L’Economia del dare

Giovanni Franzoni[1]

Teologo

Sintesi

Da ogni angolo della terra si leva il grido dei poveri, degli umiliati, degli oppressi e degli espropriati che chiede di vivere pacificamente, liberamente e dignitosamente. Se le donne e gli uomini in questo particolare momento della storia, segnato così marcatamente dalla speranza e da attese di cambiamento, si assumono la responsabilità di scrivere e di proporre, non è per arroganza o presunzione, ma per spirito di servizio.

Chiediamo alle Organizzazioni, coinvolte, nella teoria o nella pratica, con il problema della distribuzione iniqua della ricchezza di porre la massima attenzione alle risorse dell’umanità che costituiscono il bene comune (per diritto divino o per diritto naturale) affinché la loro destinazione non sia deviata in favore di pochi potenti ma sia indirizzata alla perequazione del debito, allo sviluppo dei popoli e alla salvaguardia dell’ambiente e della vita.

L’accesso a queste risorse, al momento non sottoposte ad alcuna proprietà o sovranità, se sfruttate da organizzazioni dotate di capitali e tecnologie adeguate, dovrebbe essere soggetto al pagamento di un canone di concessione, che dovrebbero confluire in un Fondo per la Perequazione del Debito e per lo Sviluppo (FPDS).

Inoltre, è assolutamente necessario che l’accesso allo spazio, alle orbite satellitari, ai fondi oceanici e alla piattaforma continentale, e ad ogni altro bene comune, sia regolato da convenzioni che ne prevengano l’uso militare e qualunque uso che provochi un aumento dell’inquinamento e dei danni ambientali.

L’urgenza del nostro appello è legata anzitutto al fatto che la sofferenza che grava sulle popolazioni dei paesi poveri è tragicamente attuale, in secondo luogo alle attese che hanno creato i linguaggi e le iniziative promosse in occasione della fine millennio, e le speranze di salvezza promesse con la celebrazione del giubileo cattolico. È perciò necessario che ciò che deve essere fatto, sia fatto subito:

Subito l’Associazione Internazionale di Filosofia Giuridica e Sociale deve esprimersi sulla comune destinazione dei beni e sulla concerta e universale decadenza del principio ‘nullius est primi occupantis’, o di altri principi come ‘first come - first served’, ispirati allo stesso cinico pragmatismo.

Subito il Consiglio ecumenico delle Chiese deve mettere all’ordine del giorno il problema teologico della espropriazione radicale dei beni di vita consumata a danni delle popolazioni povere ed impoverite.

Subito il Comitato centrale del giubileo deve mettere nell’agenda del giubileo, il problema della lotta alla povertà come problema “interno” e “costitutivo” dell’evento giubilare e non come opera supererogatoria nell’ambito dell’esercizio della carità cristiana.

Subito l’Organizzazione delle Nazioni Unite deve porsi il problema dell’estensione del diritto ai servizi primari indirizzati alle fasce deboli della popolazione mondiale (infanzia, gestione, scolarizzazione, malattia, calamità, vecchiaia, esposizione a eventi bellici) così come avviene nei paesi industrializzati dove il minimo vitale è assicurato all’intera popolazione.


Se l’umanità ha i titoli per usufruire, liberamente e concretamente, delle risorse del nostro sistema planetario, potrebbe verificarsi una condizione umana di alto valore etico. Si potrebbe costruire un sistema liberato dal peso del dislivello strutturale permanente fra i popoli “benefattori” e i popoli costretti alla dipendenza dell’aiuto internazionale. Mentre oggi la partecipazione ai beni di vita è inegualmente distribuita ed è pressoché impossibile ottenere la progressiva riduzione della distanza tra i primi ed i secondi (anzi è in corso un ampliamento a forbice di questa distanza), tutti potrebbero essere in grado di amministrare il loro minimo vitale e di consentirsi al generosità nel dare e nel condividere.

Nel dare infatti, sia i singoli che le collettività realizzano le proprie virtualità e si adoperano per incentivare e non per depauperare la porzione di bene comune loro affidata. Nella tradizione ebraica si narra di un grazioso episodio: un rabbi, passando per una contrada, nota un contadino che sta raccogliendo le pietre del suo terreno e, poi, le getta sulla strada. “Tu agisci stoltamente, osservò il rabbi, perché pulisci un terreno che è solo temporaneamente tuo, mentre danneggi una strada che sarà sempre tua”.

