La missione dei settanta
discepoli
(Mt 10; 28:18-20; Mr 16:15-16)
1
Dopo queste cose, il Signore designò altri settanta discepoli e li mandò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo
dov'egli stesso stava per andare. 2
E diceva loro: «La mèsse è grande, ma gli operai sono pochi; pregate dunque il
Signore della mèsse perché spinga degli operai nella sua mèsse. 3 Andate; ecco, io vi mando come
agnelli in mezzo ai lupi. 4 Non portate né borsa, né sacca, né calzari, e non
salutate nessuno per via.
Istituzione dei diaconi
(Es 18:13-26; 1Ti 3:8-13)
5
Questa proposta piacque a tutta la moltitudine; ed elessero Stefano, uomo pieno
di fede e di Spirito Santo, Filippo, Procoro,
Nicanore, Timone, Parmena e Nicola, proselito di Antiochia. 6 Li presentarono
agli apostoli, i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani.
27
Ora voi siete il corpo di Cristo e membra di esso,
ciascuno per parte sua. 28 E Dio ha posto nella chiesa in primo luogo
degli apostoli, in secondo luogo dei profeti, in terzo luogo dei dottori, poi
miracoli, poi doni di guarigioni, assistenze, doni di governo, diversità di
lingue. 29 Sono forse
tutti apostoli? Sono forse tutti profeti? Sono forse tutti dottori? Fanno tutti
dei miracoli? 30
Tutti hanno forse i doni di guarigioni? Parlano tutti in altre lingue?
Interpretano tutti? Voi, però, desiderate ardentemente i carismi maggiori!
"Guardare avanti e oltre"
Dialogo
sul futuro delle comunità cristiane di base in Italia
Intervista
a
D) Le comunità cristiane di base fra pochi giorni svolgeranno il loro
30° incontro nazionale. Come vede, don Barbero, il futuro del movimento in
Italia?
R)
Anche la comunità di Pinerolo sarà attivamente
presente. Personalmente considero anche questi “momenti” di vitale importanza,
specialmente per quei fratelli e quelle sorelle che si sentono parte del
movimento e si riconoscono in questo orizzonte, ma non
hanno più la fortuna di vivere un’esperienza di comunità di base nel loro
territorio. La gioia di ritrovarsi fra esperienze diverse, ma veramente
sorelle, ha sempre costituito una risorsa preziosa per le comunità cristiane di
base, anche in vista di nuove elaborazioni. E poi... il corpo a corpo, il da cuore a cuore nella nostra storia è
sempre stato molto costruttivo.
D) Ma... si può dire che, sotto l’aspetto
della riflessione, i convegni non hanno mai rappresentato dei momenti alti di
ricerca oppure mi sbaglio?
R)
Non credo che si possa generalizzare. A mio avviso, alcuni “seminari” e alcuni
convegni hanno creato un confronto molto significativo.
Tuttavia concordo nel dire che le ricerche più feconde
non hanno quasi mai trovato né elaborazioni né spazio particolare nei convegni
che, però, hanno permesso e favorito lo scambio e la circolazione di ogni
ricerca. Il che non è poco. Mi sembra di capire che i
convegni si prefiggono soprattutto di mettere al centro l’incontro tra le
persone e la valorizzazione di tutti i percorsi. Non
esiste nessuna esperienza esemplare, non esiste un
modello, ma si confrontano realtà tanto gelose della loro particolarità quanto
desiderose di confrontarla.
D) Ma queste esperienze, come le definisce Lei, sono in crescita o
diminuiscono sul piano numerico?
R)
Per quel che so, le comunità di base, non solo in Italia, sono numericamente in
forte decrescita. Ma la crisi è presente in tutta la
chiesa di base, anzi in tutta
D) E allora? Non siamo allo stato preagonico, detto molto brutalmente?
R)
Vorrei dire che alcune di queste realtà comunitarie
mantengono spesso una buona comunicazione con altri soggetti attivi nella
società e nella chiesa. Il che permette un notevole livello di
impegno e di elaborazione. Non si può certo dire
che le comunità di Roma, Firenze, Genova, Verona, Pinerolo
e altre siano isolate nel loro territorio o nella chiesa. Anche
se questo è raro.
D) Si può dire che nessuno promuova la
visibilità delle comunità di base né nei mezzi di comunicazione né all’interno
della chiesa? Le comunità di base forse non portano acqua a chi conta...
