Destinazione
Universale dei beni comuni Teologo Il tema della destinazione universale dei beni del creato è una
questione fondamentale. Non si tratta di una riflessione semplicemente teorica, ma di affermare
il diritto dei poveri a una condizione di vita libera e degna attingendo
le proprie risorse dai beni dell’universo. E’ necessario evidenziare le responsabilità dell’umanità intera, e
di coloro che fanno riferimento alle religioni in particolare, di fronte
al problema della fame, del sottosviluppo e della deprivazione di valori
culturali che colpisce molte popolazioni della terra e segna
pesantemente con lo stigma dell’emarginazione anche il nostro paese. Diritto e filosofia del diritto Il fatto che le fonti del pensiero sulla destinazione universale
dei beni siano religiose nulla toglie al rispetto dovuto al pensiero
laico che ha cercato di fondare, con gli strumenti del pensiero
filosofico prima e quindi con quelli del diritto internazionale, la
stessa dottrina dei beni comuni – Global Public Goods (UNDP,
Oxford University Press 1999) – definendo le risorse del pianeta,
dello spazio esterno e dell’universo come res communis omnium
(cosa comune di tutti) e non come res nullius (cosa di nessuno). La differenza è sostanziale perché governare, utilizzare e
salvaguardare una realtà di comune pertinenza suppone convenzioni
internazionali, ratificate da tutti gli stati, pena una sanzione
risarcitoria. Se invece i beni non ancora in regime di proprietà privata o di
sovranità nazionale fossero cosa di nessuno, potrebbe farsi valere il
principio, che in effetti a tutt’oggi copre la pirateria
nell’universo, res nullius est primi occupantis; la cosa di
nessuno è del primo che la occupa di fatto. In questo caso è evidente che i soggetti, Stati nazionali o grandi
società multinazionali, che hanno le tecnologie ed i capitali per
farlo, possono occupare, usare o anche danneggiare ciò che è diventato
loro per occupazione. Appellarsi al de jure predae di Grozio (antistite del
giusnaturalismo nella prima metà del XVII secolo), per giustificare
questo cinico pragmatismo è però una forzatura perché Grozio parla di
diritto di preda – il cosiddetto bottino – all’interno dello jus
pacis et belli. Per attualizzare un diritto di bottino o di
predazione nel nostro tempo si dovrebbe ipotizzare uno stato di guerra
indefinita nei tempi e indeterminata nei soggetti, che giustifichi
l’appropriarsi della res nullius in base al diritto di bottino;
curioso risarcimento per essere stati costretti ad una guerra che
naturalmente il vincitore suppone giusta. Che cosa succederebbe ai Musei Vaticani e a tutti i grandiosi Musei
delle grandi città europee, se si rendesse retroattiva una legge sulla
restituzione dei bottini di guerra o di dominazione? Quando il diritto internazionale riuscirà, sotto la spinta
dell’opinione pubblica internazionale e per la pressione dei movimenti
contrari alla globalizzazione liberista del mercato e al saccheggio
illimitato delle risorse, a ottenere dei patti universalmente
riconosciuti e delle sedi giudiziarie capaci di farsi valere, potremo
dire che la battaglia per la destinazione universale dei beni sia vinta
o almeno in fase di concreto avvicinamento alla vittoria. Un ostacolo al riconoscimento del diritto dell’umanità sui «beni
comuni» viene indubbiamente dall’imperfetta elaborazione del concetto
di «umanità», vagamente espresso recentemente quando si è parlato di
«crimini contro l’umanità» non prescrivibili, ma ancora
indeterminato sull’identità del soggetto di diritto perché non è
chiaro se l’umanità abbia rappresentanza o non abbia una
rappresentanza, perché non è un soggetto. Un esempio di rivendicazione laica sul diritto a un bene comune è la
battaglia del Gruppo di Lisbona, autorevolmente rappresentato da
Riccardo Petrella, per un’equa e giusta utilizzazione dell’acqua. Il
Gruppo di Lisbona, peraltro, non chiede benevolenza ma chiede un
Patto sull’acqua accettato dai governi e ratificato dai parlamenti e
un Tribunale dell’acqua che possa avere poteri reali. Citando il secondo Forum mondiale dell’Aia (17-22 marzo 2001),
Petrella afferma la necessità di distinguere, per quanto riguarda la
risorsa «acqua», la nozione di bisogno da quella di diritto. «Tra
queste due concezioni, bisogno e diritto – dice Petrella – esiste
una differenza fondamentale: il concetto di diritto implica che la
collettività riconosca che è sua responsabilità creare le condizioni
– finanziarie, politiche e sociali, ecc. – affinché l’accesso
all’acqua possa essere esercitato. Appartiene alla collettività
l’obbligo di assicurare la soddisfazione di un diritto che è inerente
all’essere umano e che non deve necessariamente essere “meritato”.
