Commento alle letture

Eucaristia del 4 Dicembre 2005

 

Riprendiamo il cammino della nostra comunità più poveri per l’assenza di Vittorio, più ricchi per i doni che lui ha fatto a ciascuno di noi e che ieri abbiamo ricordato fra lacrime e sorrisi.

Una breve introduzione per spiegare la scelta delle diverse letture in questa seconda domenica di avvento.

 

Amos è un profeta che vive nell’VIII secolo; questo è un periodo in cui il regno di Israele vive un tempo di relativa tranquillità politica ed economica; questa situazione favorisce il diffondersi di un clima di sicurezza che si riflette nello splendore delle manifestazioni di culto…. Ma la realtà è ben diversa: l’agiatezza è di poche persone perciò la solidarietà viene meno e regna lo sfruttamento dei deboli da parte dei più forti. La corruzione non risparmia neppure l’amministrazione della giustizia….

 

Matteo è il più ebreo degli evangelisti, è quello che presenta Gesù come colui che porta a compimento la storia e le speranze di Israele; la citazione del regno di Dio non allude ad un futuro dominio di Dio sulla storia degli uomini quanto alla sua presenza che, secondo il costume ebraico, non chiama in causa direttamente il nome di Dio.

 

Il Levitico è il libro che riguarda l’attività dei sacerdoti; è certamente un’opera collettiva di riflessione in cui forte si avverte il segno dell’esperienza dello stesso Mosé ed è significativo che proprio in questo libro, compaia per la prima volta,e in un contesto che richiama l’esilio dell’Egitto, il comandamento che sarà fatto proprio da Gesù: amare l’altro, lo straniero, come noi stessi.

 

La lettera di Giacomo (di autore ignoto, forse ellenistico) è significativa perché indizio di una polemica all’interno delle prime comunità cristiane: molti esegeti vi vedono infatti un vigoroso richiamo a quei gruppi di cristiani caratterizzati da una certa rilassatezza morale e da un calo di impegno giustificati con un’interpretazione troppo unilaterale della predicazione di Paolo: grande importanza alla fede trascurando l’etica quotidiana.

 

Luca ha la consapevolezza che la generazione di quelli che hanno conosciuto e ascoltato direttamente Gesù è ormai scomparsa; per questo ritiene giusto dare alle prime comunità solidi argomenti sul senso della fede; così il racconto delle parabole è intrecciato immediatamente con l’insegnamento, con la pratica di vita in cui i notabili, i ricchi hanno un futuro di perdenti. Questo è per lui il senso della speranza, l’annuncio di salvezza ai poveri, in una parola, l’Evangelo.

 

 

 

 

Perché queste letture per parlare delle nostre difficoltà, o meglio della nostra incapacità a entrare in rapporto con l’altro? Proveremo a dare qualche provvisoria risposta: tutti siamo chiamati ad approfondire e arricchire la riflessione.

 

E’ solo una questione psicologica, culturale? Nella discussione che abbiamo fatto in preparazione a questa eucaristia nel nostro gruppo abbiamo risposto di no.

 

L’altro inquieta non perché veste, parla, mangia, prega in maniera diversa da noi, ma perché costituisce oggettivamente una minaccia per i nostri precari equilibri fondati da secoli sulla sopraffazione del mercato, sulle dinamiche della crescita obbligata, sul consumo “opulento” del cibo, delle medicine, dei beni primari.

Una società malata che distrugge le “eccedenze” alimentari mentre la TV rimbalza le immagini di continenti in preda alla fame e alle malattie ormai debellate in questo mondo bianco in cui la malattia sociale in crescita si chiama obesità e in cui i bisogni di socializzazione, di cura e di relazione si volgono verso gli animali (domestici o esotici secondo i gusti).

L’altro inquieta perché la sua diversità minaccia la nostra stessa vita.

Come dice Giacomo, l’altro che accettiamo è solo quello che vediamo allo specchio.

Ma le attese dell’altro concreto si scontrano con la violenza dei governi, col rifiuto razzista da parte di popoli eletti, con l’emarginazione da parte delle cittadelle del potere civile e religioso.

Eppure, mentre i governi condonano frammenti di debito che sono il risultato storico del dominio e del potere economico di molti secoli, noi sappiamo oggi che l’altro è un soggetto portatore di un titolo di credito, individuale e collettivo.

La giustizia non si costruisce con le parole, neppure con quelle delle preghiere e delle prediche, e non è, la giustizia, il rispetto della legalità in cui il tormento delle clandestinità non è contemplato, neppure come attenuante. La clandestinità  costituisce reato anche quando la fuga dalla miseria e dalla violenza obbliga le persone ad un’identità incerta e precaria, ad una vita disperata ai margini delle nostre città già illuminate dal prossimo Natale.

Se la Bibbia è racconto delle vicende di un popolo, se i Vangeli sono la testimonianza dei gesti di un Dio che si è fatto uomo, la nostra storia non può esaurirsi nel dibattito fra le idee e le religioni, o nella critica delle encicliche, o nel ricordo nostalgico dei documenti conciliari o nel compiacimento di giaculatorie e di formule, ma deve diventare storia di uomini e donne che cercano il rischio del fare, si compromettono e si indignano: una storia nuova che dà e riceve speranza.