Diritti
fondamentali della popolazione mondiale. Dalla
denuncia delle situazioni di non diritto alla affermazione dei diritti Salvatore
Senese
Magistrato, Presidente di
Sezione della Corte di Cassazione Sintesi La “biopolitica” tende ad
affidare la propria realizzazione al consumo di massa, spinto fino al
punto da sostituire alla soddisfazione del bisogn la soddisfazione del
desiderio. Lo sforzo per la costruzione di un nuovo ordine economico
internazionale (NOEI), dopo aver toccato l’apice nel 1974 con la Carta
dei diritti e doveri degli stati, priva di valore cogente e fortemente
avversata dai paesi più avanzati, si è arenato o, peggio, ha ceduto il
passo ad una liberalizzazione selvaggia condotta all’insegna della
globalizzazione. Le politiche finanziarie e monetarie delle istituzioni
di Bretton Woods (FMI e BM) hanno preso il sopravvento sui tentativi di
costruzione di un NOEI, allontanandosi progressivamente dagli enunciati
basilari della Carta delle Nazioni Unite, con effetti rovinosi per
quella parte della popolazione mondiale i cui diritti fondamentali
venivano maggiormente minacciati. In caso di violazioni gravi,
massicce, sistematiche, dei diritti umani, il Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite può ritenere che sussista una minaccia alla pace o
alla sicurezza internazionale e quindi decidere di adottare le misure
del capo VII della Carta, misure che possono andare fino all'uso della
forza. La formula ovunque ripetuta di “violazioni gravi, massicce,
reiterate, sistematiche” viene comunemente intesa, come se recitasse
“violazioni gravi, massicce, eccetera, dovute ad un comportamento
intenzionale”. Eppure, una tale violazione dei diritti umani si
verifica indubbiamente anche nel caso in cui un'intera popolazione venga
lasciata in balia di un'epidemia che la distrugga, quando l’epidemia
potrebbe esse facilmente debellata attraverso un farmaco esistente sul
mercato che magari non può essere riprodotto perché protetto da un
brevetto. Come è il caso che si è verificato in Sud Africa. Pensiamo ancora che ci sia, nei
casi a cui la formula viene generalmente riferita, un che di odiosità
in più; c'è il dolo che in diritto penale è certamente rilevante, il
dolo diretto: un conto è sterminare una popolazione con l'intento di
raggiungere questo sciagurato risultato - è il caso del genocidio - e
un conto è sterminare una popolazione per raggiungere un altro diverso
risultato ma con la consapevolezza che il perseguimento di tale
obiettivo comporta questo doloroso prezzo: agire, cioè, a costo di
sterminarla, accettare lo sterminio come una sorta di effetto secondario
che non è possibile evitare. Il diritto internazionale non si occupa
del secondo caso di violazioni, che viene affidato, come dire,
all'assistenza internazionale, alla generosità degli Stati, ai
versamenti che ciascuno fa all'UNICEF, piuttosto che ad altre benemerite
organizzazioni. Avviene così che la dignità
umana venga in qualche modo scissa. Contrastare questa scissione ed
elaborare le risposte più appropriate alle situazioni di violazioni
gravi, sistematiche e reiterate, ma non direttamente intenzionali, dei
diritti fondamentali, è compito anche del giurista. Il titolo che gli organizzatori del Convegno hanno ritenuto di dare a
questo mio breve intervento contiene una parola di uso abbastanza comune
che tuttavia rimanda, secondo alcuni studiosi, ad un particolare modo di
atteggiarsi del potere - e quindi della politica - nei confronti della
vita degli esseri umani. Un modo di atteggiarsi che è stato definito
“ biopolitica”. Questa parola è “popolazione”. In particolare, secondo Michel
Foucault, che al tema ha dedicato alcuni dei corsi da lui tenuti al
Collège de France nella seconda metà degli anni settanta, la
sovranità - che per secoli del potere politico è stata la forma, la
giustificazione e l’epitome - si presenta, nella teoria classica , con
un attributo fondamentale che è il potere di vita e di morte , “ ius
vitae ac necis”: Diritto di vita e di morte. Strano diritto, giacché
cosa significa propriamente aver diritto di vita e di morte? In un certo
senso, potremmo dire, che il sovrano può fare morire o lasciar vivere e
che dunque vita e morte non sono questi fenomeni naturali, immediati,
originari, collocati fuori dal campo d’azione del potere politico: nei
confronti del potere, che si arroga questo diritto, il soggetto non è ,
in punto di diritto, né vivo né morto: è neutro. E’ la volontà del
sovrano che lo fa vivere o lo fa morire. Almeno a tutta prima, perché
in realtà il sovrano può dare la morte ma, evidentemente non può dare
la vita, anche se alcune liturgie del potere - si pensi ai re
taumaturghi - tendevano ad indurre questo sentimento e quindi a
dissimulare la sostanza di
questo potere squilibrato, sempre dalla parte della morte, perché il
potere sulla vita non si esercita che dal momento in cui il sovrano può
dare la morte. Il diritto di vita e di morte è essenzialmente il
diritto di passare a fil di spada. Ora, una delle più profonde trasformazioni del diritto politico nel
secolo XIX è stata quella d’intrecciare questo antico diritto di
sovranità, consistente nel fare morire o nel lasciar vivere, con un
nuovo diritto, che lo ha come attraversato e in parte trasformato, e che
si presenta in termini rovesciati: il diritto di fare vivere e di
lasciar morire. Questa trasformazione, ovviamente, non si è prodotta di
colpo ma è stata preparata, aiutata e nutrita dalla filosofia politica
sviluppatasi nei secoli precedenti ed in particolar modo dalla filosofia
politica contrattualistica. Nella metafora del contratto sociale, gli
individui si incontrano per costituire il sovrano, sia pure il sovrano
assoluto o il Leviatano, spinti dal bisogno e dalla paura e, dunque,
dalla necessità di proteggere la propria vita. È appunto per poter vivere che essi costituiscono il sovrano.