R)
Non mi sembra che le comunità vivano con il complesso dell’emarginato... E’,
però, innegabile che l’esperienza delle comunità cristiane di base non è funzionale
agli interessi del cattolicesimo ufficiale e non attira l’attenzione nemmeno
del centro sinistra che è ancora, invece, pieno di attenzioni
per le gerarchie, quasi sempre ossequioso verso il Vaticano. Devo, invece,
rilevare con piacere che, dove le comunità svolgono un rigoroso lavoro biblico
e teologico e sono attive sul piano sociale, culturale e solidaristico,
attorno ad esse cresce un interesse straordinario da
parte di tante persone in ricerca. Forse i maggiori problemi delle comunità
cristiane di base in Italia si verificano proprio su
questi terreni dove, a mio avviso, si registrano vistose carenze e gravi
assenze proprio da parte delle comunità stesse.
D) Vuole spiegarsi meglio?
R)
Constato che a volte la lettura biblica è intermittente, un po’ trascurata o
quasi assente. Altre volte la comunità non svolge un cammino di
elaborazione teologica, non ha una liturgia accessibile a persone
esterne al movimento, non vive esperienze di preghiera che alimentino il
cammino di fede, non coltiva in modo continuativo relazioni con altre realtà
ecclesiali, ecumeniche..., non si “sporge” e non si spende su nuovi territori
umani... Altre volte mi capita di constatare che talune comunità chiudono i
battenti per tutta l’estate... Tra le tante gemme preziose delle comunità di
base noto queste ombre che, a mio avviso, rischiano di comprometterne
D) Da anni leggo alcune sue annotazioni su una certa “disattenzione”
nel costruire delle comunità biblicamente ossigenate, nutrite di preghiera, strutturate sul piano dei ministeri, accessibili alla “gente
comune”, cioè accoglienti. Voglio qui citare, tra i tanti passi che compaiono
nei suoi scritti, una pagina che Lei scrisse pochi anni fa: “Voglio ancora
accennare ad un nodo che ritengo essenziale, oggi, per la costruzione di una chiesa di base viva, aperta, dialogante.
In qualche modo, sia pure embrionale, la
comunità di base di Pinerolo, come altre, ha
praticato, in questi anni, una reale riappropriazione
ed espansione di alcuni ministeri, ma, a mio avviso, è
urgente e necessaria una più rigorosa riflessione teologica e pastorale sulla ministerialità, come vado sollecitando da anni.
E' mia opinione che le comunità cristiane di base italiane abbiano accantonato, rimosso o addirittura rinunciato ad un
discorso biblico, storico, teologico e pastorale profondo e aderente alla realtà sul terreno del ministero che vada oltre una
genericità ed una vaghezza piuttosto problematiche e talvolta sconcertanti.
Ravviso qui un punto debole, un tallone d'Achille delle comunità cristiane di
base non solo italiane. Infatti non ci si può
illudere. Non sono sufficienti né la declericalizzazione,
né la pari opportunità di ministero di uomini e donne,
né il riconoscimento del sacerdozio universale, tappe peraltro necessarie. Ben
altro è il respiro, ben altro è il "passaggio" teologico e pastorale
che Lutero indicava nel suo De instituendis ministris ecclesiae ("Come
si devono istituire i ministri della chiesa", Claudiana, Torino 1987).
A mio avviso, un movimento vivo e capace di costruirsi delle
prospettive sa accogliere chi si rende disponibile, possiede una capacità
calamitante verso persone che desiderano riconvertire il loro servizio
comunitario e nello stesso tempo avverte il bisogno di darsi ministri/e che
siano "attrezzati" per questo servizio alla comunità.
Sostanzialmente, aldilà del populismo ecclesiologico
e del sogno spontaneistico, temo che, qualora vengano
a mancare i preti che oggi esercitano un ministero di animazione
nelle varie comunità e nei gruppi, il cammino comunitario abbia vita breve.
Manca una riflessione profonda, realistica, sulla
‘cura pastorale’ di una comunità e sulla rilevanza
del ministero, come uno degli strumenti di riconoscibilità
della comunità stessa. Così pure, per quanto concerne
le "parrocchie alternative", ho il timore che si abbia scarsa
consapevolezza del fatto che, rimossi e sostituiti i parroci, tutto possa
essere normalizzato.