Se l’ammonimento del saggio rabbino indirizza l’attenzione verso la salvaguardia del bene comune, una esperienza che ormai dovrebbe, a sua volta, essere nella consapevolezza generale (equindi, di nuovo, bene comune incentivato) ci dice che proprio nel dare si opera l’ottimizzazione delle proprie capacità e si sollecita la creatività. È proprio all’interno dell’anello del dare che l’essere vivente spezza l’anello della fame come esclusiva forma di locomozione della vita.

Se il dare è la vera realizzazione dell’essere, il consentire di dare o il dare di dare, come diceva il filosofo francese Lavelle, sarebbe una radicale e diffusa forma di liberazione.

L’accumulazione è l’arresto della circolazione dei beni, con conseguente arricchimento di pochi e impoverimento di molti. È un processo che, se si protrae a lungo o se dà luogo ad un ciclo che si ripete con crescente velocità, tende via via a sovvertire tutti gli equilibri e a generare fenomeni di crescente tensione.

Già negli anni scorsi Tonino Perna (docente di Teoria dello sviluppo all’Università di Messina) sulla Rivista Terra Nuova – Forum (n. 26 del 1991) aveva previsto che il mercato mondiale potesse avere “effetti devastanti in alcune aree del pianeta che rischiano di compromettere per sempre il ‘capitale umano’ fondamentale per qualsiasi ipotesi di sviluppo. Spesso queste popolazioni operano (o possono operare) anche come custodi del nostro patrimonio ambientale, se messe in condizioni di farlo, fuori dalla disperazione e dalla miseria”. Altrimenti si spingono al Nord e ricorrono all’emigrazione più o meno legale e comunque governata dall’anello della fame.

Lo spreco di ‘capitale umano’ non è soltanto un insulto alla vita ed una cinica esposizione di popolazioni intere alla sofferenza di massa, è anche un grave, e forse irreparabile, errore dal punto di vista della ottimizzazione delle risorse.

Per questo si cercano correttivi e, sempre per questo, è stata proclamata la lotta alla povertà. Ma se non si riconosce che la causa prima del malessere del mondo risiede nell’accumulazione ottenuta dall’uso del bene comune senza che ci sia alcuna ricaduta a favore di chi è sfavorito nell’accesso ad esso (cioè senza un ritorno economico ai Paesi in via di sviluppo), non si dispone della chiave per giungere a vincere la povertà.

Da queste considerazioni appare chiara la necessità di adottare uno strumento che consenta di mettere sul giusto binario la lotta alla povertà. Lo strumento che qui si propone è un Fondo per la perequazione del debito e lo sviluppo. Perequazione fra paesi ricchi e paesi poveri nell’accesso al bene comune (o meglio, nella fruizione dei ritorni dall’uso del bene comune); sviluppo dei paesi svantaggiati conseguente all’adozione di questo strumento.

Abbiamo visto che il bene comune è tutto ciò che costituisce la common heritage dell’umanità, che non può essere fatto proprio da nessun soggetto – persona, impresa, Stato – ma viene utilizzato, può esserlo, da chi ha l’organizzazione e la forza economica per utilizzarlo.

Lo spazio extraterrestre, i fondi degli oceani, l’ossigeno che rinnova l’atmosfera, la fascia dell’ozono, le orbite satellitari: sono alcuni esempi di un bene comune che viene usato e commercializzato, oppure messo a rischio e parzialmente sottratto al patrimonio complessivo, oppure ancora fruito in esclusiva dai pochi che possono farlo.

Ma i beni così utilizzati non sono gratuiti, tanto che lo stesso governo degli Stati Uniti che pure è assertore  della massima libertà di accesso ai beni e alle possibilità offerte dall’uomo, ha proposto che l’immissione di gas nocivi nell’atmosfera dia luogo al pagamento di denaro da parte di chi produce e immette tali gas.

La proposta è stata fatta per consentire alle imprese industriali di poter rinviare nel tempo l’adeguamento dei loro impianti agli standard di emissione più riduttivi, richiesti dalle conferenze mondiali sulla tutela dell’ambiente (sotto questo profilo bisogna dire che la proposta Usa  è inaccettabile; però vi si può ravvisare una non voluta ammissione: l’atmosfera è di tutti e colui che utilizza deve pagare qualche cosa. E a chi se non all’umanità?