Il rapporto del potere con la vita ne risulta inevitabilmente
trasformato: come può la vita entrare tra i diritti del sovrano se
questi nascono appunto dalla necessità di proteggerla? L’immagine e
le prerogative del sovrano ne escono trasformati: nascono, sul piano
della teoria giuridica del potere, i diritti fondamentali. Ma mutano
anche le tecniche, i meccanismi di esercizio del potere: vengono
istituiti strumenti di controllo, sorveglianza, ispezioni,
rapporti ecc., cioè l’nsieme degli strumenti che Foucault designa
come disciplinari, accanto ai quali però, soprattutto dalla fine del
XVIII secolo, emergono e si fanno strada tecniche di organizzazione
della vita degli esseri umani che si rivolgono alla molteplicità e
prendono in carica bisogni di vita, quali: la produzione, l’igiene, le
malattie, l’alimentazione, il tasso di natalità e di morte. E’ qui
che prende corpo la “biopolitica”, che si sviluppa rapidamente nel
XIX secolo e investe le condizioni di vita nelle città, si fa carico di
eventi quali la vecchiaia e la malattia e di problemi quali le
condizioni ambientali, il risanamento delle paludi e degli acquitrini,
etc. Questi eventi diventano altrettanti terreni d’impegno per il
potere politico che, rispetto a questi temi, non è interpellato tanto
dai singoli individui, dagli stipulanti del contratto sociale, ma da
un’entità che non è esattamente assimilabile alla società, al corpo
sociale, ma che si presenta come un corpo a molte teste, in parte
indefinito: è la “ popolazione” appunto. La biopolitica è la
politica che si fa carico della popolazione come problema biologico e
problema politico. Il potere non è il potere di far morire ma piuttosto
il potere di far vivere la popolazione. La morte, immagine tragica e
immanente del potere, è sostituita dalla mortalità che il potere
s’ingegna di contrastare, mentre la morte rientra nell’ordine del
privato e dell’individuale. S’istituisce un nesso tra povertà e
vita biologica, tra povertà e morbilità. Lo Stato, nel quale ormai si
esprime il potere politico, assume questo ordine di problemi nel proprio
orizzonte. In questo processo, giocano certo un ruolo importante
l’industrializzazione, i movimenti socialisti, il positivismo e lo
scientismo. Ma gli istituti, le tecnologie politiche, gli interventi via
via praticati - in molti dei quali si suole scorgere le prime
costruzioni di stato sociale - finiscono con il trascendere questo
orizzonte e lo stesso orizzonte di graduale edificazione della
democrazia, nel quale talora si ha tendenza ad inquadrarli, e trovano il
proprio comune denominatore nel progressivo consolidamento di un tipo di
Stato che Leonardi Paggi ha definito lo “ stato di popolazione”. Ed
in effetti, questa presa in carico della vita della popolazione è
comune, a partire dal XIX secolo, agli Stati liberali e a quelli
autoritari e non si presenta affatto come un arricchimento e
completamento dei diritti civili e politici. Anzi, la stessa
divisione/separazione tra diritti civili e politici e diritti sociali,
che oggi si riaffaccia prepotentemente, trova origine proprio in ciò
che gli istituti dai quali poi sono
nati i diritti sociali furono all’origine concepiti in tutt’altra
logica che i diritti di libertà. Questo tipo di Stato, che è lo Stato
di popolazione, è la fisionomia che va assumendo, a partire dalla fine
del XVIII secolo, lo Stato-nazione. In questa forma politica, la
popolazione, a partire dalla Rivoluzione francese, è sempre più
coinvolta nelle imprese del sovrano, chiunque esso sia e quale che ne
sia il titolo di legittimazione: democratico, aristocratico, imperiale.
E questo coinvolgimento si accompagna e s’intreccia con un elemento di
separazione/esclusione della popolazione mondiale. Foucault
ritiene che la biopolitica fondi il razzismo di Stato, iscriva cioè il
razzismo negli ingranaggi profondi di Stato, facendone un meccanismo
fondamentale del potere. Egli si chiede: in fondo cos’è il razzismo?
