Destinazione Universale dei beni comuni

  Giovanni Franzoni

Teologo

 

Il tema della destinazione universale dei beni del creato è una questione fondamentale.

Non si tratta di una riflessione semplicemente teorica, ma di affermare il diritto dei poveri a una condizione di vita libera e degna attingendo le proprie risorse dai beni dell’universo.

E’ necessario evidenziare le responsabilità dell’umanità intera, e di coloro che fanno riferimento alle religioni in particolare, di fronte al problema della fame, del sottosviluppo e della deprivazione di valori culturali che colpisce molte popolazioni della terra e segna pesantemente con lo stigma dell’emarginazione anche il nostro paese.

 

Diritto e filosofia del diritto

 Il fatto che le fonti del pensiero sulla destinazione universale dei beni siano religiose nulla toglie al rispetto dovuto al pensiero laico che ha cercato di fondare, con gli strumenti del pensiero filosofico prima e quindi con quelli del diritto internazionale, la stessa dottrina dei beni comuni – Global Public Goods (UNDP, Oxford University Press 1999) – definendo le risorse del pianeta, dello spazio esterno e dell’universo come res communis omnium (cosa comune di tutti) e non come res nullius (cosa di nessuno).

La differenza è sostanziale perché governare, utilizzare e salvaguardare una realtà di comune pertinenza suppone convenzioni internazionali, ratificate da tutti gli stati, pena una sanzione risarcitoria.

Se invece i beni non ancora in regime di proprietà privata o di sovranità nazionale fossero cosa di nessuno, potrebbe farsi valere il principio, che in effetti a tutt’oggi copre la pirateria nell’universo, res nullius est primi occupantis; la cosa di nessuno è del primo che la occupa di fatto.

In questo caso è evidente che i soggetti, Stati nazionali o grandi società multinazionali, che hanno le tecnologie ed i capitali per farlo, possono occupare, usare o anche danneggiare ciò che è diventato loro per occupazione.

Appellarsi al de jure predae di Grozio (antistite del giusnaturalismo nella prima metà del XVII secolo), per giustificare questo cinico pragmatismo è però una forzatura perché Grozio parla di diritto di preda – il cosiddetto bottino – all’interno dello jus pacis et belli. Per attualizzare un diritto di bottino o di predazione nel nostro tempo si dovrebbe ipotizzare uno stato di guerra indefinita nei tempi e indeterminata nei soggetti, che giustifichi l’appropriarsi della res nullius in base al diritto di bottino; curioso risarcimento per essere stati costretti ad una guerra che naturalmente il vincitore suppone giusta.

Che cosa succederebbe ai Musei Vaticani e a tutti i grandiosi Musei delle grandi città europee, se si rendesse retroattiva una legge sulla restituzione dei bottini di guerra o di dominazione?

Quando il diritto internazionale riuscirà, sotto la spinta dell’opinione pubblica internazionale e per la pressione dei movimenti contrari alla globalizzazione liberista del mercato e al saccheggio illimitato delle risorse, a ottenere dei patti universalmente riconosciuti e delle sedi giudiziarie capaci di farsi valere, potremo dire che la battaglia per la destinazione universale dei beni sia vinta o almeno in fase di concreto avvicinamento alla vittoria.

Un ostacolo al riconoscimento del diritto dell’umanità sui «beni comuni» viene indubbiamente dall’imperfetta elaborazione del concetto di «umanità», vagamente espresso recentemente quando si è parlato di «crimini contro l’umanità» non prescrivibili, ma ancora indeterminato sull’identità del soggetto di diritto perché non è chiaro se l’umanità abbia rappresentanza o non abbia una rappresentanza, perché non è un soggetto.

Un esempio di rivendicazione laica sul diritto a un bene comune è la battaglia del Gruppo di Lisbona, autorevolmente rappresentato da Riccardo Petrella, per un’equa e giusta utilizzazione dell’acqua. Il Gruppo di Lisbona, peraltro, non chiede benevolenza ma chiede un Patto sull’acqua accettato dai governi e ratificato dai parlamenti e un Tribunale dell’acqua che possa avere poteri reali.

