare armi nello spazio quale mezzo di deterrenza contro le minacce
e, se necessario, di difesa contro attacchi ai propri interessi. [...]
l’avere tale capacità darebbe agli Usa un deterrente molto più forte
e, in un conflitto, uno straordinario vantaggio militare” Rumsfeld ha sbloccato i piani
volti alla weaponization dello spazio. Dopo l’11 settembre il National
Missile Defense ed il Theater Missile Defense sono propinati dai
maistream media all’opinione pubblica americana e mondiale come
garanzie di sicurezza interna e di stabilità internazionale. Ma essi
sono solo l’inizio di ulteriori piani di armamento spaziale, la cui
funzione risponde piuttosto alla logica della Grand Strategy
unipolarista nata subito dopo il crollo del muro di Berlino. Essa ha
trovato la sua prima, fondamentale espressione nel mantenimento e
rilancio della Nato in Europa, ed ha l’obiettivo di impedire il
sorgere di una Potenza o coalizione di Potenze che sfidi la posizione
statunitense di “lonely Superpower”, così da costruire un “new
american century” unipolare e imperiale. Dal punto di vista militare
essa si è tradotta in piani strategici il cui obiettivo è il
rafforzamento del gap di potenza tra gli Usa ed i potenziali “peer
competitors” (la Cina in prima linea). Lo spazio ha in tutto ciò un
posto centrale e gli Usa sono pronti a mantenervi la propria leadership
“negandone l’accesso agli altri, se necessario”. Se per l’attuale amministrazione
Bush conta principalmente la logica della forza unipolar-unilaterale
(che si traduce in pratica nell’isolazionismo e nel rifiuto del
diritto internazionale, come dimostrato in più occasioni dalla denuncia
del trattato Abm, dal rifiuto della ratifica del protocollo di Kyoto e
del trattato istitutivo del Tribunale Penale Internazionale, per finire
con il ricorso strumentale e quindi l’umiliazione dell’Onu riguardo
la guerra contro l’Iraq) per i pacifisti, invece, il diritto
internazionale resta la legge che deve regolare i rapporti tra Stati:
essi fanno notare - in modo lapalissiano - che i piani spaziali
statunitensi si pongono al di fuori di esso, in primo luogo dell’“Outer
Space Treaty” del 1967 che bandisce il dispiegamento di armi di
distruzione di massa nello spazio. Il 20 novembre 2000 - date le
dichiarazioni statunitensi che lo rifiutavano implicitamente -
l’Assemblea Generale dell’Onu ha votato per riaffermare l’“Outer
Space Treaty” e nello specifico la clausola che dispone l’uso dello
spazio per “peaceful purposes”: 163 Paesi hanno votato a favore, gli
Usa, accompagnati da Israele e Micronesia, si sono astenuti. Lo sviluppo delle space capabilities I propositi che
caratterizzano l’attuale amministrazione statunitense – e che prima
di essa sono stati il filo rosso di tutte le amministrazioni degli anni
’90 - discendono dalla fiducia nella capacità di impedire la nascita
di un nuovo competitore strategico nella “finestra di opportunità”
di 10-20 anni, necessaria al ricostituirsi dell’equilibrio di potenza
a livello sistemico. Essi hanno trovato una prima, fondamentale
espressione nel mantenimento della Nato in Europa dopo la fine della
“guerra fredda”, premessa geopolitica per una estensione del
controllo al nucleo eurasiatico[2] e quindi alla Cina,
attualmente il più accreditato tra i potenziali “peer competitor”
degli Stati Uniti. Dopo il crollo del Muro di
Berlino e dell’equilibrio bipolare, gli Stati Uniti, come risaputo,
sono rimasti la “lonely superpower”[3]
dello scenario internazionale. E’ una situazione anomala che ha messo
in crisi la capacità esplicativa del più accreditato filone di studio
delle relazioni internazionali, quello (neo)realista, in quanto ormai
sono passati 14 anni ed ancora l’equilibrio di potenza (“balance of
power”) non si è ricostituito. Per alcuni analisti americani questa
tendenza è destinata a consolidarsi, ed è preferibile al ritorno a un
ordine multipolare[4];
e i pianificatori militari hanno prodotto vari piani strategici tesi
proprio al definitivo consolidamento dell’ordine unipolare. Agli autori di queste
“unipolar illusions”[5]
gli studiosi (neo)realisti ricordano che la teoria del “balance of
power” - suffragata da secoli di storia delle relazioni internazionali
- è inequivocabile circa le implicazioni dell’unipolarismo riguardo
il comportamento degli altri Stati: la presenza di una unica
Superpotenza stimolerà il sorgere di nuove grandi potenze, o di
coalizioni di medie potenze, determinate a bilanciare lo Stato
predominante (“in unipolar systems, states do indeed balance against
the hegemon’s unchecked power”[6]).