E risponde: è innanzitutto, l’introduzione nell’universo della
vita, che ormai il potere ha preso in carico, di una linea di frattura
che separa chi deve vivere da chi deve morire, valorizzando nel continuum
biologico della specie umana, la distinzione delle razze, una loro
pretesa gerarchizzazione, stabilendo una cesura di tipo biologico
all’interno di un universo che si caratterizza. Non intendo qui
discutere questa posizione, alla quale non mi sfugge che potrebbe
muoversi qualche obiezione. In Foucault,
essa fa da premessa alla tesi che vede nello stato nazista il compimento
e l’assolutizzazione dello stato di popolazione e, al tempo stesso, la
resurrezione del sinistro diritto di vita e di morte del sovrano,
attraverso la fusione dell’uno con l’altro in una forma
straordinaria, tale da far coincidere il biopotere con il potere di vita
e di morte, non più soltanto verso gli altri ma verso se stesso, sì da
realizzare uno Stato assolutamente razzista, assolutamente omicida e
assolutamente suicida. Comunque si valuti questa corrusca rappresentazione, è tuttavia
innegabile che l’evoluzione dello stato-nazione ha introdotto
progressivamente un elemento di separazione/esclusione nella cultura
politica europea che, a partire dalla Rivoluzione francese, risuona nei
versi della marsigliese “… que sang impur abreuve nos sillons…”
e che si è paradossalmente accompagnato all’edificazione dello stato
di diritto. Il concetto stesso di frontiere si precisa e si definisce in
funzione di tale formazione politica: la frontiera è la linea che segna
il limite della competenza dello stato di diritto giacché la complessa
trama di diritti e doveri che lo sostanzia si arresta esattamente là
dove inizia la sfera di competenze di altro o di altri stati; essa
separa e protegge al tempo stesso, segna l’involucro spaziale della
cittadinanza, ne rafforza il sentimento, contribuisce alla coesione
politica e all’omogeneità
della comunità che vive entro quell’involucro, esalta l’unità
nazionale. Questo valore dell’omogeneità diviene, nella prima metà
del secolo scorso, così preminente e totalizzante che, quando, dopo la
grande guerra, la dissoluzione degli imperi multinazionali ottomano e austroungarico approda alla creazione di nuovi Stati
nazionali, i trattati di pace si preoccupano di organizzare una serie di
meccanismi dalle connotazioni specificamente razziali per depurare i
nuovi Stati da quanti appartenessero ad un gruppo etnico
diverso da quello della maggioranza della popolazione, con la dichiarata
finalità di ridurvi al massimo la presenza di allogeni. In alcuni casi
si giunse, sempre nell’intento di consolidare lo Stato, a soluzioni
estreme, negatrici dei diritti fondamentali. È il caso della
convenzione del 30 gennaio 1923 tra Grecia e Turchia che prevedeva la
deportazione in Grecia dei cittadini turchi di religione
greco-ortodossa, e viceversa. Il fatto è che la nozione di Stato,
prodotto privilegiato della storia europea, si connotava sempre più
come Volksstaat, sino a tradursi nella formula “un popolo, uno
Stato”. E poiché gli Stati sono tra loro in perpetua competizione e
questa si svolge nell’arena internazionale dove, in ultima analisi, la
guerra è la sanzione ultima della politica, i popoli sono tra loro
potenzialmente nemici. Lo “straniero”, l’altro, è allora,
suscettibile di divenire un nemico; in quanto tale, deve poter essere
“separato” o anche “concentrato” o “ segregato”. Non manca
chi scorge qui le radici della cultura del campo, sulla quale oggi
s’interrogano studiosi e ricercatori. Ciò fa sì che “nella storia
europea sino al 1945 l’interesse dello Stato per le caratteristiche
biologiche del popolo è parte integrante del suo sforzo bellico”
(Paggi); sforzo in atto o, ancor più, sforzo potenziale in vista delle
guerra. Ed infatti la preoccupazione, la cura per la quantità e la
qualità della popolazione cresce con il crescere della dimensione di
massa della guerra. E’ la guerra dei Boeri che fa scoprire il
“deterioramento fisico” della classe operaia inglese da cui proviene
la massa del reclutamento. E’ Sedan
che induce in Francia le spinte pronataliste nella convinzione
che solo una popolazione crescente può consentire il riequilibrio di
forze con la Germania. Più in generale, tutta la politica europea - a
prescindere dai regimi dei vari Stati - è segnata sino alla seconda
guerra mondiale, anche se assai spesso con fallimenti o insuccessi, da
politiche pronataliste. Nel 1936 la Russia di Stalin mette fuori legge
l’aborto. Così come sono illuminanti, al riguardo, le torsioni cui
viene sottoposta l’eugenetica. Gli Stati Uniti non sfuggono a tali
torsioni. Nella sola California, dal 1909 al 1920, sono emesse 2558
sentenze di sterilizzazione. Ed anche la socialdemocrazia tedesca, da
Kautsky a David, non va esente da tali torsioni. Su di un altro versante, lo Stato di popolazione si accompagna, a
partire dal XIX secolo, al dilagare del colonialismo, il cui fondamento
teorico e la cui legittimazione riposano esplicitamente su quella cesura
nel continuum biologico della vita, denunciata da Foucault. Illuminanti
al riguardo le pagine di un pensatore liberale e democratico, come
Tocqueville, a proposito della conquista dell’Algeria da parte della
Francia. Le imprese coloniali obbediscono a disegni geostrategici di
politica di potenza, ma trovano un consenso popolare per via dei
benefici, in termini di benessere e di biopolitica, che possono
derivarne alla popolazione della potenza coloniale. La retorica che
accompagna le imprese tardo-coloniali del fascismo italiano non fa che
riecheggiare temi e motivi che hanno accompagnato e corroborato la
formazione dei grandi imperi coloniali. Questo nesso tra biopolitica dello Stato di popolazione e logica di
cesura dello Stato-nazione resiste anche allo scuotimento di coscienze
che si produce a seguito della prima guerra mondiale, quando sembra per
un momento entrare in crisi la legittimità della guerra come strumento
di politica internazionale ed i governi s’ingegnano, con il trattato
di Versailles e la costituzione della Società delle Nazioni e persino
con l’inedita previsione di un processo al Kaiser, di fondare
relazioni internazionali nuove e diverse, idonee a scongiurare per il
futuro la guerra. Un tale sforzo non si accompagna, infatti, al
superamento delle ragioni profonde della cesura nel continuum biologico
della specie umana, e cioè all’accettazione del postulato della pari
dignità di ogni essere umano indipendentemente dalla sua appartenenza a
questa o quella formazione politica, a questo o quel contesto di
civiltà, di tradizioni, di etnie. Al riconoscimento, insomma, che la
popolazione della cui vita occorre farsi carico è l’intera
popolazione del pianeta e non il singolo segmento espresso da ciascun
governo nazionale. Il fallimento della Società delle Nazioni, illusorio
tentativo di creare un meccanismo che potesse evitare gli orrori del
primo conflitto mondiale, ha le proprie cause
profonde nel tarlo ideale che minava quella costruzione, e cioè
il rifiuto del principio di eguaglianza pur proclamato da quasi due
secoli in termini di universalità - su scala planetaria,
invano proposto (ed in una forma molto timida e del tutto
insufficiente) dal rappresentante del Giappone e sdegnosamente rifiutato
dalla superba Inghilterra.