Non si tratta di un ritorno di ecclesiocentrismo, ma di una
necessaria ecclesiogenesi. Né
si tratta di creare dei modelli, ma di trovare e sperimentare dei
"modi" perché la comunità sappia darsi i necessari ministeri.
La lunga esperienza del movimento cristiano di base mi ha insegnato
che, dove non c'è stata questa attenzione, la vita
comunitaria si è presto o tardi svuotata o spenta. Dove, invece, si è cercato
di costruire concretamente delle prassi ministeriali, la vita comunitaria
conosce uno spessore diverso, sia a livello umano che
evangelico. L'assenza della "cura pastorale", come nucleo essenziale
del ministero, rischia di disperdere le stupende risorse e le feconde
originalità che nella chiesa di base trovano espressione, specialmente nelle
comunità cristiane di base” (Una comunità che guarda avanti,
Viottoli 2004, pagg. 29-30). Conferma
queste sue affermazioni?
R)
Sono ancora dello stesso avviso. Ovviamente, non sono un
indovino e non posso che esprimere delle opinioni assolutamente personali.
Intanto nulla va perduto, se sappiamo mettere in circolo nella più ampia chiesa
di base le esperienze delle comunità cristiane di base. Può darsi che entro un decennio la stagione delle comunità cristiane di base,
almeno in Italia, sia giunta a compimento, ma questo non significherà affatto
la fine della chiesa di base che
continuerà a rigenerarsi e a vivere in mille altri modi. Il
movimento “Noi siamo
chiesa”, per esempio, già realizza l’intreccio di varie
esperienze di questa chiesa di base. In ogni caso, stiamo ragionando su ipotesi
e vorrei tanto che una nuova fioritura di comunità cristiane di base smentisse
questa mia previsione... Penso che tutti ce lo
auguriamo...
D) Ma le comunità cristiane di base riusciranno a vivere dopo i Franzoni, i Mazzi, i Vigli...?
R)
Questa è la speranza, anche se faccio fatica a vedere come proseguirà la
comunità dell’Isolotto senza Mazzi e Gomiti o la comunità di San Paolo senza Franzoni o la comunità di Olbia
senza Tonino Cau... Qui la realtà non fa sconti e
nella mia vita non ho visto nessuna realtà di base proseguire in modo aperto e
fecondo senza una forte presenza ministeriale. In ogni caso c’è sempre
dell’imprevisto che Dio ci regala e il percorso delle comunità può subire
modificazioni e rinnovamenti. Se non credessimo
nell’inedito, che cristiani/e saremmo? L’importante, a mio avviso, è avere la
consapevolezza dei problemi e cercare delle soluzioni... So
che nel movimento altri ragionano in modo diverso dal mio e sviluppano una
riflessione sull’autogestione comunitaria che oggi io non trovo realistica.
Pensare la comunità nei termini di un collettivo che si autogestisce
mi pare molto semplice sulla carta e molto affascinante, ma poco realistico. Un
collettivo, assunto senza ulteriori specificazioni,
soggiace, a mio avviso, al rischio di essere mitizzato. Non è questa una
comunità idealizzata? Preferisco pensare che la comunità per vivere abbia bisogno di un “collegio
strutturato”. Il collegium, che ha trovato molte “versioni” nella tradizione sia ebraica che cristiana, è un gruppo cosciente
di dover svolgere mansioni e assumere responsabilità ben individuate e
distribuite, che riceve tale incarico dalla comunità. In esso
esiste un/una presidente, un moderatore o altro coordinatore. Chi svolge uno di
questi servizi non deve nascondersi, ma vivere
l’autorità-autorevolezza con umiltà, in spirito di servizio, nella
consapevolezza del ministero che gli è affidato. Nel tempo della “società
liquida” (di cui ci parlano diffusamente le opere di Zygmunt
Bauman), con i suoi accentuati tratti di individualismo, in cui “si attribuisce il carattere della
permanenza unicamente allo stato di transitorietà”, spesso anche nelle
relazioni e negli impegni, può una comunità vivere come un collettivo di per sé
costruttivo e duraturo? Sono necessarie, a mio avviso,
responsabilità diverse, divise e personalizzate, da esercitare al fine
della crescita collettiva, dentro una strada collettiva. Il collettivo nasconde
il pericolo di un leaderaggio non nominato e quindi
meno soggetto alla verifica comunitaria. Il collegium invece conosce la possibilità
di dare un nome e un limite a funzioni e
responsabilità ben individuate.