La questione non è quindi “se” ma “quando” il “balance” si
realizzerà. La risposta di Layne è “fairly quickly”. Come K. Waltz[7],
egli sostiene che l’unipolarismo sarà trasformato in multipolarismo
dalla prima o seconda decade del XXI secolo. E’ interessante notare
come questa previsione sia stata accolta nei documenti di programmazione
militare come il limite temporale entro il quale consolidare la
posizione degli Usa di unica Superpotenza e impedire l’ascesa di un
“peer competitor”: i militari, ed i fautori dell’unipolarismo in
generale, partono da una analisi realista della situazione
internazionale per superarne la logica di base, impedendo la
realizzazione delle sue previsioni. Tale Grand Strategy
unipolar-imperiale non può che basarsi sulla ricerca di una capacità
soverchiante di forza - mezzo di “benevola” protezione degli alleati
e strumento di deterrenza per chi la voglia sfidare[8]
-, in sostanza su concreti progetti volti alla “Full Spectrum
Dominance”, cioè al dominio militare planetario, consistente
nell’insieme di deterrenza, controllo e capacità di proiezione
militare in tutti i possibili campi di battaglia. In questo contesto si
inserisce l’attività del Project Air Force della Rand Corporation (think
tank partner della U.S. Air Force ed espressione delle lobbies
dell’industria militare) che agli inizi del 2003 ha divulgato il
documento Mastering the Ultimate High Ground: Next Steps in the
Military Uses of Space. Lo studio offre argomentazioni in favore
dello sviluppo rapido delle capacità militari statunitensi nello
spazio. Esso parte dal postulato che bisogna proteggere i satelliti
commerciali Usa, che veicolano il flusso di informazioni dal quale
dipende grande parte dell’economia nazionale. Ma - esso osserva -
anche le Forze Armate sono dipendenti dai mezzi di comunicazione
satellitare, i quali potrebbero subire attacchi tramite bombe nucleari o
ad impulsione elettromagnetica - da parte di potenziali nemici che però
non identifica. Partendo da questi presupposti, il testo giustifica la
necessità di investire massicciamente nella guerra spaziale, al fine
non solo di sorvegliare le attività spaziali delle Potenze concorrenti,
ma anche di “assicurare il nostro accesso continuativo allo spazio e
negare lo spazio ad altri, se necessario” - “ensure our continued
access to space and deny space to others, if necessary” (luogotenente
generale E. G. Anderson III)[9]. Il documento della Rand si
inserisce dunque perfettamente nella logica unipolar-imperiale volta al
definitivo rafforzamento del gap di potenza tra gli Usa ed i potenziali
concorrenti, ed è la risposta all’annuncio - nel maggio 2001 da parte
di Rumsfeld - della riorganizzazione dei programmi spaziali del
Pentagono (l’U.S. Space Command era già stato istituito nel 1985):
“Alla Air Force sarà assegnata la responsabilità di organizzare,
addestrare ed equipaggiare forze per rapide e sostenute operazioni
spaziali, di carattere offensivo e difensivo”[10].
L’annuncio di Rumsfeld
era sorprendente nella scelta dei tempi - in quanto andava a esacerbare
i timori e le polemiche già suscitate dalla annunciata volontà di
denunciare il trattato Abm e di voler costituire il Theater Missile
Defense (Tmd), avvalorando le tesi di chi considerava quest’ultimo
progetto il “thin edge of the wedge” per la weaponization dello
spazio - ma non era un fulmine a ciel sereno, in quanto già in gennaio
Rumsfeld aveva pubblicamente annunciato le raccomandazioni della
“Congressional Commission to Assess United States National Security
Space Management and Organization” da lui presieduta: Sappiamo dalla storia che ogni
elemento - aria, terra e mare - ha visto dei conflitti. […] La realtà
indica che lo spazio non sarà differente. Data questa virtuale
certezza, gli Usa devono sviluppare i mezzi sia di deterrenza che di
difesa contro atti ostili nello e dallo spazio. Ciò richiederà
superiori capacità spaziali […]. Gli Usa devono avere l’opzione di
dispiegare armi nello spazio quale mezzo di deterrenza contro le minacce
e, se necessario, di difesa contro attacchi ai propri interessi. [...]
l’avere tale capacità darebbe agli Usa un deterrente molto più forte
e, in un conflitto, uno straordinario vantaggio militare. Affermazione, quest’ultima, che
lascia aperta la strada ad un uso non esclusivamente difensivo. La
conferenza-stampa dell’8 maggio, quindi, non era che il primo passo
della istituzionalizzazione del Rapporto della Commissione, il quale era
un rimaneggiamento di rapporti già pubblicati dallo U.S. Space Command[11],
che persegue l’obiettivo di “Dominare la dimensione spaziale delle
operazioni militari per proteggere gli interessi e investimenti
statunitensi. Integrare le Forze Spaziali nell’apparato bellico a
360°”, ritenendo che “il potere spaziale è vitale per conseguire i
concetti operativi del Joint Vision 2010” (1996) - finalizzati alla
“Full Spectrum Dominance”. Secondo lo US Space Command,
le “space capabilities” daranno agli Usa una superiorità
strategico-militare schiacciante “while denying this advantage to our
adversaries”, apportando il loro contributo a ciascuno dei quattro
concetti operativi del Joint Vision 2010. La conclusione
dell’US Space Command, dunque, è che “Space power is key to
achieving Joint Vision 2010” e, conseguentemente, appunto la “Full
Spectrum Dominance”[12]. A togliere ogni possibile
dubbio circa gli obiettivi dello US Space Command ha pensato (fuori dal
gergo militare) il suo stesso “Commander-in-Chief” Joseph W. Ashy. Alcune persone non vogliono
sentirne parlare, e sicuramente non è un argomento alla moda, ma –
assolutamente - siamo prossimi a combattere nello spazio. Siamo prossimi
a combattere nello spazio e dallo spazio… Un giorno colpiremo
obiettivi terrestri - navi, aerei, obiettivi di terra - dallo spazio[13]. Partendo da tali presupposti, lo
U.S. Space Command ha teorizzato nel documento “U.S. Space Com’s
Vision for 2020” (pubblicato nel 1998) l’opportunità per gli Usa di
garantirsi il “Control of Space” quale “abilità di assicurare
l’ininterrotto accesso allo spazio per le forze statunitensi e dei
nostri alleati, la libertà delle operazioni nello spazio e la abilità
di negare agli altri l’uso dello spazio, se richiesto” al fine di
“proteggere la nostra posizione nello spazio ed essere in grado di
impedire ad altri Paesi di raggiungere un vantaggio tramite i loro
sistemi spaziali”. Il
“Control of Space” è il primo, e imprescindibile, dei quattro
Concetti Operativi previsti dal “Visions for 2020”.
“Operational Concepts for U.S. Space Com’s Vision 2020” Esso è la premessa per il “Global Engagement”, che “è la
combinazione della sorveglianza globale della Terra (vedere qualsiasi
cosa in qualsiasi momento), della difesa missilistica su scala mondiale,
e della capacità potenziale di applicare la forza dallo spazio […].