Occorrerà attendere gli orrori che precedono e accompagnano il
secondo conflitto mondiale perché la politica si misuri con quel tarlo.
La Carta atlantica, firmata il 14 agosto 1941 da Roosvelt e Churchill,
avanza in almeno due degli otto punti nei quali è articolata posizioni
che prefigurano quel superamento enunciando il principio dell’eguale e
libero accesso di tutte le nazioni, grandi o piccole, al commercio e
alle materie prime mondiali, la piena cooperazione fra le nazioni nel
campo economico per assicurare a tutti migliori condizioni di vita e una
pace duratura per garantire ad ogni persona libertà dalla paura e dal
bisogno. Si tratta di principi ed impegni ancora vaghi dal punto di
vista giuridico, ma negatori della cesura che aveva sino ad allora
segnato le politiche nazionali. Altre dichiarazioni e conferenze, alle
quali parteciperà anche l’Unione sovietica, seguiranno questo primo
passo, precisando e ribadendo la rivoluzione di prospettiva aperta dalla
Carta atlantica, mentre quelle aperture vengono approfondite e
tematizzate, dai paesi più direttamente impegnati all’elaborazione
delle linee di un nuovo ordine politico a livello planetario. In
Inghilterra, preparata dal rapporto Beveridge - secondo cui la guerra ha
aperto una fase di rivoluzione nella storia del mondo che chiede
provvedimenti rivoluzionari e non rattoppi- si afferma una prospettiva
che sposta l’asse della biopolitica inequivocabilmente dalla morte
alla vita (Paggi). La libertà dal bisogno è posta come grande
obiettivo dello sforzo cui sono chiamati tutti coloro che combattono
contro il nazifascismo. Pochi mesi dopo, dal 18 maggio al 3 giugno 1943,
si tiene a Hot Springs, in Virginia, la Conferenza Internazionale
sull’Alimentazione e l’Agricoltura, su iniziativa di Eleanore
Roosvelt, destinata all’esame della possibilità di un’azione
internazionale per migliorare i regimi alimentari e pervenire ad una
più equa distribuzione dei prodotti alimentari tra gli uomini ed i
popoli. Il tema dell’alimentazione umana- che già a metà degli anni
trenta aveva costituito oggetto di attenzione e di studio da parte della
società delle nazioni- qui è ripreso in una prospettiva che allude
all’affermazione universale dei diritti umani e dell’eguaglianza su
scala planetaria, compendiati nella centralità del diritto alla vita.
Ai lavori di questa conferenza è dedicato uno degli ultimi scritti di
Marc Bloch che dà conto con la consueta lucidità delle differenti
posizioni in campo, dello scontro tra i vari interessi nazionali, delle
difficoltà che occorrerà superare. Ma, ciò che ai nostri fini
interessa, il grande tema dei diritti fondamentali della popolazione
umana è lanciato. Il progetto roosveltiano di Nazioni Unite, che
frattanto procede, si lega all'idea di uno sviluppo generalizzato che
possa consentire alla popolazione umana una libertà dai bisogni di
sopravvivenza, intrecciando pace e sviluppo in un nesso indissolubile.
Non indugio né sulle differenti posizioni che da Dumbarton Oaks (1944 )
sino a S. Francisco (25/4-/26/61945) si sono confrontate e scontrate,
né sulle forti resistenze che le vecchie concezioni espressero nel
corso dei lavori. E’ persino banale ricordare che i balzi in avanti
della storia si accompagnano sempre ad una resistenza del passato. E’
un fatto però che il disaccordo registrato durante i lavori
preparatori, tra chi voleva un ruolo più incisivo dell’ONU in materia
di cooperazione economica e sociale e protezione dei diritti
fondamentali e chi invece tendeva ancora a salvaguardare le prerogative
della sovranità statale, furono risolti inserendo un’impegnativa
frase nel preambolo: “Noi popoli delle N.U. decisi a riaffermare la
fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore
della persona umana, nell’eguaglianza dei diritti degli uomini e delle
donne e delle nazioni grandi e piccole” ,
e richiamando la loro tutela all’art. 1 , tra gli scopi N.U. e
in altri articoli (13, 55, 62, 68 e 76).