Avere un diritto implica inoltre il dovere di far sì che anche gli
altri possano godere dello stesso diritto. Quando invece parliamo di
bisogno necessariamente passiamo a una concezione che implica la capacità
del singolo di soddisfare il bisogno stesso. Non c’è nessuna
responsabilità collettiva. C’è l’individuazione della
responsabilità, in nome della responsabilizzazione dell’individuo». Dovere dello stato è di creare le condizioni ai cittadini di esercitare
la libertà per soddisfare i propri bisogni. Quando l’individuo non può soddisfare il proprio bisogno, in assenza
di un diritto, che darebbe luogo ad una giusta rivendicazione, c’è
solo spazio per l’intervento umanitario e creativo. Dire, ad esempio, che tutti hanno diritto all’accesso all’acqua –
dovremmo dire a tutte le risorse che costituiscono i beni comuni
dell’umanità – significa determinare una cittadinanza di tutti gli
uomini e affermare l’umanità stessa come soggetto di diritto. Per
questo il compito di chi lotta per il diritto di accesso alle risorse
del pianeta sarà durissimo perché, senza negare la proprietà privata
attualmente costituita, ne limita l’espansione per quanto dei beni
comuni – common goods – è ancora fuori di ogni proprietà e di ogni
sovranità, come i fondi oceanici, l’Antartide, lo spazio «esterno»,
la luna e altri corpi «celesti». Rispetto al diritto all’acqua, peraltro, il diritto ai «beni comuni»
non ancora attribuiti a proprietà privata o a sovranità statale,
incontra nella sua definizione una difficoltà ulteriore. L’acqua
infatti, come Petrella afferma e dimostra, è un bisogno vitale,
individuale e collettivo. È quindi più facile aggregare le lotte
rivendicative ed invocare una definizione equa. Non dovrebbe essere
difficile affermare che l’accesso all’acqua deve passare da bisogno
a diritto. Ma l’accesso alla luna e alle sue risorse minerarie è un
bisogno? Per ora questo non appare. Recentemente è stato denunciato un furto dai magazzini della NASA di
minerali prelevati dal suolo lunare. Si tratta di una inutile bravata
oppure di un furto di beni potenzialmente preziosi? Sono preziosi per la
scienza e per la ricerca? Potranno divenire preziosi anche per future
tecnologie sofisticate e lucrose? Si tratta di beni ottenuti ad opera di
umano ingegno e quindi brevettabili e privatizzabili? Si tratta invece
di beni di pertinenza dell’umanità intera il cui uso dovrebbe essere
assoggettato al pagamento di canoni di concessione a vantaggio
dell’umanità intera con la perequazione del «debito» internazionale
che strangola le economie di molti paesi poveri? È lecito inquinare a
piacimento lo spazio esterno o gli oceani con frammenti di satelliti
artificiali in disgregazione oppure anche questo costituisce una lesione
dei diritti fondamentali dell’umanità e in particolare delle
generazioni future che si troveranno, oltre che un inquinamento della
terra, del mare e dell’atmosfera, anche un inquinamento dello spazio? Questi interrogativi non devono disarmare chi pone il problema della
salvaguardia dei beni comuni e della possibile ricaduta economica,
derivante da royalties sui beni minerari dei fondi oceanici o del
sottosuolo lunare o sulle posizioni dei satelliti per le
telecomunicazioni in orbita geostazionaria, in favore di un Fondo
internazionale per lo sviluppo e per la perequazione del debito. Le
Società multinazionali e i governi che sfruttano gratuitamente queste
risorse comuni sono infatti in una posizione giuridica sostanzialmente
debole: il vecchio adagio del diritto romano, del tutto superabile, che
affermava che la cosa di nessuno era del primo occupante. Questo
principio che poteva valere per il diritto romano, in quanto diritto non
universale ma diritto dei romani, dopo la Dichiarazione dei diritti
dell’uomo (1948), non può avere altro valore che quello di una
brutale affermazione della forza e del potere su qualsiasi diritto. Ostacolo alla realizzazione di questa forma di accesso all’esercizio
del diritto è la difficoltà a configurare l’umanità intera – all
mankind – come soggetto di diritto. I paesi che più
spregiudicatamente usano e abusano dei beni comuni, non ratificano le
deliberazioni prese nelle Assemblee internazionali, proseguono
nell’inquinamento e nella privatizzazione delle risorse della biosfera
