Globalizzazione e apartheid globale: valorizzazione delle diversità dei sistemi produttivi e delle culture in un sistema di valori comuni[1] Bruno
Amoroso
Docente di Economia Internazionale e delle sviluppo presso l'università Roskilde in Danimarca Sintesi Il
problema dell’uso delle risorse non è mai un problema astratto. Non
si può risolvere dividendo lo spazio in cinquanta parti oppure in sette
miliardi di parti, quanti saranno tra poco gli abitanti della terra.
E’ un problema che va affrontato guardando all’essenza delle cose,
cioè al modo nel quale nella vita quotidiana sono organizzati i
bisogni, le scelte e i consumi delle persone. Da
30 anni viviamo in un contesto politico, sociale ed economico mondiale,
la globabilizzazione, che ha creato un sistema di produzione e di
consumo che è un sistema di apartheid globale, perché favorisce un
quinto dell’umanità. Tutto ciò che si produce e si consuma, le forme
stesse della produzione e del consumo, in terra e nel cielo, sono
dettate, in modo ormai arbitrario, arrogante e non più sottoposto a
discussione critica, da questo quinto di umanità. Questa realtà che è
indiscutibile, tanto che contro di essa è difficile perfino fare
opposizione, ha assunto naturalmente anche la forma di una proposta
culturale. Come ogni sistema di apartheid, l’attuale si è proposto
attraverso il diritto, l’etica, la norma e si presenta nella veste di
“villaggio globale”. Invece, non c’è niente di meno globale del
sistema della globalizzazione. Questo
di proporre il nostro mondo, i nostri concetti, cioè quelli del mondo
ricco, come universali è un vecchio vizio, di cui dobbiamo essere
consapevoli; quanto detto vale per il ‘diritto internazionale’, per
i ‘diritti umani’, per i ‘tribunali internazionali’: tutte forme
arbitrarie attraverso le quali da secoli l’Occidente riesce a
soffocare ogni forma di organizzazione che sia diversa da quella che noi
abbiamo immaginato. Tra
le reazioni e le proteste che questo mondo della globalizzazione,
produce in Occidente ci sono due tipi di proposte: quelle che si
richiamano al diritto internazionale, ai diritti umani, e
all’economia, come la Tassa Tobin - sulla base della quale è nato un
movimento di contestazione - e le proposte del tipo di quelle avanzate
da Franzoni e Petrella. Le prime sono reazioni che si muovono
all’interno del sistema di apartheid con il rischio di generare nuove
forme di dipendenza da esso. Diverso è il discorso portato avanti dalle
seconde. Il tentativo di Petrella e di Franzoni è quello di avviare una
riflessione sul fatto che, non essendoci dubbio alcuno che l’acqua, lo
spazio, siano beni comuni, è necessario, prima che sia troppo tardi,
ripristinare una forma di pensiero, di organizzazione e di gestione di
tali beni che ne consenta un uso comune. Il
mio intervento, più che fornire una documentazione sui fatti vuole
offrire un intermezzo di riflessioni di un economista su tematiche
concernenti le risorse comuni, tematiche oggettive che riguardano
aspetti tecnologici, aspetti economici, aspetti sociali e aspetti
morali. Vorrei
anzitutto dire che l’immagine della spazzatura nello spazio ha su di
me un effetto un po’ consolatorio, nel senso che ho capito che
viaggiando nello spazio ci sentiremo tutti quanti a casa, cioè che lo
spazio non è molto diverso dalla terra. Questo vuol dire che se non
risolviamo il problema della spazzatura in terra, non risolveremo,
secondo me, neanche il problema della spazzatura nello spazio. Tra
queste due cose non può che esserci un qualche rapporto. Oggi,
alla base di quello che avviene sulla terra e nello spazio ci sono
aspetti legati al comportamento, anche alle leggi se volete, ma
soprattutto al comportamento, e al rispetto di noi stessi.