Poco e moltissimo, al tempo stesso. L’ONU non è certo un sia
pur pallido governo mondiale, quale esigerebbe l’ambizione degli
obiettivi che l’Organizzazione indica come propri fini. Ma, ad oltre
mezzo secolo da S.Francisco, dev’essere
alquanto rimeditata l’affermazione di un grande internazionalista
italiano, Roberto Ago che, all’indomani della creazione
dell’Organizzazione, scriveva: “un fosso assai profondo separa le
N.U. da quelle forme a carattere superstatuale che costituiscono
l’aspirazione profonda e per ora irrealizzata di tanti che vi vedono
il solo mezzo per assicurare un ordinato e pacifico sviluppo della
convivenza umana”. In questo tormentato cinquantennio l’ONU e le
altre organizzazioni internazionali hanno introdotto novità non
trascurabili nella comunità internazionale, nei suoi caratteri, nei
principi di legittimazione del potere politico. L’ONU, in particolare,
ha favorito la presa di coscienza di grandi problemi di convivenza sul
pianeta ed ha spinto sul proscenio dell'attenzione e del dibattito
mondiali il tema cruciale dei diritti fondamentali della popolazione
umana, fornendo a tale dibattito materiali via via più precisi di
elaborazione, di approfondimento, di sviluppo. Il giurista positivo
avrebbe forse non infondate obiezioni da opporre a chi sostenesse che
oggi esiste un compiuto sistema di diritti fondamentali garantiti alla
popolazione mondiale. Oltretutto, per nessuno di tali diritti, nemmeno
quelli più antichi e tradizionali, esistono le garanzie secondarie-
intese come meccanismi e procedure atti ad offrire riparazione a chi ne
subisca la lesione o la negazione; per molti di essi, a cominciare dal
diritto ad avere di che sostentarsi, non esistono neanche le garanzie
primarie e la stessa esistenza del diritto è d’incerta formulazione e
di contenuto ancora più incerto. E tuttavia, se ci collochiamo in una
prospettiva storica- che è quella da assumere quando ci si confronta
con simili tematiche- è innegabile che - nella cultura,
nell’immaginario collettivo, nella concezione del potere e, dunque, di
riflesso nel discorso di autolegittimazione di ogni governante - si è
prodotto un salto. Le coordinate essenziali del discorso politico della
prima metà del secolo scorso sono saltate. Oggi, il diritto alla vita
per ciascuno e per tutti, essenza di una biopolitica positiva, è
avvertito come non contestabile, allo stesso modo in cui è avvertito
come non contestabile la condanna del genocidio o dell’apartheid,
anche se ancora si praticano l’uno e l’altro e non mancano frange di
sottoculture che le esaltano. Ciò consente di denunciare come “non
diritto” le innumerevoli situazioni che calpestano il diritto alla
vita. Una denuncia politico-morale, certo, ma che innesca dinamiche che
possono produrre diritto. E’ già avvenuto. Avviene continuamente.
Insomma, la Carta delle N.U. - proprio a causa delle vicende che
l’hanno originata - ha messo in moto una dinamica anche per quanto
riguarda il diritto. Provo ad essere più concreto e faccio un esempio: nel 1948, come tutti
sappiamo, è stata proclamata la Dichiarazione Universale dei Diritti
Umani. Qual era il suo valore giuridico? In quanto emanata con una
risoluzione dell'assemblea generale delle Nazioni Unite, votata, come si
dice in linguaggio diplomatico, per consenso, cioè senza nessun voto
contrario, (l'Unione Sovietica e i Paesi del suo blocco si astennero),
essa non costituiva un vero e proprio testo di diritto internazionale
(prescindo qui dalla categoria recente della cosiddetta “soft law”):
si ritiene, infatti, che queste risoluzioni dell'assemblea Generale
delle Nazioni Unite votate per consenso abbiano un particolare peso, ma
non creino diritto positivo ad esempio come un trattato, e meno che mai
creino consuetudine per la semplice ragione che la consuetudine non si
può creare dall'oggi al domani. Quindi si tratta di una raccomandazione
particolarmente autorevole, di un orientamento. E infatti se andiamo a
leggere tutti i testi di diritto internazionale fino al '60, al '70,
(italiani, anglosassoni, francesi, tedeschi, ecc.)- troveremo che la
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è una dichiarazione
particolarmente importante, da tener presente, il cui valore è un
valore politico-morale, ma nulla di più. Analoga è la posizione delle
giurisdizioni: la Corte di cassazione francese lo ha detto per esempio a
metà degli anni '60; la Corte di Cassazione italiana lo ha detto più o
meno nella stessa epoca o anche forse nel decennio successivo. Se
andiamo invece a prendere testi di diritto internazionale scritti dopo
la metà del 1980, troveremo invece un'altra presentazione. Vi si dice:
i principi, le norme della Dichiarazione Universale dei Diritti
dell'Uomo, ancorché votati con una risoluzione, sono ormai entrati a
far parte della consuetudine e quindi costituiscono diritto
internazionale generale perché non vi è nessun Paese che ne
disconosca, per così dire, il valore; non vi è nessun Paese che
esplicitamente dichiari di sottrarsi ad essi. Analogo mutamento è dato
poi registrare nella giurisprudenza delle alti corti, a cominciare dalla
cassazione francese. Ciò è avvenuto perché il consenso intorno a
questi principi è stato crescente, sono stati creati numerosi strumenti
internazionali che a tali principi hanno dato attuazione (trattati,
convenzioni, accordi), sì che essi sono divenuti punti di riferimento
del comportamento “virtuoso” degli Stati. È successo, insomma, che
dal '48 all' '88, mettiamola così, la dottrina dei diritti umani è
cresciuta enormemente, nelle coscienze, nell'opinione pubblica, anche
nelle relazioni tra Paesi, tra Stati. Antonio Cassese ha documentato in
numerosi scritti questa evoluzione. Agli inizi degli anni '50, ad