Per esempio, un sistema per l’applicazione della forza basato nello
spazio potrebbe essere utilizzato per attacchi strategici”. Quanto alla “Full Force
Integration”, essa significa l’integrazione sinergica tra le forze
spaziali e quelle di terra, mare e cielo, mentre – infine - la
“Global Partnerships” ha lo scopo di “aumentare le capacità
spaziali militari sfruttando i sistemi spaziali internazionali civili e
commerciali. Questo concetto operativo discende dalla crescita esplosiva
di tali sistemi, che gli Usa possono utilizzare per sostenere - e
ridurre il costo di - le proprie capacità militari” (evidentemente la
protezione che il “benevolent empire” offre ai suoi alleati non è
del tutto gratuita). La conclusione di
“Visions for 2020”, pertanto, è che nel XXI secolo le forze
spaziali non dovranno limitarsi a fornire supporto strategico alle forze
“terrestri”, ma che “inizieranno anche a condurre operazioni
spaziali. L’emergente sinergia tra la superiorità spaziale e quella
di terra, mare ed aria, ci consentirà di ottenere la Full Spectrum
Dominance”[14]. Le posizioni dei “falchi” e le armi spaziali in cantiere Il documento della Rand, allora,
non è piovuto dal cielo, ma è il risultato ultimo della volontà
imperialista dei militari e di altri “falchi” della “guerra
fredda” - oggi alla Casa Bianca - di consolidare per il prossimo
secolo l’unipolar moment[15].
Se tale obiettivo è stato il filo rosso della politica estera e di
difesa di tutte le amministrazioni del dopo-“guerra fredda” (a
cominciare dal mantenimento in Europa della Nato dopo il crollo del Muro
di Berlino) esso ha subito una forte accelerazione sotto
l’amministrazione Bush, con il corollario di un unilateralismo senza
precedenti. Ne è un emblema la
denuncia del trattato Abm del 1972 - che rappresentava l’ostacolo
principale a qualsiasi progetto di collocare armi nello spazio - e
l’annuncio della ripresa dei programmi spaziali da parte di Donald
Rumsfeld. Questi ha operato una svolta rispetto alla politica della
amministrazione precedente, in quanto “At present - riporta Visions
for 2020 del 1998 - the notion of weapons in space is not consistent
with US national policy”. Il veto espresso da Clinton a tre programmi
di armamento spaziale - il Clementine II, l’Army Kinetic-Kill
Anti-Satellite (ASAT) program ed il Military Space Plane - suscitò
nondimeno la ferma presa di posizione dei militari. Quarantatre militari
di alto grado in pensione inviarono una lettera aperta al presidente
invitandolo a cambiare la sua decisione. La lettera faceva riferimento
alla difesa missilistica spaziale ed ai mezzi per neutralizzare i
satelliti nemici come “missions the United States military must be
prepared to perform”[16].
Le richieste dei militari (e dell’industria militare) furono infine
accolte da Rumsfeld. I progetti annunciati da
questi sono il proseguimento dei programmi elaborati nel periodo Reagan
(“Strategic Defense Iniziative”); ma oggi, al di fuori della logica
dell’equilibrio bipolare, sono nient’altro che uno strumento - se
non lo strumento principale - volto al consolidamento del superpotere
americano in modo potenzialmente offensivo contro le Potenze emergenti.
I neo-conservatori oggi alla Casa Bianca condividono la convinzione dei
militari secondo la quale […] lo spazio oggi è analogo all’aviazione
prima della Prima Guerra Mondiale. La transizione dell’aviazione da
elemento di supporto a strumento bellico in sé e per sé, sarà presto
emulata dai sistemi spaziali. Ogni tentativo di impedire questo processo
non solo è destinato al fallimento, ma lascerà anche gli Usa
vulnerabili agli attacchi da parte di altri Paesi che perseguono
aggressivamente la space weaponization[17]. Di conseguenza gli Usa non
devono perdere posizioni nello spazio rispetto alle potenze emergenti se
vogliono mantenere lo status di unica Superpotenza: anzi, portando il
ragionamento alle estreme conseguenze, devono realizzare quanto prima la
weaponization per poter negare agli altri l’accesso allo
spazio, “medium” chiave della Full Spectrum Dominance del XXI
secolo. Da questo punto di vista, le proteste di Russia e Cina appaiono
del tutto comprensibili. Ad esse non sfugge che il programma
popolarmente rinominato “Star Wars” (per il quale il “Senate Armed
Services Committee” ha approvato lo stanziamento di 8.3 miliardi poco
dopo l’11 settembre) non ha a che fare con la difesa della Homeland;
e proprio l’11 settembre ha dimostrato l’inutilità di un tale
sistema contro la “asymmetric warfare”. Piuttosto, secondo il
“Colorado Springs Indipendent”, La
realtà, raramente discussa dai media e dai politici, è che il
cosiddetto programma di difesa missilistica è semplicemente la prima
fase in un programma di lungo termine volto a stabilire la superiorità
militare nello spazio, un ambito che storicamente è stato largamente
riservato a funzioni pacifiche[18].
Per gli stessi militari è
chiaro che la costituzione di un sistema di difesa missilistico spaziale
garantirà agli Usa non solo la possibilità di difendersi da eventuali
attacchi, ma anche - e soprattutto - la capacità di “virtualmente
tagliar fuori il resto del mondo dall’accesso allo spazio. Ciò
sarebbe possibile perché la capacità necessaria a fermare un attacco
missilistico anche di piccola entità è sufficiente a prevenire il
lancio di qualsiasi satelitte da parte delle altre Nazioni”[19]. Quest’ultima eventualità
trova conferma nei piani militari che prevedono lo sviluppo di un laser
destinato ad armare un sistema di satelliti (SBLs, Space-Based-Lasers)
capaci non solo di abbattere missili nemici lanciati da basi terrestri
ma anche di distruggere satelliti ostili e colpire obiettivi terrestri
nemici. Il confine tra difesa e offesa si fa evidentemente molto sottile
ma, assicura il senatore del Colorado Allard, lo SBL è solo per scopi
“dimostrativi”, quale arma esclusivamente difensiva[20]. Così non sembra,
leggendo le informazioni divulgate dagli stessi militari. Il laser
“supporterà la difesa attiva contro obiettivi aerospaziali, così
come il controllo dello spazio e l’applicazione della forza nello e
dallo spazio”[21]. Minori controversie circa
la natura della loro funzione riguardano un altro genere di satelliti
attualmente allo studio, capaci di colpire target terrestri con
proiettili al tungsteno non-esplosivi. Tali proiettili, chiamati “Rods
from God”, possono essere guidati via satellite verso qualsiasi
obiettivo sulla Terra in pochi minuti e colpire ad una velocità di più
di 12.000 piedi al secondo, sufficiente a distruggere anche bunker
rinforzati di svariati livelli sotterranei. Non è necessaria alcuna
carica esplosiva, in quanto la forza distruttiva deriva dalla velocità
e dal peso dei proiettili. Il sistema satellitare
sarà poi affiancato da “aerei spaziali”, capaci di colpire
qualsiasi obiettivo sulla Terra nel giro di poche ore. Il Falcon
(acronimo per Force Application and Launch from the Continental United
States) sarà inviato nella stratosfera da un aereo ausiliario e
viaggerà a un’altitudine di 100.000 piedi e ad una velocità di 12
volte quella del suono. Il primo volo dimostrativo è fissato per il
2006. Oltre ad essere in grado di colpire un obiettivo più velocemente
di un bombardiere convenzionale, il Falcon sarà virtualmente
invulnerabile. Nessun aereo nemico o missile anti-aereo può volare
così in alto, mentre il Falcon può lanciare missili anti-aerei.