ed estendono allo spazio esterno e all’universo il loro dominio,
difficilmente possono essere trascinati davanti a un Tribunale
internazionale da un singolo paese o da una popolazione locale. Una azione di questo genere potrebbe essere messa in atto solo da una
Organizzazione rappresentativa dell’umanità intesa come soggetto di
diritto. Ma questo è appunto l’anello che manca: l’umanità esiste
solo nei linguaggi simbolici ma non è un soggetto perché non ha una
rappresentanza e non ha una rappresentanza perché non è un soggetto. Titolari di una eredità indivisa Un’altra via per configurare nell’abuso dei beni comuni una lesione
di un diritto potrebbe essere concepita utilizzando una nozione che già
comprare negli scritti di alcuni giuristi ed economisti: common heritage. Una parte dei beni e delle risorse dell’Universo sono già di
pertinenza di privati, secondo l’istituto accuratamente organizzato
della proprietà privata, altri sono frutto di invenzione
dell’intelletto umano e sono tutelati nel regime dei brevetti, altri
ancora sono sotto l’amministrazione ed il potere degli Stati nazionali
e sono regolamentati dal diritto internazionale all’esterno e dal
diritto civile e penale all’interno. Questa massa di beni e benefici
non costituisce peraltro che la minima parte dei beni dell’Universo
che restano invece eredità indivisa. L’unità dell’umanità, in questo caso, non sarebbe ipotizzata al
tavolino ma proverrebbe dalla contaminazione e dall’intreccio di
culture millenarie. Mentre in tempi relativamente recenti l’invenzione
dell’ingegno è tutelata per lunghi periodi dal sistema dei brevetti,
restano irraggiungibili i soggetti che hanno fondato le basi della
civilizzazione umana sul pianeta. Impossibile brevettare la ruota o l’argano. Dall’invenzione della ruota all’argano, dalla domesticazione del bue
alle tecniche per la conservazione del cibo, dall’arte della pesca e
della navigazione all’arte della costruzione di abitazioni, dalla
fionda alla balestra, dalla scrittura alla musica, le tecniche inventate
nelle più diverse aree culturali sono un patrimonio di comune
pertinenza che costituisce il fondamento di ogni ulteriore produzione
dell’ingegno umano. Questo debito millenario costituisce il fondamento dell’unità
dell’umanità presente e della sua responsabilità verso l’umanità
del futuro. Questo debito delle donne e degli uomini di scienza e delle
arti costituisce l’eredità indivisa che trasforma i soggetti umani,
anche i più umili e i più poveri, in creditori. Creditori perché
eredi. In questo caso non ci sarebbe bisogno di costituire l’umanità intera
come soggetto di diritto ma qualsiasi soggetto giuridico, anche
individuale, avendone i mezzi, potrebbe accusare di appropriazione
indebita colui che si appropria di una parte dell’eredità indivisa o
la devasta o la usa contro di lui. Saremmo come nel caso di un minore
che, essendo sotto tutela e non potendo usare della massa di beni di cui
è titolare, parzialmente o in toto, ha comunque diritto a una
sospensiva finché l’eredità indivisa non venga organizzata e
partecipata senza lesioni del diritto di alcuno avente titolo. Una dottrina di questo tipo dovrebbe dar luogo ad una moratoria
sull’utilizzo delle risorse comuni attualmente fuori dal regime della
proprietà privata, della proprietà derivata dall’ingegno e dalla
sovranità degli Stati (fondi oceanici, energia geotermica, Antartide
ecc.) o dei corpi nello spazio e dei campi gravitazionali ed
elettromagnetici da essi creati. In alternativa alla moratoria, che avrebbe lo svantaggio di bloccare la
ricerca scientifica, dovrebbero accumularsi delle risorse fruibili da
quei soggetti che al presente non sono in grado di utilizzare ciò che
comunque loro virtualmente appartiene. Da qui l’idea che per accedere
a corpi celesti come la luna e prelevarne minerali o per mettere in
orbita geostazionaria dei satelliti per le telecomunicazioni, si debba
pagare un canone di concessione confluente in un Fondo per la
compensazione del Debito verso il sistema bancario che molti paesi hanno
contratto e che strangola le loro economie. Idea che finora nessuno ha contestato ma che è rimasta allo stato di
intuizione e attende di essere valutata e approfondita da giuristi ed
economisti. Il Convegno sul tema Risorse del pianeta e dello spazio: beni comuni.
