PREFAZIONE Presidente
dell’Associazione per la Ricerca e la Comunicazione ARCO Le Nazioni Unite hanno promosso e approvato una serie di trattati
internazionali per sancire la non appropriabilità della luna, di altri
satelliti, dello spazio esterno alla Terra. Altri trattati riconoscono
che i fondali marini e l’Antartide non sono assoggettabili alla
sovranità di un singolo Stato, ma costituiscono uno spazio a cui tutti
possono accedere. Altri negoziati internazionali incominciano a porre al
centro dell’attenzione il problema dell’uso corretto dei beni
comuni, come l’atmosfera, nella quale non si può scaricare ad esempio
ossido di carbonio a piacimento. Ed ecco il ragionamento di Giovanni Franzoni, nel libro “Anche il
cielo è di Dio”, il quale ricorda, come fosse il filosofo inglese
John Locke, nel secondo dei suoi Trattati sul governo (1960),
citando il Salmo 115, v. 16 della Bibbia (“Dio ha dato la terra
all’umanità in comune”), che giunse ad affermare che quando si trae
qualcosa dalla natura con il proprio lavoro si può acquisire la
proprietà della cosa, ad alcune condizioni: che ne resti abbastanza e di uguale qualità per gli altri che non sia comunque possibile eccedere fino allo spreco. Locke non poteva prevedere che le risorse della Terra fossero esauribili
e che, in base ai suoi principi, avrebbero dominato proprio lo spreco e
la distruzione dell’ambiente e della biosfera, ma resta il fatto che
sulla base di tali principi si è ampiamente sfruttata molta parte del
mondo. I criteri di Locke sono accettati criticamente dagli economisti di oggi.
Così Robert Nozick (Anarchy, State and Utopia Oxford 1974)
obietta che la semplice applicazione del lavoro ad un bene comune non può
dare il diritto di acquisirlo in proprietà, ma occorre la compresenza
di alcuni titoli procedurali: un principio di giustizia nell’acquisizione originaria un principio di giustizia nel trasferimento della proprietà da un
soggetto all’altro un principio di rettifica se i precedenti principi sono stati applicati
imperfettamente. Questo terzo principio diventa oggi fondamentale, perché la
disuguaglianza e la povertà che contraddistinguono il mondo moderno non
possono che nascere dalla disapplicazione – quanto meno – del
criterio di giustizia posto a base delle due prime enunciazioni. Sempre
di più, quindi, mentre si restringe fino ad annullarsi il diritto di
acquisire come proprietà il bene comune, attraverso l’uso senza
contropartite da parte di singoli soggetti – siano imprese industriali
nazionali o transnazionali o enti istituzionali di varie caratteristiche
– si sviluppa e mette radici la necessità e la logica di dare campo
ad un nuovo sistema che ristabilisca giustizia nell’utilizzo del bene
comune. Da qui trae origine la proposta di creare nuovo diritto
internazionale per regolare quest’uso e istituire anche forme di
pagamento di una imposta internazionale da destinare alle
perequazioni dei diritti di partecipazione allo stesso bene comune, a
favore di chi non può accedervi anche se ne avrebbe titolo. Nasce in tal modo l’idea di un Fondo per la perequazione del debito
e per lo sviluppo, alimentato da questa tassazione internazionale e
gestito dalle Nazioni Unite. Lo stesso Fondo che potrebbe anche ricevere
altri apporti, come le ricadute dei debiti condonati ai Paesi in via di
sviluppo, per i quali oggi giustamente si sta conducendo la campagna del
condono. Oppure il gettito, in tutto o in parte, di una futura imposta
come la Tobin tax, o ancora altre opportunità, come vere e
proprie royalties che potrebbero essere riconosciute a livello
globale nei confronti di non pochi Paesi del Sud. Una soluzione che
consentirebbe un notevole salto di qualità, perché il riconoscimento
del diritto a partecipare in concreto al godimento del bene comune è un
passo avanti rispetto alla pura e semplice remissione dei debiti e può
essere ricco di frutti sia per chi offre le risorse sia per chi le
utilizza, nel rispetto comune di criteri di equità giuridicamente
riconosciuti. Progettualmente, tutto ciò si traduce nella necessità di creare nuovo
diritto internazionale. Non ci si nascondono le difficoltà: resta tutta
via il riconoscimento che ogni innovazione sarà necessariamente
preceduta da un travaglio culturale, che talvolta può trarre linfa e
giovamento dalle contingenze storiche. Oggi viviamo un momento di nuove
consapevolezze, per cui pubblicamente ci si chiede come sia possibile
superare gli squilibri che sono presenti e addirittura crescono nel
mondo e già si cerca di creare nuovo diritto come con il
tribunale penale internazionale, i tentativi della conferenza di
Marrakesh sull’ambiente, e così via. Il diritto internazionale nasce essenzialmente da Trattati e Convenzioni
internazionali. È dunque una gestazione difficile, le radici prime sono
nei rapporti di politica internazionale che continuativamente vanno
formandosi e consolidandosi, però proprio la formazione del diritto
trova alimento e ragion d’essere nella consapevolezza diffusa di ciò
che viene inteso come giusto, utile, valido, ecc. Qui si urta contro due
ostacoli: gli interessi politici ed economici dei paesi dominanti e le
concezioni teoriche proprie degli stessi paesi dominanti (essenzialmente
il neoliberismo). Però la costruzione di una dottrina del diritto
internazionale, che parta dai trattati esistenti ed in fieri, ne
colga gli elementi ispiratori riconducibili ad una radice comune, ne
metta in luce la logica che ha generato queste proposte, può dar luogo
ad ulteriori proposte collettive di più paesi che si facciano promotori
di trattati in sede ONU o in altri consessi mondiali o regionali. Creare
diritto internazionale significa quindi creare una dottrina condivisa su
determinati argomenti, che al livello di rapporti internazionali
verranno trasformati in proposte scritte. Il processo è lento e
difficoltoso, ma è impossibile prescindere ed è proprio la
globalizzazione della comunicazione che consente di favorirlo.
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