Molte
ricerche, a mio avviso, non sono proponibili come impegno di un collettivo
perché esigono conoscenze, tempi, interessi e strumenti rispetto ai quali
esistono in un comunità una grande asimmetria e una
sana “diseguaglianza”. Resta, a mio avviso, determinante che le diverse competenze e possibilità siano
messe a disposizione. Su mille questioni nella mia vita e in alcuni dei miei studi non mi sono proposto di fare collettivo, ma di
avvalermi di specifiche competenze altrui. Sulla storia dei dogmi,
sull’antropologia biblica, sulla storia delle religioni, su parecchie ricerche cristologiche... non penserei mai di proporre alla comunità
di leggere insieme talune opere tanto fondamentali e numerose quanto
difficilmente accessibili. Mi sento tranquillamente collettivo
quando mi avvalgo di esperienze o studi o opinioni altrui e quando
comunico le mie. Il collettivo sta nell’intenzione di lavorare e camminare
insieme, cercando di valorizzare al massimo tutti gli apporti, i doni e le
competenze anche se, in una comunità grande, potrebbe diventare una forzatura
dettare o imporre una serie di interessi comuni quando
i vissuti delle persone, pur nella comune ricerca di vivere la fede,
manifestano problemi, esigenze, interessi diversi. Insomma il lavoro di
collettivo non è l’unico metodo per un cammino di crescita comunitaria.
Lavorare insieme non è riducibile a lavorare in
collettivo. La struttura biblica della Koinonia va
ben oltre il collettivo. Ovviamente, sono preziose e vanno colte le situazioni
in cui è possibile fare collettivo di ricerca.
Non
apro nemmeno un’altra questione di palmare evidenza: la strutturazione di una
comunità di 200 persone ha esigenze diverse da una realtà comunitaria di 10
persone che si raduna in una casa...
In
ogni caso sono solito ripetere che io penso, scrivo, propongo dentro questo oggi e non faccio, su questo terreno,
alcun discorso di eternità. Semmai tengo aperte le porte
dell’oltrepassamento, dell’ulteriorità.
D) Molti ministeri e anche quello ordinato?
R)
In buona sostanza... mi sembra di dover constatare e di capire che, senza la
presenza di ministri/e ordinati/e nelle comunità e anche dalle
comunità, sia assai difficile pensare ad un movimento che non si riduca
a piccoli gruppi, sempre più esposti al rischio dell’isolamento e
dell’esaurimento. Si noti che io intendo ministro ordinato o consacrato nella accezione ecumenica più ampia, come ho documentato in
alcuni miei scritti: uomo, donna, sacerdote, presbitero, pastore/a,
animatore/animatrice riconosciuto e “ordinato-consacrato” da un sinodo, da un
vescovo o dalla sua comunità.
Il
ministero ordinato di una persona preparata ed autorevole potrà più facilmente,
a mio avviso, favorire l’espressione delle altrui ministerialità
e delle “comunicazioni” con altre realtà ecclesiali. Spesso il ministro
ordinato potrà svolgere in maniera particolare il servizio dell’ascolto dei
fratelli e delle sorelle, accompagnare il cammino dei più deboli, offrire stimoli
alla ricerca, favorire la “pontalità”. La mia
esperienza personale di presbitero mi dice che
moltissime persone oggi desiderano e cercano momenti di dialogo personale
riservato e qualificato che spesso aprono anche la strada ad una esperienza
comunitaria. Spesso, almeno per un certo periodo di tempo, il “pastore”, la
“pastora” rappresentano un riferimento utile o addirittura necessario per
talune persone.
Su
questo punto ho scritto più diffusamente il mio pensiero nel quaderno “Perché resto” (Viottoli 2003) e
rimando a quelle pagine in cui ho tentato di lavorare
su due fronti: la teologia biblica e le esigenze pastorali del gettare ponti.