Nuovi diritti e credito dei poveri, promosso il 9/10 marzo del 2002
dalla Fondazione internazionale «Lelio e Lisli Basso» e tenuto preso
la Facoltà valdese di Roma, nonostante la co-promozione di organismi
importanti come la Fondazione Balducci, la rivista Nigrizia, la
Fondazione Lelio e Lisli basso, l’A.R.C.O., l’Associazione per la
ricerca e la comunicazione e la Scuola «Vasti, che cos’è umano», e
nonostante la partecipazione di illustri giuristi come Salvatore Senese,
Luigi Ferraioli e Daniele Archibugi, di economisti come Bruno Amoroso,
Riccardo Petrella, José Esquinas e Gianni Rognoni, di Filippo Graziani
per la scienza aerospaziale e del giornalista e scrittore Raniero La
Valle, non ha avuto alcuna risonanza nella stampa quotidiana o
periodica. Pare che lo scoraggiamento prevalga sull’evidenza della tesi di fondo.
Se tutti sono moralmente d’accordo che è insensato pensare
all’Universo come res nullius, alla mercé della pirateria
transnazionale, l’idea di poter contrastare il saccheggio delle
risorse di comune pertinenza o di potersi opporre, tanto per fare un
altro esempio, all’utilizzo dello spazio esterno (outer space) per usi
militari o spionistici facendo ricorso ad una Authority per lo spazio o
a un Tribunale internazionale con poteri coercitivi, sembra
improponibile, proprio per la mancanza di forza da parte del diritto. La destinazione universale dei beni nelle religioni creazioniste Un contributo alla denuncia di questa situazione di impotenza di fronte
al «diritto di Brenno», potrebbe però venire da quella componente
dell’umanità che fa ricorso al linguaggio simbolico religioso. Sono soprattutto le grandi aree religiose creazioniste (ebraismo,
cristianesimo, Islam) che hanno, negli scritti che loro considerano
canonici, una dottrina germinale chiarissima sulla destinazione
universale dei beni del creato. La Bibbia propone la creazione di Adam come il coronamento della
creazione dell’Universo e come il conferimento di una autorità su di
esso. «Disse Dio: “Facciamo uomini a immagine nostra, secondo la
nostra somiglianza, dominino sui pesci del mare, sugli uccelli del
cielo, sul bestiame, su tutte le fiere della terra, e su tutti i rettili
che strisciano sulla terra”. Così creò Dio l’uomo a sua immagine,
a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò. E Dio li
benedisse e disse loro: “Siate fecondi, moltiplicatevi, riempite la
terra e soggiogatela. Dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del
cielo, e su tutti gli animali che si muovono sulla terra”. Disse Dio:
“Ecco io vi dò ogni graminacea che produce semenza su tutta la faccia
della terra, e ogni albero che dà frutti, in cui c’è il proprio
seme: questo sia il vostro cibo. A tutte le fiere della terra, a tutti
gli uccelli del cielo e a tutti gli animali che strisciano sulla terra,
in cui v’è principio vitale, io dò come cibo ogni verde erbaggio”.