Inoltre non ci sarà bisogno di basi all’estero, perché il raggio di
azione e la velocità del Falcon gli consentiranno di partire da basi
situate sul territorio degli Stati Uniti. Secondo i ricercatori dello
U.S. Space Command, sarà in grado di colpire obiettivi ovunque sulla
Terra in meno di un’ora[22]. Lo scopo dell’insieme di
tali dispositivi è la “Full Spectrum Dominance”, presupposto
dell’ordine unipolar-imperiale. Secondo quanto riportato nello
“Space Command’s Strategic Master Plan FY04” (documento del
novembre 2002, il cui obiettivo dichiarato è “non solo di mantenere
il nostro corrente vantaggio militare, ma anche di raggiungere un
vantaggio asimmetrico tramite capacità militari basate nello spazio”)
entro il 2025 l’insieme di tali dispositivi garantirà ai militari
statunitensi “la capacità di distruggere gli obiettivi nemici in
ore/minuti piuttosto che in settimane/giorni” pur con una ridotta
presenza militare sul terreno[23].
Ancor più chiaramente il
precedente Master Plan (FY02) affermava a proposito delle previsioni di
lungo termine (2014-2025): L’abilità
di arrestare le operazioni nemiche in ore, minuti, o addirittura
secondi, si baserà sulla capacità di condurre un rapido e globale
attacco convenzionale”. A tal proposito il “SOV (Space Operations Vehicle)…garantirà una capacità
di attacco convenzionale più forte e flessibile. Inoltre… lo SBL (Space-Based
Laser) darà agli Usa ed ai loro alleati una rivoluzionaria superiorità
aerea ed un vantaggio offensivo rispetto ai sistemi terrestri. […] La
capacità fornita dallo SBL di colpire rapidamente e globalmente
obiettivi spaziali ed aerei, darà agli Usa un formidabile vantaggio
militare. La combinazione dello SBL con lo SOV fornirà alla National
Command Authority una completa gamma di opzioni per un rapido e
globale attacco convenzionale[24]. In linea con il precedente,
l’ultimo Master Plan conferma le tesi di chi ritiene che il programma
spaziale statunitense abbia una funzione offensiva, al pari se non altro
di quella difensiva e di deterrenza: l’“Offensive Counterspace” (OCS)
e il “Defensive Counterspace” (DCS) sono i due pilastri su cui si
basa la “Space Superiority”, la quale è il presupposto per
“sfruttare più pienamente lo spazio tramite rafforzate capacità
volte alla Force Enhancement ed alla Force Application”.
Questo al fine di ottenere, tra gli altri, gli obiettivi di: §
“Modernizzare gli ICBMs (Intercontinental Ballistic
Missiles) e sviluppare capacità di rapido attacco globale non-nucleare
per fornire una deterrenza adattabile e un potere spaziale
coercitivo”; §
“Trasformare
lo spazio dall’essere centrato sulla Force Enhancement al
provvedere anche - oltre gli ICBMs - capacità di Force Application
nello, dallo ed attraverso lo spazio”[25].
Lo scenario di guerra decisivo Il programma spaziale non ha dunque la finalità esclusivamente
difensiva divulgata alla opinione pubblica nazionale e mondiale, ma ha,
come asserisce il Master Plan del 2002 nelle conclusioni, quella di
garantire - attraverso la somma di capacità offensive e difensive - la
supremazia militare degli Usa nello spazio, che nel prossimo futuro
sarà lo scenario di guerra decisivo. I progetti spaziali
rilanciati da Rumsfeld subito dopo la sua nomina a Segretario della
Difesa hanno suscitato le critiche non solo della comunità
internazionale ma anche dell’opinione pubblica americana, contraria ad
una ripresa della politica di riarmo. Prima che le dichiarazioni di
Rumsfeld portassero alla luce la faccenda, però, l’“uomo della
strada” non era minimamente informato -ma molto probabilmente non lo
è tuttora, o piuttosto è disinformato - a causa del silenzio dei mainstream
media, sempre più in mano ai poteri forti (ad esempio la Nbc è
di proprietà della General Electric)[26].
Le informazioni - seppur divulgate spesso dagli stessi militari e
reperibili su Internet - restano in sostanza circoscritte agli addetti
ai lavori, al giornalismo di inchiesta ed alle organizzazioni pacifiste.