E ci sono aspetti legati al modo in cui si produce ed in cui si
consuma. Ricordo
quando ero ragazzo a Roma, negli anni ’50. Anche allora c’era la
spazzatura domestica e funzionava così: c’era il secchio della
spazzatura, che si teneva sotto il lavandino ed era di dimensioni
ridotte. Veniva riempito durante il giorno, e poi la sera verso le 11,
prima di andare a dormire, mia madre lo metteva discretamente davanti
alla porta di casa. Discretamente, all’alba, veniva qualcuno che molto
discretamente la prendeva e la portava via. Allora le città si potevano
giudicare dal grado di pulizia: c’erano città più pulite e città più
sporche. Oggi non è così. Oggi la spazzatura è un fatto d’orgoglio,
cioè le città si distinguono in base al tipo di cassonetti. Uno viene
a Roma e dice: “Ah, i romani hanno i cassonetti sporchi, aperti e
verdi”, tutta la città è piena di cassonetti. Andate a Milano e sono
gialli. Quindi oggi distinguiamo le città non in base alla pulizia, ma
in base al tipo di cassonetti che la giunta comunale ha deciso di
utilizzare. La spazzatura è diventata quindi quasi un fatto d’identità,
un indicatore della capacità organizzativa delle comunità locali nel
gestire lo sporco delle rispettive città. A
monte ci sono di nuovo i sistemi produttivi, vale a dire quanto si
produce e come si produce, come si consuma e come si getta via. Il
discorso ci riporta insomma sempre ai nostri modi di produzione e di
consumo. Una
seconda osservazione. Alcuni anni fa uscì un rapporto del primo
ministro norvegese - una donna - dal titolo ‘Rapporto Bruntland. Il
nostro futuro comune’. Ricordo che molte persone dei paesi altri
dicevano: quale “nostro”? Nostro di chi? Perché indubbiamente le
riflessioni, intorno al modo in cui il mondo potrebbe organizzarsi, si
risolvevano in un’agenda dell’ordine mondiale fatta a immagine e
somiglianza del Nord, anche se coloro che avevano redatto il rapporto
scrivevano a nome della comunità mondiale, che naturalmente siamo
sempre noi. Questo
è il secondo problema, il secondo equivoco, bisogna fare attenzione a
non definire l’agenda sempre e solo in base alle nostre priorità; é
chiaro che per noi sono importanti e ci sembra giusto combattere per
esse. Prima di stabilire però l’agenda del mondo, cioè il nostro
futuro comune, bisogna rispondere alla domanda “nostro di chi?”,
perché, rispetto ai problemi, anche i più essenziali, non tutti
abbiamo gli stessi interessi, non tutti abbiamo gli stessi diritti. Non
partirò dalla storia delle idee e dei concetti. Voglio partire invece
dai fatti. Da 30 anni viviamo in un contesto politico, sociale ed
economico mondiale che si chiama globabilizzazione. Si tratta di un
contesto che ha creato un sistema di produzione e di consumo che è un
sistema di apartheid globale,
perché favorisce un quinto dell’umanità. Quindi tutto ciò che si
produce, tutto ciò che si consuma, le forme stesse della produzione e
del consumo, in terra e nel cielo, sono dettate, in modo ormai direi
arbitrario, arrogante e non più sottoposto a discussione critica, da
questo quinto di umanità. Questa realtà nella quale viviamo da 30 anni
e che è indiscutibile, tanto che contro di essa è difficile perfino
fare opposizione, ha assunto naturalmente anche la forma di una proposta
culturale. Ogni sistema di apartheid
si è proposto attraverso il diritto, attraverso l’etica, attraverso
la norma. L’attuale sistema di apartheid
si propone nella veste di “villaggio globale”. Non c’è niente di
meno globale del sistema della globalizzazione. Eppure ci suggerisce
l’immagine che viviamo tutti nello stesso villaggio, che siamo tutti
cittadini del mondo, di un mondo che poi appunto in realtà è un
sistema di apartheid. Questo
trucco di proporre il nostro mondo, i nostri concetti, cioè quelli del
mondo ricco, come universali è un vecchio vizio, di cui dobbiamo essere
consapevoli, anche perché purtroppo noi siamo ben dentro il sistema,
noi siamo nel centro del sistema di apartheid,
non fuori di esso, e quindi dovremmo sempre usare con molto pudore ogni
richiamo all’interpretazione del ‘diritto internazionale’,
naturalmente come noi lo pensiamo; oppure dei ‘diritti umani’,
naturalmente quelli che noi abbiamo in mente; oppure dei ‘tribunali
internazionali’; naturalmente quelli che servono i nostri interessi.