D’altronde quando il segretario di Stato americano, signora Madelieine Albright, ha dovuto far inghiottire agli elettori americani un favoloso stanziamento per la messa in orbita di un segmento della stazione spaziale su cui gli Stati Uniti lavorano da anni insieme ad altre potenze, ha assicurato che l’operazione era “un buon investimento”. Dunque negli obiettivi non c’era solo la ricerca scientifica ma anche la possibilità di ampie remunerazione derivanti dall’investimento.

Qui si individua la base logica da cui sorge l’idea di un Fondo mondiale per la gestione delle risorse economiche derivanti dal controvalore dell’uso di parti del bene comune, a favore dell’umanità, secondo una gerarchia di necessità.

A questa proposta si associa anche l’osservazione che i paesi in via di sviluppo che si sono venuti sempre più indebitando per assumere prestiti ordinati ad investimento per lo sviluppo, sono titolari di quote parti del bene comune e hanno diritto a ricevere ciò che dovrebbe pagato per l’uso commerciale del bene comune.

Se il titolo per dare vita al Fondo per la Perequazione del Debito e per lo Sviluppo (FPDS), è indicato nel diritto radicale a usufruire della risorsa “spazio esterno”, occorre trovare lo strumento per alimentarlo economicamente. Noi riteniamo che lo strumento sia un sistema di tassazione internazionale.

Emerge la consapevolezza che il problema consiste nel definire le caratteristiche del Fondo e della sua e della sua organizzazione operativa (o meglio del suo statuto, dato che il FPDS potrebbe nascere in modo analogo al Fondo Monetario Internazionale sorto negli anni ‘40) e nel realizzare il supporto finanziario permanete per la raccolta della tassazione internazionale che non potrebbe prescindere da una stretta collaborazione degli stati partecipanti al Fondo.

 

È evidente che i paesi esattori devono avere un interesse o una motivazione per adoperarsi attivamente. Questo interesse si potrebbe individuare in:

1.      la presenza attiva del Fondo sarebbe una risposta di grande rilievo alla stessa necessità, avvertita da tutti i paesi del Nord, di destinare una quota del PIL alla cooperazione per lo sviluppo;

2.      la gestazione di un flusso costante di fondi proveniente dalla tassazione internazionale, affidata ad un ente con caratteristiche internazionali, renderebbe possibile una forma aggiuntiva di cooperazione allo sviluppo meno legata agli interessi nazionali dei singoli paesi che già oggi partecipano alla cooperazione;

3.      la formula della tassazione internazionale consentirebbe di disporre di fondi che non graverebbero su nessun bilancio nazionale, svincolati quindi da politiche economiche particolari;

4.      una tale formula non avrebbe incidenza sui flussi di aiuti che i paesi ricchi potrebbero continuare a destinare ai Paesi in via di sviluppo con i quali hanno particolari interessi. Il ricorso al Fondo libererebbe quindi i Paesi in via di sviluppo da orientamenti particolari di politica internazionale.

 

Si auspica quindi un’autonomia della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, senza con ciò creare antagonismi. Si chiede inoltre: indipendenza dalle politiche dei paesi dominanti e dalle alleanze regionali; autorità impositiva riconosciuta in modo formale e permanente, diritto di avvalersi delle strutture degli stati sovrani per operare territorialmente e raccogliere il gettito delle imposte applicate ed infine autonomo potere, senza vincoli né giuridici né economici, di negoziare con qualsiasi Stato sovrano o con istituzioni internazionali riconosciute.

 

Il FPDS dovrebbe dunque essere alimentato:

a)      dalle contribuzioni dei paesi e/o delle imprese transnazionali che impiegano o utilizzano commercialmente quote di ciò che abbiamo definito bene comune per cui sono tenute a riconoscere una contropartita finanziaria (tassa o canone);

b)      dal gettito di imposta sui movimenti di denaro da un paese all’altro, nota come “Tobin Tax” proposta dal prof. J. Tobin, premio nobel per l’economia, già da molti anni, anche se in tutt’altro contesto;

c)      dalle contribuzioni dei Paesi in via di sviluppo costituite dal versamento di somme equivalenti ad una frazione del debito ammesso a perequazione;

d)      con finanziamenti ottenuti ricorrendo al mercato internazionale, attraverso l’emissione di titoli e obbligazioni.