Tra queste ultime, il “Global Network Against Weapons & Nuclear
Power in Space”, nato nel 1992, si pone l’obiettivo di “to oppose
the nuclearization and weaponization of space by building an
international constituency on the issue”. Se per l’attuale
amministrazione Bush conta principalmente la logica della forza
unipolar-unilaterale (che si traduce in pratica nell’isolazionismo e
nel rifiuto del diritto internazionale, come dimostrato in più
occasioni dalla denuncia del trattato Abm, dal rifiuto della ratifica
del protocollo di Kyoto e del trattato istitutivo del Tribunale Penale
Internazionale, per finire con il ricorso strumentale e quindi
l’umiliazione dell’Onu riguardo la guerra contro l’Iraq) per i
pacifisti, invece, il diritto internazionale resta la legge che deve
regolare i rapporti tra Stati: essi fanno notare - in modo lapalissiano
- che i piani spaziali statunitensi si pongono al di fuori di esso, in
primo luogo dell’“Outer Space Treaty” del 1967 che bandisce il
dispiegamento di armi di distruzione di massa nello spazio. Il 20
novembre 2000 - date le dichiarazioni statunitensi che lo rifiutavano
implicitamente - l’Assemblea Generale dell’Onu ha votato per
riaffermare l’“Outer Space Treaty” e nello specifico la clausola
che dispone l’uso dello spazio per “peaceful purposes”: 163 Paesi
hanno votato a favore, gli Usa si sono astenuti (accompagnati da Israele
e Micronesia)[27]. Dopo lo shock dell’11
settembre, però, è diventato più difficile informare l’“uomo
della strada” di tali questioni. Le critiche alla politica spaziale
della amministrazione Bush sono percepite come antipatriottiche, tanto
più che il progetto di scudo spaziale è stato presentato come uno
strumento esclusivamente difensivo. Forse dopo l’11/9 l’editoriale
del “The New York Times Magazine” (datato agosto 2001, intitolato
The Coming Space War e che inizia così: “Scenario di battaglia: lo
spazio. La guerra spaziale sembrava pura fantasia. Ora, per la gioia dei
pianificatori militari e per lo sgomento di molti civili, è più vicina
alla realtà di quanto potresti pensare”) non sarebbe stato scritto.
Esso accoglie la tesi di quanti sostengono che il programma spaziale Usa
va ben oltre i propositi di difesa nazionale per essere piuttosto il
“cavallo di Troia” con cui assumere il dominio militare dello
spazio, e conclude criticandolo per la costosa corsa agli armamenti che
scatenerà. Se
noi [noi Stati Uniti, andiamo nello spazio per] pianificare, testare e
dispiegarci aggressivamente quale unica Superpotenza, possiamo esser
certi che, dopo il breve respiro di sollievo per la competizione
nucleare della “guerra fredda”, ci imbarcheremo ancora una volta in
una nuova e costosa arms race. E con questa ci assumeremo la cupa
responsabilità di una rapida evoluzione verso la guerra spaziale[28]. Oggi tuttavia - afferma Bruce Gagnon del “Global Network
Against Weapons & Nuclear Power in Space” - tale corsa
all’armamento è propinata - costi quel che costi - ad un’America
impaurita, come la garanzia della sua sicurezza contro gli attacchi
degli “rogue States”. Alle stesse conclusioni
circa l’arms race giungono, sul fronte opposto, i promotori della
corsa allo spazio. La Rand Corporation prevede che la presenza militare
statunitense nello spazio indurrà uno squilibrio strategico che le
altre potenze non potranno ignorare: da qui il lancio di una corsa
all’armamento spaziale, una sfida che gli Usa dovranno vincere[29]. Più articolate, ma in
sostanza uguali, sono le conclusioni cui giunge un libro sponsorizzato
dalla Rand, Space Weapons Earth Wars[30].
Dopo una approfondita analisi delle tipologie di armi spaziali con i
loro pro e contro (dove i primi prevalgono sui secondi in termini di
rapidità ed efficacia di utilizzo, con la parallela impossibilità del
nemico di difendersi) esso prevede che la corsa per il loro possesso
partirà indipendentemente dal fatto che siano gli Stati Uniti a fare la
prima mossa. Tanto vale, allora, che siano loro ad accelerare in questa
direzione per mantenere l’attuale leadership spaziale e fronteggiare
il possibile dotarsi di armi spaziali da parte di altri Paesi. Il libro,
pur senza citarla esplicitamente, fa chiaramente riferimento alla Cina. La Rand, dunque, non fa che
riprendere le idee circolanti negli ambienti militari. Data la sua
impotanza strategica per la “Full Spectrum Dominance” (il “dominio
militare a tutto campo” consistente nella capacità di proiezione
militare unilaterale in qualsiasi scenario di guerra) e per l’esito
della “Grand Strategy” volta a consolidare l’ordine
unipolar-imperiale statunitense per il 21°secolo, gli Stati Uniti non
devono perdere posizioni nello spazio rispetto alle potenze emergenti.
La space weaponization è una tendenza inevitabile che gli Usa
non possono impedire o ignorare: se non dispiegheranno armi nello
spazio, saranno altri Paesi a farlo. Tanto vale, quindi, che gli Usa
sfruttino il loro attuale vantaggio per non dovere recuperare le
posizioni perdute. I rapidi progressi del programma spaziale cinese,
piuttosto, impongono che gli Usa si muovano già ora di anticipo per non
essere travolti dalla accelerazione dell’attività spaziale della
Cina, garantita dalla sua forte crescita economica. La costituzione di
capacità militari spaziali - del quale il programma di difesa
missilistico è il primo passo - sarà la garanzia per “proteggere la
nostra posizione nello spazio ed essere in grado di impedire ad altri
Paesi di raggiungere un vantaggio tramite i loro sistemi spaziali”, e,
in ultima analisi, per “negare agli altri l’uso dello spazio, se
richiesto”. I rapporti prodotti dalla
Rand sono il suggello della volontà dell’attuale amministrazione Bush
di superare le ritrosie passate e realizzare in tempi brevi la weaponization
dello spazio. L’ordine nella scala di priorità di tale progetto si
desume dalla solerzia con la quale Donald Rumsfeld ha sbloccato i piani
volti a collocare armi nello spazio subito dopo la sua nomina alla guida
del Pentagono. Le lobbies
dell’industria militare non possono che fregarsi le mani. La Lockheed
Martin, uno dei maggiori finanziatori della Rand (ma, a tal proposito,
se nel circolo della Rand la Lockheed Martin appartiene ai “Leaders”
- donando tra i 25.000 ed i 50.000$ l’anno - Rumsfeld rientra tra i
“Benefactors” che donano più di 50.000$[31])
recentemente ha vinto una commessa da 40milioni$ della “Missile
Defense Agency” del Pentagono, per progettare un velivolo spaziale
robotizzato da utilizzare in compiti che vanno dalla sorveglianza
all’abbattimento di missili[32].