esempio, un gruppo di Paesi voleva assumere una iniziativa di
deplorazione nei confronti del Governo cileno dell’epoca, al quale si
rimproverava la violazione di alcuni diritti umani. Il Governo cileno,
appoggiato dalla maggioranza degli altri Paesi, reagì invocando
l’art. 2 della Carta che, al paragrafo 7, vieta l'ingerenza esterna
negli affari interni di uno Stato, tra i quali si assumeva rientrasse la
questione dei diritti umani. Questa
era l'opinione dominante, che già negli anni '70 ormai non reggeva
più, tanto che le dichiarazioni di condanna si sprecavano senza che mai
il Paese che ne veniva toccato pensasse di invocare questa sorta di
usbergo. L'approccio era già mutato:
il Paese toccato da dichiarazioni, prese di posizione, negava
puramente e semplicemente il fatto, non contestava in astratto e
pregiudizialmente la competenza ad intervenire. Oggi si tratta di proseguire lungo questa strada, in particolare per
quanto riguarda i diritti che assicurano la vita. I grandi progressi che
sono stati compiuti nel campo dei diritti umani, infatti, riguardano - a
ben vedere- i diritti a non vedersi togliere la vita, a non subire
aggressioni nella sfera del proprio corpo o della propria libertà.
Assai meno riguardano il diritto alla vita nella dimensione che tocca le
condizioni materiali o i beni necessari perché la vita possa
svilupparsi. Quella dimensione di cui parlerà Luigi Ferrajoli. Questo
aspetto, che nella Dichiarazione Universale era strettamente collegato
al primo, ha incontrato resistenze ancora più forti, per un verso
legate al permanere di concezioni vetero-liberali (basti pensare ad
Hajek), per un altro verso connesse alle resistenze che, anche nei paesi
più sviluppati, incontrano i diritti sociali, per altro verso ancora in
conseguenza del più penetrante intervento della collettività che
alcuni di tali diritti postulano. Nella Carta delle N.U. e nell’ideologia che la sorreggeva, la
soddisfazione di tali diritti era affidata allo sviluppo e questo, a sua
volta, era visto come il risultato della cooperazione internazionale per
promuovere l’avvio di quei medesimi meccanismi che nei paesi più
avanzati avevano portato un relativo benessere. Un singolare carattere
tolemaico inficiava questa concezione che faceva della storia,
dell'esperienza, della cultura dei paesi avanzati, l'alfa e l'omega
della storia del mondo. Questa concezione porterà, negli anni
cinquanta, all’affermazione della teoria dello sviluppo lineare che
immaginava la crescita economica come un processo lineare, uniforme,
universale attraverso il quale tutte le società avrebbero dovuto
passare: dallo stadio tradizionale a quello segnato dalle condizioni
preliminari al decollo, dal decollo alla maturità, per arrivare infine
all’era dei consumi di massa. La razionalità di Newton, alla quale
ancora i paesi sottosviluppati non sarebbero pervenuti,
era presentata, e qui cito da Rostow “come il simbolo dello
spartiacque storico, a partire dal quale si diffuse tra gli uomini il
concetto di un mondo esterno soggetto ad alcune leggi conoscibili:
suscettibile di sistematiche trasformazioni produttive”. Non indugio
sulla confutazione di questa teoria, purtroppo offerta dalla storia.
Rilevo solo, da una parte, che essa - tuttavia - s’iscriveva nella
rivoluzione biopolitica che affidava la propria realizzazione al consumo
di massa, spinto sino al punto da sostituire alla soddisfazione del
bisogno (need) la
soddisfazione del desiderio (want);
s’iscriveva in quella linea ma la declinava secondo una visione
etnocentrica. Da un’altra parte, che una tale teoria sembrava ignorare
l’individualismo possessivo, iscritto nella stessa tradizione nella
quale si collocava la razionalità newtoniana, e i campi che a tale
individualismo si sarebbero aperti grazie ai progressi della scienza e
della tecnica. Il fallimento della prospettiva rostowiana sembrò, per
un momento, determinare una reazione della comunità internazionale e
l’apprestamento di strumenti più pragmatici e concreti per combattere
il sottosviluppo, ma lo sforzo per la costruzione di un nuovo ordine
economico internazionale (NOEI), dopo aver toccato l’apice nel 1974
con la Carta dei diritti e doveri degli stati, priva di valore cogente e
fortemente avversata dai paesi più avanzati, si è arenato o, peggio,
ha ceduto il passo ad una liberalizzazione selvaggia condotta
all’insegna della globalizzazione. Le politiche finanziarie e
monetarie delle istituzioni del gruppo di Bretton Woods ( FMI e BM )
hanno preso il sopravvento sui tentativi di costruzione di un NOEI,
allontanandosi progressivamente dagli enunciati basilari della Carta
delle NU, con effetti rovinosi per quella parte della popolazione
mondiale i cui diritti fondamentali risultavano maggiormente minacciati. Da qui occorre partire, per trasformare la denuncia in affermazione di
diritti o in affermazioni di diritto, utilizzando innanzitutto le
nuove prese di coscienza che la stessa globalizzazione ha prodotto e
continuamente produce, i movimenti trasversali che da questa nascono, le
nuove solidarietà che si delineano. Lungo questa linea anche al giurista è riservato un compito, che è
quello di offrire gli strumenti della sua teoria per la formulazione
normativa delle esigenze espresse dai nuovi movimenti. L’indagine sui
beni comuni s’iscrive appunto in questa prospettiva. Nella medcsima prospettiva s’iscrive una battaglia culturale per
sottrarre i diritti fondamentali a letture parziali e distorcenti, quali
quelle proposte da Hajek e oggi pericolosamente di moda Oggi, infatti, sempre più si parla dei diritti civili e politici e dei
diritti sociali, economici, culturali come due grossi spezzoni
dell'universo di protezione ai diritti umani; e non manca chi sostiene
che i primi debbano prevalere sugli altri.