E così fu. Vide Dio tutto ciò che aveva fatto: ed ecco, era molto
buono. Fu sera e fu mattino: giorno sesto» (Gen. 1, 26 – 31 da
Biblia Hebraica ed. Kittel, Alt, Eissfeldt, 1945. Trad. G. Von Rad,
Trad. it. Benedettine di Civitella san Paolo). Osserva Von Rad che il nome ebraico Adam è un collettivo e per questo
non viene mai usato al plurale. «Significa umanità». Lutero ne ha
avuto sentore e ha tradotto assai bene con Menschen, uomini, (G.
Von Rad, Genesi, Paideia. Brescia 1978). «L’uomo, – prosegue Von
Rad – nella sua somiglianza con Dio, è collocato sulla terra quale
segno della sovranità di Dio….l’essenza della sua somiglianza con
Dio sta quindi nella sua funzione sul mondo extraumano». Adam, secondo la Bibbia, è dunque un soggetto collettivo; i figli di
Adam sono banditi dal giardino di Eden per la disobbedienza al divino
comandamento ma non sono per questo esautorati dal loro compito di
governo del creato. Mancano al loro compito quando non procedono secondo
la volontà del Creatore. Lo nota Basilio Magno quando asserisce che i
pesci e i rettili, senza che vi siano barriere fra i loro territori e
senza che alcun geometra abbia distribuito loro i luoghi in cui abitare,
«non vanno ad occupare il posto di altre specie». «Noi invece non ci
comportiamo così, perché? Noi frazioniamo la terra, aggiungiamo casa a
casa e terra a terra, per togliere qualcosa al prossimo» (Basilio di
Cesarea, Sulla genesi, Omelie sull’Esamerone, A. Mondadori,
1999, Omelia VII, 4). Anche il Corano esprime la signoria di Adam su tutto il creato: «In
verità Iddio ha eletto Adamo e Noè e la gente di Abramo e la gente di
“Imran” [i cristiani] sovra tutto il creato, come progenie gli uni
degli altri, e Dio sa e ascolta» (Sura III, 33. Trad. di A. Bausani). Nella Sura del Misericordioso leggiamo: «Gli chiedono grazie coloro che
sono nei cieli e coloro che son sulla terra: ogni giorno Ei lavora a
opera nuova. Qual dunque dei benefici del Signore voi negherete?…O
accolta d’uomini e di ginn se potete penetrare oltre i confini
del cielo e della terra penetrate! Ma non vi penetrerete che per la
divina potenza. Qual dunque dei benefici del Signore voi negherete?» (Sura
LV, 29 – 30. 33). Le varie aree religiose hanno trovato, nell’elaborazione dottrinale
del principio, che tutta l’opera di Dio è affidata al genere umano,
diverse scappatoie per giustificare il divario profondo fra ricchi e
poveri. Nel cattolicesimo è diffusa la dottrina che in statu naturae
lapsae (nella condizione di natura decaduta a causa del peccato
originale) si è creata la divaricazione fra possidenti e poveri ma i
ricchi debbono considerarsi come amministratori dei bona pauperum (i
beni dei poveri). Il linguaggio è peraltro metaforico poiché nessuno
potrebbe mettere in dubbio che si possa licenziare un amministratore
qualora non si sia soddisfatti del suo operato, mentre nell’attuale
situazione politico/sociale i poveri devono vedere i loro beni
amministrati, e fra l’altro amministrati nel peggiore e nel più
cinico dei modi, senza alcun controllo da parte di coloro che ne sono
con-titolari. John Locke, nel Secondo Trattato sul Governo ammette, alla fine dei
conti, che le terre incolte non sono semplicemente res nullius, perché
affermando che coloro che lavorano le terre possono averle in proprietà,
perché riscattate dal lavoro, deve comunque porre due condizioni: 1°
– che resti altrettanta terra per gli altri e, 2° – che questa sia
della stessa qualità di quella passata in concessione privata. Questa condizione, indubbiamente ispirata dalla formazione puritana del
filosofo – detta fra i giuristi lockian provision – confessa che i
beni del creato, anche se incolti, non sono res nullius ma che vi sono
altri titolari rispetto a coloro che tramite l’investimento di