Ma questo è uno dei molteplici progetti militari (tra i quali vi è il
Falcon) in cui la Lockheed Martin è coinvolta. Oltre a questa, Martin,
gli altri beneficiari delle commesse militari sono la Boeing, la
Raytheon e la TRW. Queste quattro corporazioni hanno finanziato la
campagna presidenziale di Bush ed ora stanno largamente rientrando nelle
spese del loro investimento politico. Quando la campagna
presidenziale del 2000 è entrata nella fase finale, le lobbies
dell’industria militare erano impegnate nel sostegno di entrambe le
parti, ma mostrarono una deciso favore per il candidato repubblicano, e
per una buona ragione. Entrambi i candidati repubblicano e democratico
si esprimevano a favore di un aumento delle spese militari, ma quello
repubblicano era molto più favorevole al dispiegamento in tempi rapidi
di un ambizioso e costoso programma di difesa missilistica. Il fatto che
George W. Bush abbia ricevuto fondi per quattro volte e mezzo quelli
ricevuti da Al Gore suggerisce che l’industria militare aveva una
chiara preferenza per il candidato repubblicano: era proprio la sua
promessa di realizzare il sistema di difesa missilistica a
differenziarlo dall’avversario ed a far intravedere all’industria
aerospaziale lauti guadagni. La amministrazione Bush,
quindi, è intimamente legata all’industria aerospaziale, attraverso
uomini di primo piano - come il segretario alla difesa Donald Rumsfeld
ed il vicepresidente Dick Cheney - e svariati sottosegretari e
funzionari già dipendenti delle industrie in questione. Quanto a questi ultimi, il
World Policy Institute ha documentato la presenza nella amministrazione
Bush di ben 32 ex-dipendenti dei maggiori “defense contractors” del
Pentagono (mentre, per quanto riguarda i legami con le compagnie
energetiche, queste hanno 21 loro esponenti alla Casa Bianca). Di questi
32, otto hanno legami con la Lockheed Martin. Tra questi otto vi è il
sottosegretario dell’Air Force Peter Teets (che è a favore della
weaponization dello spazio ed è l’autorità per l’acquisizione dei
sistemi militari spaziali) ed Everet Beckner, che è il capo del settore
armi nucleari presso il “Department of Energy’s National Nuclear
Security Administration”. Tra le figure di primo piano, Dick Cheney è
un ex membro del consiglio di amministrazione della TRW, mentre sua
moglie, Lynne Cheney, lo è stata a lungo (dal 1994 al gennaio 2001) di
quello della Lockheed Martin[33].
Ma è Donald Rumsfeld il
miglior amico del complesso militar-industriale, ed egli è nella
posizione ottimale per fare i loro interessi. Sulla forza dei suoi
legami con esse la sua storia personale lascia pochi dubbi. E’ un ex
amministratore della Rand Corporation ed ex presidente della Commissione
spaziale il cui rapporto finale ha aperto la strada alla realizzazione
della difesa missilistica e quindi dei più ambiziosi piani dell’U.S.
Space Command. La “Space Commission” è stata pesantemente
influenzata dagli interessi dell’industria aerospaziale, in quanto tra
i suoi membri aveva non meno di otto rappresentanti delle compagnie
operanti nel settore della tecnologia spaziale e della difesa
missilistica per il Pentagono. Rumsfeld è inoltre membro del think
tank “Project for the New American Century” ed ha fatto parte
del fortemente ideologizzato think tank “Empower America”.
che ha vigorosamente attaccato i membri del Senato che hanno espresso
dubbi circa il buon senso di procedere con il dispiegamento del sistema
di difesa missilistico. Jack Kemp, esponente di “Empower America”,
loda Rumsfeld per la svolta che ha dato al Pentagono. Quando
il mio caro amico Donald Rumsfeld è stato nominato Segretario della
Difesa, sapevo che le nostre forze e il nostro morale militare avrebbero
ricevuto non solo una spinta ma anche un robusto cambiamento quanto
all’approccio alla nostra difesa nazionale. Infatti, già prima
del peggior attacco sul suolo americano subito dagli Usa nella loro
storia, Rumsfeld aveva iniziato un audace piano per trasformare le forze
militari in una macchina autenticamente moderna ed avanzata
tecnologicamente, capace di muoversi rapidamente, centrare obiettivi
decisivi e, insomma, rappresentare ciò un esercito dovrebbe essere nel
21°secolo – essere capace di vincere una guerra e passare subito alla
successiva[34].
Tensioni “spaziali” con la Cina Il connubio tra gli
interessi delle industrie aerospaziali e la volontà unipolar-imperiale
dei militari e di ideologi del calibro di Rumsfeld, quindi, sono la base
e la linea guida del programma spaziale statunitense. Esso vuol essere
la risposta “preventiva” ai rapidi progressi del programma spaziale
cinese - resi palesi dal lancio dello Shenzhou 5 - percepiti dagli
analisti militari come una seria minaccia alla leadership spaziale e
terrestre degli Usa. Per costoro, infatti, lo
Shenzhou - insieme al resto del programma spaziale - è intrinsecamente
legato agli sforzi cinesi di modernizzare le proprie forze militari e
raggiungere un vantaggio rispetto agli “space assets” statunitensi.
