CdB s.Paolo - Celebrazione del 14 luglio 2013

 

Le tre letture di questa domenica sono organicamente incentrate sui principi che devono ispirare la vita di un credente. È stato scelto un brano del Deuteronomio amato da Paolo, (lo ripropone nella lettera ai Romani), che fornisce un’idea della parola divina molto intima (“molto vicina a te… nella tua bocca… nel tuo cuore”), senz’altro ispirata alla filosofia stoica. Il secondo brano è una presentazione di Gesù, ma troppo appesantita teologicamente, un inno cristologico di antica formazione, utilizzato dall’autore della lettera ai Colossesi per combattere la diffusione di dottrine gnostiche che dovevano essere presenti in quella comunità. Di tutt’altra freschezza è, invece, il brano del vangelo su cui abbiamo deciso di soffermarci sulla scorta di un commento non recente, credo di una ventina d’anni, quasi come una scommessa per vedere se abbia mantenuto intatto il suo messaggio.

La parabola del samaritano ci parla del fermarsi accanto a una persona violentata e ferita, e fermarsi mentre si procede con tanta fretta sulla nostra strada non è facile. La strada la concepiamo perché sia percorsa velocemente ed essa finisce per unire solo i punti della città che giudichiamo importanti. Questo ci porta ad essere superficiali e inconsapevoli. Il nostro modello di vita ci dissuade dal conoscere ciò che avviene ai bordi del nostro percorso e ci invita a riconoscerci solo negli spazi che ci siamo scelti.

Ovviamente le motivazioni di questo correre possono essere varie: può essere un cercare di precedere gli altri nell’accaparrarsi spazi che sono ritenuti vitali, ma può anche essere un correre dietro un’utopia che si crede cambierà il mondo. È chiaro che una visione marxista dei fatti della società ci porterà ad occuparci maggiormente delle cause per le quali esiste la violenza e dell’impegno per estirparle o per combattere chi produce questa violenza. Resta in ogni caso l’incontro con la sofferenza che ci chiama a dare una risposta.

Nell’episodio del vangelo abbiamo un uomo, uno scriba, che chiede a Gesù un’opinione sulla via della salvezza. Di fronte alla domanda di Gesù su cosa ci sia scritto nella legge di Mosè risponde con Deuteronomio 6,4: “Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo! Amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze”. Solo che non si ferma qui, va oltre e seguendo una tradizione dei profeti del passato come Osea, Isaia e Geremia, aggiunge al sovrano comandamento dell’amore di Dio un altro comandamento raccolto da un testo abbastanza lontano, Levitico 19,18: “Ciascuno di voi deve amare il suo prossimo come se stesso”. Con questa risposta lo scriba dimostra di aver raggiunto le consapevolezze etiche dell’amore di Dio. Intrecciare i due comandamenti in uno solo non è un’operazione neutrale. Vedere Dio nel prossimo è una proposta nuova e inquietante e porta ad una religiosità umanizzata, ad una mistica della prossimità.

La risposta dello scriba si inserisce dunque in un robusto filone della tradizione ebraica, quello che attraverso la predicazione profetica, in contrasto col pensiero religioso e la prassi dominante, rivendicava l’attenzione verso i più deboli, coloro che da soli non possono ottenere giustizia, e denunciava con forza la falsità del culto e delle osservanze legali quando costituiscono un alibi per non attuare la giustizia sociale. Il Levitico (19,33-34) raccomandava l’amore per il prossimo: “Quando uno straniero si stabilirà sulla vostra terra, non opprimetelo; al contrario, trattandolo come se fosse uno dei vostri connazionali, dovete amarlo come voi stessi. Ricordatevi che anche voi siete stati stranieri in Egitto”. C’era tuttavia una disputa nel diritto giudaico su chi dovesse essere considerato “prossimo” e questo giustifica la domanda dello scriba. Gesù risponde nel modo che sappiamo: cioè rovescia il rapporto salvatore/salvato e narra un episodio riguardante un samaritano che sarebbe stato, al più, da annettere all’area del prossimo da salvare e ne fa un salvatore. Un emarginato e maledetto viene portato come modello di amore del prossimo a uno scriba di schietta discendenza. La risposta di Gesù è che il rapporto di prossimità non è preesistente, né prefigurabile, né canonicamente definibile ma si crea nel momento in cui avviene l’atto concreto del riconoscimento di una condizione estrema a cui si risponde con un coinvolgimento personale. Secondo Luca, si confrontano nella mente del rabbi di Nazareth due modi di esprimere culto e venerazione verso il Signore. Il primo attraverso l’osservanza delle regole liturgiche e del codice di purità, l’altro attraverso il servizio alla persona che ha subito offesa e violenza e che giace ai bordi della strada: essa è in quel momento l’immagine del divino bestemmiato dai violentatori.

I primi due che non si fermano a soccorrere il ferito appartengono alla sfera del sacro, un sacerdote ed un levita. Senz’altro non sono da sottovalutare le motivazioni del timore di contrarre impurità toccando un ferito: è un fatto, però, che Gesù ha voluto sottolineare che di contro a due rappresentanti del sacro l’aiuto al ferito è giunto da un impuro, un samaritano.