Vorrei puntualizzare che le Nazioni Unite hanno sempre invece
affermato la così detta indivisibilità di questi due spezzoni. Non è
irrilevante questa puntualizzazione perché le Nazioni Unite
rappresentano il centro unificatore, per così dire, di questo
travaglio. Il nuovo diritto internazionale nasce avendo come punto di
riferimento le Nazioni Unite e la Carta dell’Organizzazione. In
particolare, il diritto internazionale di protezione dei diritti umani
si fa sempre sotto l'egida delle Nazioni Unite; spesso si richiama la
Carta dell'ONU negli strumenti internazionali; anche in quelli
regionali, ci si richiama o agli articoli 1 e 55 della Carta o
addirittura alla Dichiarazione universale. Le Nazioni Unite sono quindi
il centro motore del nuovo diritto internazionale. Oltretutto, anche da
un punto di vista formale, l'articolo
103 della Carta ne afferma la prevalenza su qualsiasi altro trattato,
accordo o qualsiasi altra fonte di diritto internazionale. E poiché la
quasi totalità degli Stati ormai hanno sottoscritto la Carta delle
Nazioni Unite accettando così anche l'articolo 103, l’ordinamento
dell’ONU ormai conforma l’ordinamento giuridico della comunità
internazionale. Orbene, la tesi
dell’indivisibilità è anch’essa un portato fondamentale di quel
lavorio che si è verificato tra le due guerre e che ha avuto ad oggetto
non soltanto la responsabilità penale, personale dei governanti, non
soltanto la creazione di nuove fattispecie penali quali i crimini contro
l'umanità e così via, ma anche l’approfondimento della nozione di
dignità umana. In ultima analisi, i diritti dell'uomo sono i diritti
che proteggono la dignità dell'essere umano in quanto tale,
indipendentemente da rapporti di appartenenza politica, da connotazioni
etniche, da condizioni personali o sociali, indipendentemente da
collocazioni in questo o in quell'angolo del pianeta. Questi sono i
diritti fondamentali, che certo hanno una fortissima carica utopica
perché realizzarli fino in fondo significa aver rovesciato e
completamente sconvolto lo stato del mondo. Carica utopica che non
esclude la loro rilevanza pratica e operativa, però: anche la
democrazia completa è un ideale utopico e tuttavia è un valore
storicizzato. Ebbene, la dignità umana - e questo fa parte appunto degli
approfondimenti, delle riflessioni che sono occorse tra le due guerre e
proprio in un periodo in cui la dignità umana soffriva le offese più
atroci - soffre tanto della tortura quanto della mancanza di quelle
condizioni elementari indispensabili “perché un uomo possa dirsi un
uomo”, com’è scritto in alcuni documenti. I diritti sociali sono,
appunto, la protezione della dignità umana nella persona che deve poter
vivere e che é inserita in una rete di relazioni sociali, in una
dimensione di socialità. L'uomo non è una monade, infatti. Già nella
Repubblica di Weimar, che da questo punto di vista è stato un
laboratorio, la Costituzione parlava di diritti fondamentali riferendoli
anche ai diritti sociali. Ecco
perché i diritti sociali si trovano
enunciati insieme ai diritti civili e politici, sia nella formula
sintetica dell'articolo 55 lettera C della Carta delle Nazioni Unite sia
nella Dichiarazione del '48. Malgrado ciò, v’è una forte tendenza
a separarli. Anche
nella cultura: noi parliamo comunemente di diritti della prima, della
seconda generazione, e così via. Da dove ci viene questo ? Sì, È
un dato storico, ovviamente, anche se dal punto di vista strettamente
storico, se andassimo a leggere la Costituzione francese del 1793,
troveremmo enunciati molti diritti sociali, in formule magari non così
stringenti e puntuali come avviene oggi. E tuttavia dobbiamo
prendere atto che questa spinta alla separazione è tuttora presente,
riaffiora periodicamente, tant'è che agli inizi degli anni '90 il
Segretario Generale delle Nazioni Unite se ne preoccupò e organizzò
una grande conferenza sui diritti umani, a Vienna, che aveva ad oggetto
il tema della divisibilità o indivisibilità dei diritti umani e che si
concluse con la riaffermazione della l'indivisibilità, ma che registrò
anche delle tensioni forti. Ho indugiato su questo punto perché esso mi consente di fare due
ulteriori brevi considerazioni. La prima riguarda l’Europa. Considero
un fatto molto positivo che la Carta dei Diritti Fondamentali
dell'Unione Europea non soltanto tratti insieme diritti civili e
politici e diritti sociali, economici e culturali, ma affermi
esplicitamente il nesso di indivisibilità che lega questi diritti e si
riallacci in tal modo idealmente alla tradizione democratica tra le due
guerre che ha messo capo
alla Carta di Londra e alla Carta delle Nazioni Unite. Per tale via la