Per me è stato ecclesiologicamente rilevante aver
elaborato una vera libertà dal diktat vaticano per cui
ho continuato il ministero non facendo conto alcuno di un “ordine” che non ha
rispettato la dinamica comunitaria. Senza il consenso della comunità non posso
esercitare il ministero. Senza il consenso della comunità, nessuno può
estromettermi. Vorrei far notare che questa elaborazione
ecclesiologica, che rifiuta di interrompere un
ministero per ordine vaticano, non proviene per nulla dalla volontà di
riaffermare il mio diritto di essere e di continuare a fare il prete. Non è una
rivendicazione personale. Costituisce, invece, la riaffermazione della priorità della comunità, senza il cui
consenso nulla può essere deciso rispetto ai suoi ministeri da una qualsiasi
“autorità” esterna. Questa è la posta in gioco. All’interno di questa dinamica posso, semmai, difendere lo spazio della mia
vocazione al servizio comunitario, ma sempre nell’ottica che Ed. Schillebeeckx riassume nel
“diritto di una comunità a darsi un prete”.
D) Il 3 aprile del
R)
Lo faccio volentieri riprendendolo da “Perché
resto” (pagg. 40 – 42): “Vorrei proporre alcune brevi
considerazioni rispetto al fatto che, in talune circostanze, io abbia
riconfermato di sentirmi prete e sacerdote. In parecchi scritti ho documentato
come i ministri nella letteratura del Secondo Testamento non siano dei
"sacerdoti" e come appartenga alla
"produzione e alla involuzione storica" la versione sacerdotale del
ministero. E non ritratto! I livelli e i
"gradi" gerarchici tradiscono e travisano le funzioni di servizio
proprie del ministero nella chiesa.
Ma accetto con convinzione di sacrificare una rigida (ed in taluni casi
astratta) coerenza teologica alle esigenze di un cammino cristiano di donne e di uomini che, nella loro cultura, vivono il mio ministero
in una dimensione sacerdotale.
Sono
"pontalmente" disponibile, cioè sono disponibile a questa "operazione ponte"
che consiste nel lasciar utilizzare il mio servizio in certi spazi come
sacerdotale e in certi altri spazi come puramente ministeriale. I ponti non
servono a niente se non coprono l’intera distanza che separa le sponde opposte.
Non scompare per nulla dal mio orizzonte la "coerenza" teologica, ma
essa è subordinata alla fruibilità e al rispetto dei passi di una straordinaria
quantità di donne e di uomini con i quali faccio
strada.
Ho già affrontato questo problema nel libro "Oltre la confessione" (Pinerolo
1988, pag. 82): " Come cristiano e come presbitero della comunità di base
non mi trovo a mio agio, né teologicamente né
psicologicamente, nella confessione auricolare. Nella comunità di base nessuno
chiede l'assoluzione. Però, personalmente non ho mai
ritenuto di dover negare questo servizio di ministero a quei cristiani che, per
intima convinzione, praticano la confessione auricolare e si rivolgono a me per
ricevere l'assoluzione. In questi casi tento di presentare alla sorella o al
fratello che mi interpella un possibile itinerario
diverso, le varie forme con cui nei secoli si è celebrato il dono della
riconciliazione, ma mi prefiggo sempre di rispettare rigorosamente e lietamente
la fede e i cammini diversi delle singole persone. Ritengo che sia possibile
esprimere correttamente il mio modo di vedere e la concezione teologica della
comunità di base al riguardo, senza dover in alcun modo sottrarmi ad una
richiesta fraterna, qualora essa mi sembri sincera, e proveniente da un cuore
aperto al dono di Dio. In questo caso, dove ci unisce la fede non può dividerci
la teologia o, meglio, la diversità teologica non va esaltata a scapito della
fede comune e non può prevalere su di essa".
Quando nel "gruppo biblico notturno di donne" mi
trovo ad ascoltare le confessioni delle sorelle che me lo chiedono e a
"celebrare la messa" come il loro parroco (così mi chiamano) o quando
vado in una parrocchia per una celebrazione eucaristica, presiedo tale
celebrazione con quella comunità facendo quelle mediazioni che il cammino di
quella comunità rende possibili nel rispetto della loro diversità.
Se posso audacemente rubare a Paolo una esperienza che
sento mia, citerei
Quando è il caso, quando lo ritengo utile alle persone, quando
mi sembra che possa servire la causa del regno di Dio, sento addirittura
feconda questa contraddizione. Questa per me è una reale laicità metodologica.