La Samaria, una regione montuosa al centro della Palestina, era stata occupata dagli Assiri di Sargon II nel 721 a.C., che avevano deportato gli abitanti sostituendoli con popoli di città diverse, i quali erano odiati per le loro origini bastarde e per il loro sincretismo religioso: dalla Mesopotamia si erano portati le loro usanze religiose e i loro idoli e li adoravano accanto al Dio di Israele e alla sua legge. Il solco tra ebrei e samaritani era diventato così profondo che i samaritani compirono un atto scismatico costruendo un tempio sul monte Garizim nel 332 a. C., come ci dice Flavio Giuseppe.

Bene, a questo samaritano Gesù assegna un’azione che è tipica di Dio, l’”avere compassione”, esplanchniste. Il termine splanchna, viscere, compare in Luca per la prima volta in bocca a Zaccaria, marito di Elisabetta e padre del Battista, come sede del sentimento. Il Signore, attraverso le viscere della pietà, ha mandato il proprio figlio nel mondo “a illuminare coloro che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte, per guidare i nostri passi sulla via della pace” (Luca 1,79). Il verbo compare ancora nell’episodio del figlio morto della vedova di Naim, riferito a Gesù, e nella parabola del figliuol prodigo, riferito al padre che lo vede tornare. Nello scritto apocrifo del tardo giudaismo “I testamenti dei dodici patriarchi” splanchna viene ad acquisire dal significato originario più crudo un significato teologico: si riferisce a Dio nel suo agire escatologico. Egli radunerà il suo popolo in fedeltà “mediante la sua misericordia” (Testamento di Abramo 7, 7) e quando verrà, “guarigione e misericordia saranno sotto le sue ali”. Questo uso negli scritti giudaici più recenti è senza dubbio la premessa diretta dell’uso linguistico neotestamentario. In Marco Gesù “prova pietà” quando vede la folla che lo segue e compie il miracolo dei pani e dei pesci; in Matteo Gesù “vedendo la folla ne ebbe compassione, perché erano come pecore senza pastore”.

Anche dove il verbo è usato per un uomo come il padre del figliuol prodigo, il suo comportamento è una metafora del comportamento divino. Il padre che fa festa per il ritorno del figlio rappresenta il gioire del Signore per gli impuri e i peccatori che si convertono. E se nel samaritano troviamo questo verbo può voler dire che la compassione è un moto divino del quale le creature possono partecipare. La manifestazione della messianicità di Gesù potrebbe proprio essere in questa divina virtualità che l’uomo liberato dal sacro ritroverebbe in se stesso. E la compassione che ci ferma nella nostra corsa potrebbe essere un indizio del divino, un modo di risalire dalle creature al creatore.

Tutta la storia del riscatto del popolo d’Israele comincia con un momento di divina commozione: “Gli israeliti soffrivano per la loro schiavitù e alzavano forti lamenti. Dal profondo della loro sofferenza il loro grido salì fino a Dio. Dio ascoltò il loro lamento e volle mostrarsi fedele alla promessa fatta ad Abramo, Isacco e Giacobbe”.

Ma da quale religiosità fu determinato l’atto misericordioso del samaritano? Luca non dice nulla e questo silenzio è prezioso. Il samaritano non è motivato religiosamente. Non è proselitistico. Non chiama in causa nessuna sua radice, tradizione, benemerenze passate o propositi futuri;  non diventerà ministro di una qualche chiesa o benefattore  a tempo pieno (magari fondatore di una “Pia opera  per il soccorso ai rapinati di Gerico”). E neppure vuole affrontare da solo tutto il dolore e l’ingiustizia. Ha fatto quello che doveva fare e prosegue la sua strada.

La commozione, infatti, anche se esaminata alla luce della riflessione teologica, resta sostanzialmente un atto umano e quindi un atto areligioso anche se raccontato con linguaggio religioso. Può essere un atto supremo d’amore a Dio anche se non è stato compiuto per amore di Dio.   È strano che normalmente non si citino molti esempi di laicità della compassione, come se i laici si vergognassero della commozione e si rifugiassero sempre dietro la ragione. Eppure nessuna religione può appropriarsi della compassione ritenendosene arbitra e dispensatrice. Essa è un evento salvifico che getta le sue radici nell’umanità quando esce dalla corazza difensiva e si riconosce nel prossimo. Mons. Oscar Romero diceva: “io sono un vescovo convertito dal popolo sofferente”. Don Helder Camara proclamava:  “O Signore ti ringrazio perché mi hai insegnato la grande differenza che c’è tra lavorare per i poveri e camminare coi poveri”.