Carta dell’Unione immette nel nostro orizzonte normativoin un periodo
in cui tutto è molto nebuloso e controverso, in cui tutto appare in
movimento- questo punto fermo. C'è solo da sperare che intorno a questa
Carta si determini un consenso, una consapevolezza del suo significato
che la faccia crescere, che le dia quella forza che da soli i documenti,
anche i documenti giuridici, non hanno; e sorvolo qui sull'incerto
Statuto giuridico attuale della Carta. La
seconda considerazione riguarda la stessa pratica delle Nazioni Unite,
nella quale l’indivisibilità è stata minata allorché si è
accettato di fare due patti diversi. Voi sapete che, sotto l'egida delle
Nazioni Unite, all'epoca in cui si riteneva che la Dichiarazione
Universale fosse soltanto un documento di particolare valore, ma non
dotato di cogenza giuridica, sono stati elaborati i Patti per i Diritti
Civili e Politici e i Patti per i Diritti Economici Sociali e Culturali;
patti che poi vennero sottoscritti a New York nel 1966 e che sono
entrati in vigore dieci anni dopo e ora fanno parte dell'universo
normativo di protezione internazionale dei diritti umani. Ritengo che
l'avere accettato, per facilitare l'adozione dei patti, di scindere le
due categorie abbia in qualche modo indebolito l'idea
dell’indivisibilità, al di là delle intenzioni di coloro che hanno,
all'epoca, lavorato perché comunque questi patti venissero sottoscritti
e entrassero poi nel circuito delle fonti . Ma l'idea dell'indivisibilità è contraddetta anche dalla pratica delle Nazioni Unite. Val la pena di ricordare come, in caso di violazioni gravi, massicce, sistematiche, dei diritti umani, il Consiglio di Sicurezza può ritenere che sussista una minaccia alla pace o alla sicurezza internazionale e può quindi decidere di adottare le misure del capo VII della Carta, che sono misure che possono andare sino all'uso della forza (che non è la guerra ancora, è il caso di ricordare). La
formula che ormai viene ripetuta, che è entrata nel linguaggio
diplomatico e delle cancellerie, oltre che nei testi di diritto
internazionale, è appunto violazioni gravi, massicce, reiterate,
sistematiche. Però questa formula ha una eccedenza semantica:
viene intesa comunemente, e probabilmente non può che essere così,
come se dicesse “violazioni gravi, massicce, eccetera, dovute ad un
comportamento intenzionale”. Perché una violazione grave, massiccia,
reiterata, sistematica dei diritti umani si verifica indubbiamente anche
nel caso in cui un'intera popolazione venga lasciata in balia di
un'epidemia che la distrugga e che potrebbe esse facilmente debellata
attraverso un farmaco esistente sul mercato che magari non può essere
riprodotto perché protetto da un brevetto ; è il caso che si è
verificato in Sud Africa qualche tempo fa. Ma a nessuno viene in mente,
pensando a violazioni gravi, reiterate, sistematiche, di pensare a
situazioni del genere. Si pensa alle offese inflitte intenzionalmente
agli esseri umani. Vi sono corpose ragioni storiche e morali in ciò;
c'è, nei casi cui la formula viene riferita, un che di odiosità in
più, c'è il dolo che in diritto penale è certamente rilevante, il
dolo diretto: un conto è sterminare una popolazione con l'intento di
raggiungere questo sciagurato risultato - è il caso del genocidio - e
un conto è sterminare una popolazione per raggiungere un altro diverso
risultato ma con la consapevolezza che il perseguimento del diverso
obiettivo comporta questo doloroso prezzo: agire, cioè, a costo di
sterminarla, accettare lo sterminio come una sorta di effetto secondario
che non è possibile evitare (come nella guerra si accettano le vittime
innocenti, classificandole effetti collaterali). Tuttavia queste due -
pur molto diverse- situazioni dovrebbero, ad una rigorosa stregua di
tutela della dignità umana, essere assunte entrambe come violazioni
gravi, reiterate, sistematiche, salvo poi a vedere se nell' un caso
bisogna intervenire con gli strumenti del capo VII e in un altro caso
bisogna intervenire con altri strumenti. Ma il diritto internazionale
non si occupa del secondo caso di violazioni, che viene affidato, come
dire, all'assistenza internazionale, alla generosità degli Stati, ai
versamenti che ciascuno di noi fa all'UNICEF, piuttosto che ad altre
benemerite organizzazioni. Avviene così che la dignità umana venga in qualche modo scissa. Contrastare questa scissione ed elaborare le risposte più appropriate
alle situazioni di violazioni gravi, sistematiche e reiterate, ma non
direttamente intenzionali, dei diritti fondamentali, è compito anche
del giurista.
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