Perché sono tutte forme arbitrarie attraverso le quali da secoli
l’Occidente, il mondo ricco, riesce a soffocare ogni forma di
organizzazione che sia diversa da quella che noi abbiamo immaginato. Ora,
questo mondo della globalizzazione, questo sistema di apartheid,
naturalmente produce reazioni, proteste. Ed
è appunto per questo che sono qui, prima di tutto perché mi occupo di
cercare di capire - perché malgrado tutto, malgrado l’apartheid,
e al di là del pensiero unico qualcosa c’è, qualche riflessione
esiste. Vediamo allora quali sono le forme che la protesta e la reazione
assume, soprattutto in Occidente. Non parlerò qui invece delle forme
che assume in Oriente, che sono note, se non per dire che hanno tutte la
loro legittimità di esistere come forme di reazione e di protesta. Oggi
ci occupiamo delle reazioni in Occidente, cioè all’interno del mondo
ricco. Si tratta di proposte concrete, sulle quali si sta riflettendo. In
Occidente sono principalmente due le forme che la protesta e la reazione
assumono. Fanno
parte del primo tipo di proposte quelle che si richiamano al diritto
internazionale, e che sono il frutto della ricerca di un’alternativa
al sistema bipolare mondiale nel tentativo di evitare, al mondo, mali
peggiori. C’è poi tutto il discorso sui diritti umani, che è uno dei
pilastri fondamentali della reazione a questo sistema di apartheid, che, di fronte a situazioni terribili, cerca di
introdurre qualche forma di regolamentazione. Esistono poi proposte nel
campo dell’economia, di cui richiamo solo la più famosa, che è
quella della Tassa Tobin, sulla base della quale è nato anche un
movimento di contestazione. Questo
è un primo tipo di proposte. Il
secondo tipo di proposte sono quelle che fanno Franzoni e Petrella[2].
Sono proposte diverse dalle prime. Perché diverse? Perché le prime
proposte, quella dei tribunali internazionali, del diritto
internazionale e della Tassa Tobin, sono tutte reazioni che si muovono
all’interno del sistema di apartheid
e, pur pensando di combatterlo, finiscono col giustificarlo, col
legittimarlo, perché legano la soluzione al sistema esistente. É per
questo che giudico queste proposte devastanti. La Tassa Tobin è
aberrante. L’idea della Tassa Tobin in sostanza è: visto che le
speculazioni finanziarie esistono cerchiamo di guadagnarci anche noi. Le
tassiamo e così ci facciamo dare un po’ di quei soldi che loro invece
usano per cose assurde. Se ce li danno e ci fanno fare anche un po’ di
bene, passino pure le speculazioni finanziarie. Quindi legittimiamo la
finanza internazionale purché ci facciano campare (e siamo sempre noi
naturalmente che riusciremo a campare, non gli altri). C’è
poi un rischio di dipendenza da questo meccanismo, perché, supponiamo
che sia effettivamente possibile tassare questo flusso finanziario e che
noi quindi riceviamo una percentuale di questo flusso e la usiamo per
costruire tanti asili d’infanzia; che succederebbe se il flusso
diminuisse? Ci troveremmo nella situazione che, se per ragioni etiche si
decidesse a un certo punto di non fare più speculazione finanziaria,
saremmo noi ad essere colpiti al cuore, perché avremmo gli asili, ma
non più i soldi per gestirli. Quindi avremmo creato una nostra nuova
dipendenza dal sistema economico, quella stessa dipendenza che cerchiamo
di eliminare. Badate
bene che questa dipendenza è stato l’errore storico - se volete meno
tragico di quanto sarebbe questo - sul quale hanno inciampato e in cui
si sono impigliati tutti i sistemi di welfare.
Tutta l’esperienza gloriosa ma anche tragica dei sistemi di welfare
in Europa, quelli nordici e quelli italiani, si è risolta nel dire:
siamo realisti, non possiamo cambiare il sistema capitalista, quindi
tassiamolo. Che i capitalisti facciano pure il loro mestiere, in cui
sono bravissimi, però a noi socialisti, cattolici, ecc…date un po’
di soldi: creiamo un bel sistema fiscale in cui voi pagate lo stato e
poi lo stato si occuperà delle cose di cui voi non volete occuparvi.