capitali, le tecnologie avanzate e il lavoro tendono ad appropriarsene
in assoluto. Nell’area religiosa dell’Islam uno dei pilastri della fede è il
principio che una parte dei proventi delle proprie attività lucrative
sia dovuta ai poveri, ai pellegrini e a coloro che lottano per
l’Islam. La sottolineatura del fatto che il conferimento di beni sia dovuto e non
sia un atto di carità supererogatoria, è necessaria per comprendere
che, anche nell’etica islamica, una titolarità verso i beni è
naturale. I beni comuni nella elaborazione delle donne Nell’ambito delle religioni creazioniste il Creatore e la creazione
appaiono espressi al maschile. Il testo del Genesi sopracitato, pur
rimanendo essenziale nella sua perentorietà, ha un linguaggio di tipo
patriarcale. È vero che Adam è un termine collettivo che si riferisce
al genere umano nella sua inclusione dell’uomo e della donna, ma il
vocabolario con cui si esprime il dominio sulla terra demandato ad Adam
è chiaramente patriarcale. «Le espressioni che designano questo
dominio – nota Von Rad – sono singolarmente forti: rada,
“entrare”, “calpestare” (ad es. il torchio), kebas, similmente
“conculcare”». La teologia femminista ha elaborato immagini diverse dal divino. «Come
madre creatrice e che dà vita a tutto ciò che è – scrive la teologa
Elisabeth A. Johnson – Dio ha a cuore il ben-essere del mondo intero,
i suoi sistemi di vita e tutti i suoi abitanti. Preservare le risorse e
le specie a rischio, riequilibrare giustamente le relazioni economiche,
ridistribuire equamente i beni, e bandire tutto ciò che danneggia e
contamina la creazione, sono attività umane che rendono presente
l’amore maternamente partecipe della sapienza» (cf. Colei che è,
1992, tr. it. Maria Sbaffi Girardet. Queriniana, Brescia, 1999, pag.
364). La Johnson prosegue poi riferendosi all’etica della cura di
Carol Gilligan che ha avuto ampio sviluppo in questi ultimi anni. Già in Farete riposare la terra, affermavo cose che non avrei avuto in
mente nel 1973. «Con la stessa intensità e perseveranza con cui, nel
corso del tempo, le donne sono state valide trasmettitrici dei valori
fondanti della conservazione della vita e della specie, oggi vogliono
farsi anche promotrici di un senso della cura e della conservazione del
pianeta per trasmetterlo alle generazioni future» (Farete riposare
la terra, n° 153). In Anche il cielo è di Dio il pensiero diventava più ampio e
articolato. Citavo Vandana Shiva, una delle pensatrici più autorevoli
dell’ecofemminismo, che afferma: «Non vi è nulla di rivoluzionario
nell’affermare che la donna e la natura sono profondamente legate.
Dopo tutto è stata precisamente questa idea a provocare il dominio su
entrambe» (pag. 66). La donna insegna all’uomo che il dominio sulla
terra si esercita entrandoci in punta di piedi e non calpestandola. Se la donna, nel corso della storia, ha avuto una sorta di delega alla
cura dei fanciulli, degli anziani, dei fragili a tutto scapito della sua
rilevanza sociale, è chiaro che oggi scoprendo la cura come dimensione
fondamentale della relazione con la natura, non debba prolungare questa
sudditanza, ma debba allargare la sensibilità verso la tenerezza e la
cura all’uomo. «Liberarsi da un passato non significa rimuoverlo o
cancellarlo. Se la donna ha elaborato, in una condizione di sudditanza
sociale, certe forme di identità che oggi si richiamano a una
“differenza”, non sarà positivo che utilizzi quanto ha elaborato
per giocare la partita di una liberazione simbiotica?» (Anche il
cielo è di Dio, pag. 64). E ancora: «Forse qualche cosa comincia a
muoversi quando l’uomo, superando il suo peccato originale, si decide
a scoprire dentro di sé la tenerezza che sempre si è negata per un
ottuso orgoglio» (Anche il cielo è di Dio, pag. 65).
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