 

Il FPDF sarebbe chiamato ad operare lungo due direttrici:

1)      effettuando conferimenti di perequazione a fondo perduto, utilizzando risorse tratte dal proprio bilancio;

2)      concedendo finanziamenti a tassi ridotti senza invadere il campo della banca Mondiale.

 

Al FPDS si richiederebbe una grande capacità di riconoscere le realtà locali e di saper promuovere forme di sviluppo autoctono in coerenza con le culture ed i saperi diffusi sul territorio, rispettando il quadro di divisione dei compiti con le altre istituzioni della Nazioni Unite operanti.

Nella filosofia del FPDS deve considerarsi essenziale trovare la consonanza con le popolazioni dei paesi in cui si opera rispettando il principio di autogoverno e di riconoscimento delle rappresentanze democratiche costituite.

Ci siamo limitati a questi pochi cenni soltanto per far comprendere l’idea generale che intendiamo proporre. Non riteniamo, per questo, concretamente possibile dare suggerimenti sulla organizzazione e sul funzionamento di uno strumento da costituire all’interno e/o in coerenza col sistema delle Nazioni Unite.

Però in una cosa ci sentiamo competenti, perché il più umile degli abitanti della terra sarebbe competente a dirlo: ciò che va fatto, va fatto subito.

Subito l’Associazione Internazionale di Filosofia Giuridica e Sociale deve esprimersi sulla comune destinazione dei beni e sulla concerta e universale decadenza del principio nullius est primi occupantis, o di altri principi come first come-first served, ispirati allo stesso cinico pragmatismo.

Subito il Consiglio ecumenico delle Chiese deve mettere all’ordine del giorno il problema teologico della espropriazione radicale dei beni di vita consumata a danni delle popolazioni povere ed impoverite.

Subito il Comitato centrale del giubileo deve mettere nell’agenda del giubileo, il problema della lotta alla povertà come problema “interno” e “costitutivo” dell’evento giubilare e non come opera supererogatoria nell’ambito dell’esercizio della carità cristiana.

Subito l’Organizzazione delle Nazioni Unite deve porsi il problema dell’estensione del diritto ai servizi primari indirizzati alle fasce deboli della popolazione mondiale (infanzia, gestione, scolarizzazione, malattia, calamità, vecchiaia, esposizione a eventi bellici) così come avviene nei paesi industrializzati dove il minimo vitale è assicurato all’intera popolazione.

L’urgenza del nostro appello è legata anzitutto al fatto che la sofferenza che grava sulle popolazioni dei paesi poveri è tragicamente attuale ed in secondo luogo alle attese che hanno creato i linguaggi e le iniziative promosse in occasione della fine millennio, e le speranze di salvezza promesse con la celebrazione del giubileo cattolico.

Se i diritti della donna, dell’uomo, dell’infanzia e dei popoli sono chiaramente enunciati nei più solenni documenti delle Nazioni Unite diviene urgente definire le forme di attuazione di questi diritti ed il titolo di partecipazione concerta al bene comune costituito dalle risorse del sistema planetario.

Da ogni angolo della terra si leva il grido dei poveri, degli umiliati, degli oppressi e degli espropriati che chiede, a chi può, di vivere pacificamente, liberamente e dignitosamente. Se le donne e gli uomini in questo momento particolare della storia, segnato così marcatamente dalla speranza, si assumono la responsabilità di scrivere e di proporre, entro i tempi segnati dalla cultura di “fine millennio” o del “giubileo”, la massima attenzione alle risorse dell’umanità che costituiscono il bene comune (per diritto divino o per diritto naturale) affinché la loro destinazione non sia deviata in favore di pochi potenti ma sia indirizzata alla perequazione del debito, allo sviluppo dei popoli e alla salvaguardia dell’ambiente e della vita.



[1] Questo articolo è gia stato pubblicato sulla rivista di Aspen Institute Italia, "ASPENIA", ANNO 7 N. 13, Novembre 2000 – Marzo 2001.

 

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