Questa è stata la grande, geniale invenzione dei sistemi di welfare,
che però - come è stato anche il caso dei sistemi socialisti, e delle
loro altre geniali invenzioni - hanno finito per intrappolarsi, perché
appunto con il sistema di welfare si è prodotta una dipendenza dal sistema economico. Il
sistema economico, crescendo sempre di più, ad un certo punto si
chiede: perché devo finanziarvi? Non mi serve più il vostro consenso,
quindi non vi pago più le tasse. Insomma
credo che tentativi di ripetere questi percorsi - ribadisco, gloriosi in
una fase storica in cui queste cose erano tutte da sperimentare - oggi
quantomeno peccherebbero d’ingenuità, se non di mancanze più gravi. Rispetto
a questa impostazione il discorso di Petrella e di Franzoni è diverso,
perché sceglie un’area più specifica, Petrella l’acqua, Franzoni
lo spazio. Non è che poi ci si illuda di poter controllare i fatti
spaziali. Il tentativo è quello di trovare un momento per avviare una
nuova riflessione, che parta dal dire: siccome non c’è dubbio che
questi sono spazi comuni, vediamo se, prima che sia troppo tardi,
riusciamo a ricostruire una forma di pensiero, di organizzazione e di
gestione che ne consenta un uso comune. Petrella
richiama principi universali e parla di un diritto all’acqua, ma non
in astratto. Non dice neanche che l’acqua va divisa in modo uguale tra
tutti i popoli della terra, non avrebbe senso. Il diritto all’acqua
significa anzitutto il diritto all’acqua potabile, perché questo sì,
è un fatto di base: la mancanza di acqua è causa di malattie e di
disastri. E, siccome miliardi di persone non hanno accesso all’acqua
potabile, bisogna fornirgliela. Si tratta, come afferma Petrella, non
solo di una scelta di umanità, sanità e diritto, ma anche di una
scelta produttiva: invece di fare i satelliti dovremmo istallare due
miliardi di rubinetti. Si badi bene che due miliardi di rubinetti in
senso economico significa molto di più, significa tubature, sistemi di
raccolta dell’acqua, ecc…Vuol dire fare un grande investimento
produttivo a livello mondiale, che assicuri l’acqua potabile a tutti,
e fondare sul problema dell’acqua il sistema produttivo mondiale
producendo rubinetti, tubature, centri di raccolta e impianti di
purificazione. Si
sono fatte invece scelte diverse: anni fa l’Europa doveva costruire il
satellite europeo, perché ne esisteva già uno americano, e uno cubano.
Ovviamente alla base dei nostri sistemi produttivi ci sono scelte
strategiche. Però la proposta di Petrella è importante, perché rivela
un approccio: partire dai bisogni per definire le strategie produttive,
non bisogni intesi in modo astratto, ma individuati in base a criteri
molto concreti, quale il bisogno di acqua potabile di tutti gli abitanti
della terra. Inoltre,
partire dal bisogno di acqua significa rispettare quel rapporto
fondamentale che è alla base di ogni equilibrio, sia sulla terra che in
cielo, che è quello che si chiama il rapporto tra natura e culture. Il
bisogno di acqua non è uguale per tutti. I nomadi non hanno bisogno di
tanta acqua, hanno bisogno di pascoli. Mentre quando si coltivano fiori
nel deserto, come si fa in Israele, si drena tutta l’acqua dei
territori circostanti, quella che serve ai nomadi, che ne usano
pochissima per sopravvivere. Si finisce così per distruggere la cultura
nomade che è quella appunto dei pastori del deserto, che di
quell’acqua potabile, anche se poca, vivono. Poi
esistono zone in cui si produce il riso e in cui ovviamente c’è un
grande consumo di acqua. Sono zone tropicali e anche lì si deve stare
attenti a non minacciare gli equilibri idrici ed ecologici. Quindi
il problema dell’uso delle risorse non è mai un problema astratto.
Non si può risolvere dividendo lo spazio in cinquanta parti oppure in
sette miliardi di parti, quanti saranno tra poco gli abitanti della
terra. E’ un problema che va affrontato guardando all’essenza delle
cose, cioè al modo nel quale nella vita quotidiana sono organizzati i
bisogni, le scelte e i consumi delle persone. E
questo naturalmente ci consente di arrivare ai problemi dello spazio.
Anche questi problemi possono essere affrontati in termini astratti, in
termini, cioè, di diritti o di principi o di libero accesso di tutti.