Chi mi conosce e mi frequenta probabilmente avverte in che direzione punta il
mio ministero, quali germi di innovazione, di oltrepassamento, di ulteriorità
cerco di immettere, ma al primo posto per me sta il rispetto del cammino a
tappe della fede di chi mi richiede il ministero. Questa è la mia scelta: un
modo, non una regola o un modello. Spero di valorizzare
questa contraddizione, di non uscirne per sentirmi puro e "coerente",
di abitarla consapevolmente e serenamente finché ne vedrò la straordinaria
fecondità.
Ho
una concezione della chiesa che non accetta il gioco “o dentro o fuori”. La
canzone della gerarchia so già qual è. Ci sto bene in
questa chiesa, perché ho una concezione ecumenica e cerco di ascoltare le mille
voci che "parlano plurale", che gridano libertà, che sanno
disobbedire ai poteri in tutta tranquillità. Non sento né soffocamento né
esigenza di uscire. Mi riconosco in quelle persone che sono
chiesa povera, chiesa libera, chiesa in ricerca e dentro questo popolo, senza
parentela alcuna con i gerarchi, sono anch'io chiesa.
Del
resto amo questa realtà ecclesiale in cui ho incontrato tante testimonianze di
fede, in cui lavoro con molti teologi e teologhe, in cui amo appassionatamente
migliaia di preti attualmente in ministero e centinaia
di migliaia di separati/e, spretati, eretici, scomunicati, gay e lesbiche:
gente davvero sana, viva, ricca di umanità e di fede. Non abbandono per nulla
quel ministero che ricevetti con la coscienza di allora e che vivo con la
consapevolezza di oggi.
Quello
che mi auguro e per cui prego e opero costantemente è
proprio il tentativo di coniugare radicalità evangelica e fedeltà al passo
della gente, dei poveri, degli ultimi e delle ultime, nella consapevolezza che
ognuno/a di noi deve fare i conti con alcune contraddizioni. Riconoscerle e
nominarle significa forse, a mio avviso, cercare di convertirci da quelle che
servono al nostro comodo o al nostro egoismo e
valorizzare quelle che possono essere tradotte in mediazioni a servizio della
liberazione umana ed evangelica”.
D) Lei individua dei limiti, ma è estremamente
convinto del buon cammino delle comunità cristiane di base.
R)
In realtà è impossibile vivere i nostri giorni senza misurarci con i nostri limiti, ma oggi dobbiamo e possiamo vivere gioiosamente e
intensamente il presente. Questo mi preme e questo voglio
fare. Ritengo che sia la maniera migliore per prepararci al futuro... con tanta
fiducia nella presenza di Dio.
Temo
le scorciatoie, le semplificazioni, l’aria insalubre delle case chiuse e i
discorsi fatti e rifatti tra amici, ma non faccio delle mie opinioni il
riflesso della verità. E’ importante lavorare insieme e scommettere
fiduciosamente con le nostre reali diversità che sono
la vera ricchezza di un cammino di fede comunitaria. E
poi il problema del ministero e le scelte che si compiono non sono dogmi, ma
appartengono all’area del contingente, mutevole, opinabile. Siccome Gesù non ha direttamente fondato nessuna chiesa, nel senso
che non ha dato vita ad una religione separata
dall’ebraismo, non possiamo far risalire a lui nessuna struttura ecclesiale. Gesù ha dato al suo gruppo una identità,
ma non ha in alcun modo lasciato il progetto ministeriale preciso per la futura
chiesa. Ciò significa che le strutture ministeriali di ieri, di
oggi e di domani sono totalmente affidate alla nostra responsabilità,
libertà e creatività. Ogni “ordinamento” è provvisorio, aperto a nuove esigenze
e nuove decisioni. L’importante non è la permanenza di
una determinata forma comunitaria, ma il suo essere funzionale alla testimonianza
del regno di Dio. Il nostro dibattere attorno alla ministerialità
ha senso solo se è finalizzato a fare in modo che ciascuno/a
di noi e le nostre singole esperienze comunitarie siano sempre più a
servizio del regno di Dio. L’elemento decisivo è che l’evangelo sia predicato e
vissuto. La comunità è in tutto e per tutto subordinata
a questa testimonianza. Ecco perché tutte le questioni attinenti
la strutturazione comunitaria sono secondarie e suscettibili di tanti
tentativi. Il che è molto liberante e responsabilizzante.
Soprattutto è sempre provvisorio.
a cura di Marie Laprune
(Viottoli n°2/2006, pag. 41-46)