Ad esempio, secondo il luogotenente colonnello Michael Stokes
dell’U.S. Air Force - analista aerospaziale presso il dipartimento
della difesa - “il programma cinese di voli spaziali con astronauti a
bordo è parte delle più vaste ambizioni spaziali della Cina, che hanno
chiare implicazioni per la sicurezza degli Usa per i prossimi 10-20
anni”. Stokes dichiara che la Cina ha prestato grande attenzione al
ruolo strategico che gli “space assets” hanno giocato nelle imprese
militari statunitensi del dopo-“guerra fredda” - dalla guerra del
Golfo del 1991 all’ultima contro l’Iraq - e che personalmente è
meno preoccupato del tentativo (la missione dello Shenzhou 5 non aveva
ancora avuto luogo) della Cina di raggiungere lo “human space flight
club” che dei suoi sforzi di “sviluppare un robusto network di
propri satelliti militari, cercando allo stesso tempo i mezzi per far
fuori i satelliti altrui nel caso di un conflitto”[35]
– evidentemente i militari statunitensi riflettono sul nemico la loro
volontà di “deny space to others, if necessary”. La Cina ufficialmente
risponde alle ansie statunitensi affermando la sua volontà di
utilizzare lo spazio a scopi pacifici, nel rispetto del diritto
internazionale. Piuttosto sottolinea come “certain countries”
mostrino di volere realizzare la weaponization dello spazio, in
seguito alla abrogazione del trattato Abm e alle dichiarazioni di voler
sviluppare il “Theater Missile Defense”. Le autorità cinesi,
dunque, ammoniscono indirettamente gli Stati Uniti nei termini seguenti:
La Cina è preoccupata della ricerca e sviluppo congiunto da parte di
certi Paesi del Theater Missile Defense, con un occhio al suo
dispiegamento nella regione dell’Asia del Nordest. Ciò condurrà alla
proliferazione della tecnologia missilistica avanzata e sarà dannoso
per la pace e la stabilità della regione Asia-Pacifico. La Cina si
oppone risolutamente ad ogni Paese che fornisca in qualsiasi modo a
Taiwan l’assistenza e la protezione del TMD (corsivo nel testo
originale)[36]. La Cina quindi, pur
ribadendo le sue intenzioni pacifiche, ha l’obiettivo di dotarsi dei
mezzi per portare avanti i propri intereressi (Taiwan innanzittutto, ma
anche le isole Spratly), garantire la sua sicurezza (la divisione
unipolar-imperiale del mondo tra alleati e nemici degli Stati Uniti e la
dottrina Bush dell’attacco preventivo, d’altro canto, non possono
che mettere all’erta un Paese come la Cina che spinge per il
superamento della unipolare “Pax Americana” e che alla sua periferia
ha importanti motivi di contrasto con gli interessi statunitensi) ed
essere in grado di sostenere un conflitto con gli Usa. Tutto questo si
traduce in un robusto piano spaziale, i cui rapidi progressi inquietano
gli Usa in quanto tendono al rafforzamento dell’influenza regionale
cinese e alla transizione verso un ordine multipolare. La competizione
ha anche un luogo geopolitico particolarmente caldo. Le isole Spratly
sono infatti oggetto di un contenzioso tra la Cina e gli Usa in quanto
rivestono grande importanza strategica: sono sulla rotta marittima
commerciale più importante del mondo - dalla quale passa il 25% della
produzione mondiale di petrolio, proveniente dal Medio Oriente e diretta
verso il Giappone e gli Stati Uniti - ed hanno importanti giacimenti di
petrolio nei loro dintorni[37].
Le ansie unipolariste degli
Usa sono state ravvivate dagli annunci e quindi dal successo del lancio
dello Shenzhou 5, in relazione al teso scenario taiwanese. La prima
“manned mission” cinese, infatti, secondo il Pentagono fornirà
informazioni militari alla Cina nella prospettiva di un conflitto con
gli Stati Uniti circa Taiwan, e non sarà una missione di interesse
puramente scientifico[38].
Difficilmente potrebbe essere altrimenti, visto che la divisione tra
programmi spaziali civili e militari cinesi è inesistente e lo stesso
Shenzhou è sotto la supervisione del “PLA’s General Armament
Department”: lo Shenzhou 5 - per ammissione degli stessi cinesi -
“avrà una camera CCD con una risoluzione di 1,6 metri sul terreno,
che potrà essere usata a fini militari”[39].
Per il già citato
colonnello Stokes, l’invio dell’uomo nello spazio da parte della
Cina non è preoccupante in sé, ma come segnale del livello tecnologico
da essa raggiunto nel campo dei vettori spaziali, in quanto Pechino -
nel timore di perdere definitivamente il controllo su Taiwan - “sta
sviluppando capacità spaziali che potrebbero essere usate
nell’eventualità di un conflitto nello stretto di Taiwan”,
consapevole che “gli space assets giocheranno il ruolo da
protagonista in un futuro uso della forza contro Taiwan e nella
prevenzione di ogni intervento straniero nello scenario taiwanese”[40].
I progressi tecnici derivanti dalla missione dello Shenzhou 5 e delle
successive “manned missions” potranno essere reinvestiti
militarmente nello sviluppo non solo di missili balistici ma anche di
armi anti-satellite e nano-satelliti per lo spionaggio[41].
Secondo gli esperti Usa Pechino sarà capace di “lanciare rapidamente
piccoli satelliti da ricognizione per monitorare la sua periferia e
l’Oceano Pacifico orientale entro i prossimi 3-5 anni[42]. Visti i progressi del suo
programma spaziale - sostenuto da una forte volontà politica in quanto
presupposto basilare della propria visione geostrategica - la Cina,
dunque, ha le carte in regola per insidiare il primato spaziale
statunitense, tanto più se si considera che esso è sostenuto da
finanziamenti in forte crescita. Nel marzo 2002 il Ministro per le
Finanze cinese Xiang Huaicheng ha annunciato un aumento delle spese
militari per il 2002 del 17,5%, portando il totale a 20 miliardi$
(quelle statunitensi ammontano a 24 miliardi$ per la Nasa e
“unclassified military space programs”). Ciò fa della Cina il
secondo maggior investitore militare del mondo dopo gli Usa, e il
secondo in Asia. Inoltre l’alto tasso di crescita economica cinese
lascia prevede agli analisti americani che “la spesa annuale per la
difesa potrebbe aumentare di 3-4 volte da ora al 2020”[43].