Ma sappiamo che questo approccio non ha senso: c’è chi allo spazio
non ci pensa affatto… Possiamo però pensare al diritto delle comunità
umane, o anche spaziali, di poter oggi e
in futuro fare le loro scelte in autonomia e indipendenza. Però
è importante capire che un sistema di organizzazione umana, economica e
sociale basato su questi principi, e quindi fondato sulle comunità, sui
paesi, sugli stati e su forme di cooperazione tra questi, non può
essere basato su principi universali. Se lo si basa su principi
universali, si finisce per avere solo un principio universale, che oggi
è quello degli Stati Uniti, domani forse sarà quello di un altro
paese, rispetto ai quali i nostri discorsi sul diritto diventano
esercitazioni inutili. Il
problema dello spazio, oltre a tutti gli aspetti che abbiamo visto, e
che sono reali, ne mostra un’altro basilare. Petrella in un famoso
rapporto, il secondo rapporto del Gruppo di Lisbona (che non riuscì mai
a pubblicare) diceva: “disarmiamo la finanza”; io direi:
“disarmiamo lo spazio”. Mi pare che il primo livello di consenso
dovrebbe essere trovato sul fatto che lo spazio non può essere usato
per scopi di tipo militare. E’ vero, si tratta di un’utopia, perché
è estremamente difficile individuare il confine tra uso civile e uso
militare dello spazio. Poi ci sono scienziati disponibili e bravissimi
ad imbrogliare, ci farebbero credere che chissà quale utilità si
ricava dallo scudo spaziale! Indubbiamente, però, il fatto di dire:
“vietiamo l’uso militare dello spazio”, sarebbe già un primo
importante passo. Anche se al contempo non riusciamo ad applicare questo
principio all’economia, perché su aspetti elementari, come il più
aberrante, quello delle mine antiuomo, ancora non si riesce a trovare un
accordo. Tempo fa vidi in Danimarca un’intervista alla televisione
italiana. C’era stata a Roma una manifestazione sindacale. Il
giornalista intervistò un gruppo di operai di una fabbrica del nord che
produce armi: “Non è un po’ strano che voi stiate qui a dimostrare
contro il governo, contro questo e contro quello, per la pace e poi
producete armi?”. Gli operai rimasero un po’ imbarazzati. E
indubbiamente l’imbarazzo prende ciascuno di noi, perché noi tutti
viviamo di un sistema che ha alla base questa realtà. Però dissero:
“Sì, siamo qui perché siamo operai di un’industria e se non le
produciamo noi le armi, le produce qualcun altro”. Allora
capite: finché noi siamo in un mondo in cui i comportamenti sociali,
culturali e tecnologici sono questi, credo che ci sia di che riflettere.
Più che dell’articolo 18, della riforma di questo o di quello,
m’interessa parlare dei comportamenti che sono alla base dei nostri
sistemi e che fanno sì che gruppi umani, comunità, paesi accettino,
nella loro vita quotidiana e produttiva, determinate scelte di consumo.
Scelte che producono specifiche forme giuridiche e
politiche, che finiscono per giustificare le aberrazioni di cui
abbiamo parlato. Concludo dicendo che questi fatti hanno un’importanza centrale per le nostre scelte. Oggi ci troviamo a livello nazionale, europeo e mondiale di fronte a scelte importanti, purtroppo però le soluzioni che si adottano sono spesso contrarie a ciò che crediamo giusto fare.. Per esempio, è chiaro che una scelta basata sul principio di comunità e quindi di cooperazione si oppone a qualunque scelta d’integrazione di culture ed economie. Dovremmo essere capaci di immaginare un’Italia basata su un ambiente comune, su un sistema di regioni che cooperano e collaborano tra loro nel pieno rispetto delle autonomie, su scelte sostenibili, e così via. E dovremmo essere capaci di immaginare un’Europa che si basi sulle nazioni, sulle comunità, quindi sul pieno rispetto delle diversità, e su tutto ciò costruisca un sistema di cooperazione, e non una camicia di forza all’interno della quale mettere in atto un processo di integrazione. E infine dovremmo sapere immaginare a livello mondiale un sistema di culture e di diritti diversi, perché esiste un contenuto che il diritto non può riflettere: i diritti dei bambini hanno un significato diverso nelle varie culture, come pure i diritti delle donne, i diritti degli uomini, il diritto di famiglia, il diritto al lavoro. Su tutto ciò non si può fare un diritto internazionale. Si può invece mettere in moto un processo di risveglio delle comunità, della capacità critica di ogni comunità di crescere basandosi sulle proprie forze e all’interno della propria cultura e di stabilire relazioni costruttive con altre culture, per arrivare a forme adatte a far allargare questo cerchio di solidarietà e comunicazione tra comunità diverse. In
questo nostro percorso lo spazio che c’entra? Questo è il punto. In
questo percorso lo spazio per noi dovrebbe rimanere quello leopardiano,
cioè lo spazio filosofico, lo spazio in cui anneghiamo semmai e
riflettiamo sul possibile creato e Creatore. Non è uno spazio da
conquistare, uno spazio da invadere. Ma questo se è vero per
l’universo, se è vero per la luna - che è diventato un oggetto da
possedere, non un punto di vista da cui riflettere sul mondo - è vero
anche per la terra. Perché la terra non è più uno spazio di culture,
di religioni. No, è un mercato, uno spazio su cui semmai competere per
conquistare. [1] Testo non rivisto dall’autore. [2] Si vedano i contributi dei due autori a pagina 19: Riccardo Petrella, Dal ‘bene comune’ ai ‘beni comuni’. Un modello di analisi e un bene fondamentale: l’acqua: dal ‘bisogno’ al ‘diritto’, e a pagina 35: Giovanni Franzoni L’Economia del dare.
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