Fermarsi per creare un’obiettiva prossimità fondata sul rapporto diretto io-tu comporta una dedizione personale e un impegno del proprio tempo e delle proprie energie che si oppone a una gestione razionale ed economica di questi. È un’opposizione tra la solidarietà che assorbe e talvolta divora la nostra vita, presentandosi almeno apparentemente come spreco, e invece una economia del tempo che indirizza l’attenzione su programmi razionali e delega altri a operare direttamente nel campo della solidarietà. Il dare e la misura del dare divengono un problema di quotidiano equilibrio. Chi guarda negli occhi il povero non diventerà mai un grande benefattore, al massimo sarà uno che condivide pezzi di vita con i compagni di strada, partendo forse col dare o forse col ricevere e instaurando un rapporto che è più di solidarietà che non di beneficenza. In ogni caso è un incontro che, prima di essere casuale è irreversibile, non capiterà più e, quindi, merita la definizione di escatologico.

Nella parabola del samaritano non si parla di gratitudine: nessuno, dal bene operare, può costruirsi un piedistallo di potere. Non s’instaura un amore corrisposto; di per sé nemmeno una conoscenza. Non vi è alcuna indicazione sui doveri del salvato. L’amore è un atto generativo che non controlla le risposte. Solo così raggiunge in profondità la ferita inferta alla vita dai violentatori.

La creazione stessa è stata un atto d’amore e la prova dell’albero del giardino dell’eden una tentazione positiva alla ricerca della creatura come partner d’amore. Non mangiate i frutti di quell’albero perché è bello ma velenoso. Era un avvertimento inteso a rendere l’uomo responsabile: se ne mangerete precipiterete nella mortalità umana e cioè nella consapevolezza del fatto che si deve morire. Questa è la differenza tra l’uomo e l’animale. La conoscenza “del bene e del male” è, secondo Martin Buber la “coscienza adeguata dell’antiteticità nella creazione”. Se Eva ed Adamo hanno voluto conoscere il bene e il male, la vita e la morte, è perché portano l’immagine di Dio e come lui esercitano drammaticamente la loro libertà. Non c’è rispetto al genitore, quando non c’è la possibilità di disobbedirgli. Questo è il prezzo della crescita, questa è la condizione fondamentale perché il rapporto sia d’amore.

Ammettere il rapporto di filiazione tra Creatore e creatura come appare dalla Bibbia significa ammettere il dolore di Dio. Se alla donna è stata data la pena di partorire nel dolore, potrà Dio sottrarsi alla commozione e al dolore di fronte alla tragedia dei figli? Forse questo è antropomorfismo ma noi non possiamo parlare di Dio che con parole umane.

La commozione del samaritano è dunque metafora della commozione di Dio e la parabola ci conduce a una rappresentazione del divino e a una nuova comprensione della teologia dell’incarnazione della croce. Il Dio della commozione non è il Dio demiurgo del cosmo e signore della storia, ma il Dio che si pone davanti a un figlio per misurarsi con lui, come il misterioso angelo con cui Giacobbe lottò fino allo spuntare dell’alba al guado dello Iabbok.

La generazione dei figli non è una discesa in basso per deprivazione ma un deporre la divinità come potenza infinita perché il figlio cresca misurandosi con una forza sopportabile. La discesa del divino in Gesù, non è una discesa spirituale ma l’assunzione di un corpo col quale solidarizzare con i fratelli.

Questa fisicità dell’incontro tra Dio e l’umanità, nella rappresentazione cristiana, è rimasto inesausto motivo di riflessione. Riflessione che talvolta diviene tormentosa e contraddittoria, perché si usano categorie umane, il binomio padre/figlio anche recentemente madre/figlio, che suppone come in un parto una dolorosa generazione, mentre  si vuole mantenere la rappresentazione dell’impassibilità di Dio che rimane fuori dalla vicenda umana come garante e questore di un ordine violato e da ristabilire.

Nella tradizione cristiana chiamiamo “svuotamento”, kenosis questa discesa di Dio e riteniamo che l’estrema manifestazione di questo sia l’incarnazione. Dice Paolo ai Filippesi: “Comportatevi come Gesù Cristo: egli era come Dio ma non pensò di dover conservare gelosamente il fatto di essere uguale a Dio. Rinunziò a tutto; scelse di essere come servo e diventò uomo fra gli uomini”.

L’evento salvifico, operato nella compassione, che la parabola di Luca pone al centro del comportamento umano descrivendolo nella sua laicità, nel suo anonimato, resta solitario davanti all’Eterno o si colloca in un percorso storico, in una rete, in una costruzione del futuro mondo migliore, come un mattoncino del complesso edificio che siamo usi chiamare “storia della salvezza”? il buon senso e una sana speranza che nulla di positivo e di costruttivo vada perduto, ci invita a pensare che un’invisibile ma saldissima rete connetta fra loro gli eventi positivi e che essi, per una spinta endogena o addirittura per una volontà divina, sapiente e provvidente, si ordinino in una profonda armonia che, in un futuro intensamente sperato porterà alla realizzazione della pace e della giustizia sulla terra.

 

Salvatore Ciccarello

 

PS - Il testo è una breve sintesi tratta dal libro “La solitudine del samaritano ovvero l’elogio della compassione” di Giovanni Franzoni - Collana Strumenti di Pace -  2002- pag. 128 - Ed.Icone - Cipax Strumenti di pace