Di fronte a questi dati,
gli Usa stanno prendendo molto sul serio la sfida spaziale e, seppur in
vantaggio, già si preoccupano dell’ulteriore traguardo in programma
nell’agenda cinese: la Luna Secondo Robert Walker, ex
presidente della commissione sul futuro dell’industria aerospaziale
statunitense, i cinesi sono definitivamente intenzionati a divenire una
potenza spaziale: i loro progetti non si limitano semplicemente alla
“navigazione” nella bassa orbita terrestre, ma puntano alla Luna e
poi a Marte. Se gli europei sono determinati a sfidare la preminenza
statunitense nella aviazione civile, la sfida alla leadership nello
spazio viene dalla Cina. Walker è convinto che la
Cina sia impegnata in un aggressivo programma spaziale al fine di andare
sulla Luna e di stabilirvisi permanentemente entro un decennio (secondo
alcuni studiosi giapponesi la Cina sarà capace di raggiungere la Luna
già tra 3-4 anni). Le basterà investire l’1% del proprio PIL nei
prossimi anni per garantire le risorse per un programma spaziale molto
robusto. Gli Usa, invece, secondo Walker oggi non sono in grado di
replicare l’impresa di 35 anni fa. L’incapacità di competere in una
nuova moon race non ha solo un risvolto di orgoglio nazionale, ma
pone anche seri interrogativi strategici. In qualità di secondo Paese
ad essere andato sulla Luna, la Cina ne trarrebbe un grande prestigio
internazionale. Dallo stabilirvi delle basi stabili, poi, ricaverebbe la
possibilità di sfruttarne le risorse ed acquisire un vantaggio in
importanti settori tecnologici - tra cui quello della fusione nucleare -
con concrete ricadute sulle attività terrestri. La conclusione di Walker è
che il programma spaziale cinese non è stato ancora affrontato
seriamente dai circoli politici statunitensi, ma nondimeno esso
rappresenta una grossa sfida alla leadership degli Usa nello spazio. A
tale sfida essi devono rispondere con lo sviluppo di nuove tecnologie
(come il sistema di propulsione al plasma nucleare) che consentano di
raggiungere la Luna e Marte più velocemente di quanto finora possibile,
e di spostarsi nella bassa orbita terrestre più frequentemente e con
minori spese[44]. “Negare lo spazio ad altri”, e specialmente alla Cina In questa logica, si
capisce che l’espressione già citata “ensure our continued access
to space and deny space to others, if necessary” è rivolta ad un
preciso destinatario. Il Pentagono, d’altro canto, ritiene che la Cina
abbia la medesima intenzione nei confronti degli Stati Uniti, e
considera le sue dichiarazioni polemiche nei confronti dei ventilati
progetti statunitensi di weaponization spaziale - espresse
davanti alla commissione Onu sull’uso pacifico dello spazio - quale il
mezzo di colpire diplomaticamente gli Usa e di rallentarne l’azione,
mentre essa stessa in segreto lavora alacremente ai medesimi progetti.
Anche secondo Larry Wortzel, direttore dell’“Asian Studies Center”
presso il think tank conservatore “Heritage Foundation”,
l’introduzione da parte cinese di un disegno di trattato contro la weaponization
of space è ingannevole (perché “la Cina stessa sta
indubitabilmente sviluppando armi spaziali”) e non ha altro scopo che
colpire diplomaticamente gli Usa e ritardare il loro piano di difesa
missilistica mentre la Cina avanza spedita con i suoi piani segreti[45].
Secondo il Pentagono ed i think tank ad esso vicini, quindi, la
Cina avrebbe il segreto desiderio di prendere nello spazio quello che
ora è il ruolo degli Stati Uniti. Secondo Richard Fisher (del think
tank “The Jamestown Foundation”) il PLA ha ben chiaro il
concetto che il control of space - quale teorizzato dagli american i- è
un obiettivo che la Cina stessa deve raggiungere: “La Cina necessita
della capacità di negare agli Usa l’accesso e l’uso dello spazio,
dal momento che gli stessi Stati Uniti sfruttano lo spazio per
supportare le loro forze”[46]. Vari elementi lasciano
quindi prevedere che la sfida nello spazio tra Usa e Cina supererà
quanto finora conosciuto circa l’utilizzo strategico-militare dello
spazio (satelliti spia) per andare rapidamente verso la weaponization
vera e propria dello stesso, a scopo sia difensivo che offensivo (due
ambiti che si confondono e, visto l’obiettivo finale di deny space
to others, vedono il secondo prevalere nettamente sul primo). E c’è chi va più in
là. Se circa il carattere della politica spaziale della Cina non si
hanno elementi certi (a parte le dichiarazioni di condanna della weaponization
dello spazio e della corsa all’armamento che essa comporterà [47]
– ma le reali intenzioni della Cina si possono desumere dalla volontà
di espellere gli Usa dalla propria area di influenza) mentre si sa
decisamente di più circa i suoi progressi spaziali e i progetti in
cantiere, per quanto concerne gli Stati Uniti si può tranquillamente
affermare che essi sono risoluti a mantenere con ogni mezzo la propria
leadership nello spazio, chiave di volta della “Full Spectrum
Dominance”. La relazione tra la dimensione spaziale e la dimensione
imperiale (con accenti da “Manifest Destiny”) degli Stati Uniti, è
suggellata - quasi a sintesi del pensiero militare esaminato - dalle
conclusioni di The Future of War: Power, Technology & American
World Dominance in the 2lst Century, scritto nel 1996 dagli “arms
experts” G. e M. Friedman[48].
Qui le smanie di potere perdono ogni inibizione e, invece di
“accontentarsi” di un XXI secolo unipolare, prevedono la
costituzione di un impero millenario: Così come
dall’anno 1500 era chiaro che l’esperienza europea del potere
sarebbe stata la sua dominazione globale dei mari, allo stesso modo non
ci vuol molto a vedere che l’esperienza americana del potere si
baserà sulla dominazione dello spazio. Come l’Europa ha espanso la
guerra e il suo potere ai mari su scala planetaria, così gli Stati
Uniti hanno intenzione di espandere la guerra nello spazio ed ai
pianeti. Come l’Europa ha dato forma al mondo per mezzo millennio
così gli Stati Uniti daranno forma al mondo per almeno la stessa
lunghezza di tempo. [1] Questo articolo è gia apparso sulla rivista "GIANO" N. 45, settembre-dicembre 2003 http://www.odradek.it/giano/archivio/2003/45.html [2] Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana, Longanesi&C., Milano 1998 [3]
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