Citando il secondo Forum mondiale dell’Aia (17-22 marzo 2001), Petrella afferma la necessità di distinguere, per quanto riguarda la risorsa «acqua», la nozione di bisogno da quella di diritto. «Tra queste due concezioni, bisogno e diritto – dice Petrella – esiste una differenza fondamentale: il concetto di diritto implica che la collettività riconosca che è sua responsabilità creare le condizioni – finanziarie, politiche e sociali, ecc. – affinché l’accesso all’acqua possa essere esercitato. Appartiene alla collettività l’obbligo di assicurare la soddisfazione di un diritto che è inerente all’essere umano e che non deve necessariamente essere “meritato”. Avere un diritto implica inoltre il dovere di far sì che anche gli altri possano godere dello stesso diritto. Quando invece parliamo di bisogno necessariamente passiamo a una concezione che implica la capacità del singolo di soddisfare il bisogno stesso. Non c’è nessuna responsabilità collettiva. C’è l’individuazione della responsabilità, in nome della responsabilizzazione dell’individuo».

Dovere dello stato è di creare le condizioni ai cittadini di esercitare la libertà per soddisfare i propri bisogni.

Quando l’individuo non può soddisfare il proprio bisogno, in assenza di un diritto, che darebbe luogo ad una giusta rivendicazione, c’è solo spazio per l’intervento umanitario e creativo.

Dire, ad esempio, che tutti hanno diritto all’accesso all’acqua – dovremmo dire a tutte le risorse che costituiscono i beni comuni dell’umanità – significa determinare una cittadinanza di tutti gli uomini e affermare l’umanità stessa come soggetto di diritto. Per questo il compito di chi lotta per il diritto di accesso alle risorse del pianeta sarà durissimo perché, senza negare la proprietà privata attualmente costituita, ne limita l’espansione per quanto dei beni comuni – common goods – è ancora fuori di ogni proprietà e di ogni sovranità, come i fondi oceanici, l’Antartide, lo spazio «esterno», la luna e altri corpi «celesti».

Rispetto al diritto all’acqua, peraltro, il diritto ai «beni comuni» non ancora attribuiti a proprietà privata o a sovranità statale, incontra nella sua definizione una difficoltà ulteriore. L’acqua infatti, come Petrella afferma e dimostra, è un bisogno vitale, individuale e collettivo. È quindi più facile aggregare le lotte rivendicative ed invocare una definizione equa. Non dovrebbe essere difficile affermare che l’accesso all’acqua deve passare da bisogno a diritto. Ma l’accesso alla luna e alle sue risorse minerarie è un bisogno? Per ora questo non appare.

Recentemente è stato denunciato un furto dai magazzini della NASA di minerali prelevati dal suolo lunare. Si tratta di una inutile bravata oppure di un furto di beni potenzialmente preziosi? Sono preziosi per la scienza e per la ricerca? Potranno divenire preziosi anche per future tecnologie sofisticate e lucrose? Si tratta di beni ottenuti ad opera di umano ingegno e quindi brevettabili e privatizzabili? Si tratta invece di beni di pertinenza dell’umanità intera il cui uso dovrebbe essere assoggettato al pagamento di canoni di concessione a vantaggio dell’umanità intera con la perequazione del «debito» internazionale che strangola le economie di molti paesi poveri? È lecito inquinare a piacimento lo spazio esterno o gli oceani con frammenti di satelliti artificiali in disgregazione oppure anche questo costituisce una lesione dei diritti fondamentali dell’umanità e in particolare delle generazioni future che si troveranno, oltre che un inquinamento della terra, del mare e dell’atmosfera, anche un inquinamento dello spazio?

Questi interrogativi non devono disarmare chi pone il problema della salvaguardia dei beni comuni e della possibile ricaduta economica, derivante da royalties sui beni minerari dei fondi oceanici o del sottosuolo lunare o sulle posizioni dei satelliti per le telecomunicazioni in orbita geostazionaria, in favore di un Fondo internazionale per lo sviluppo e per la perequazione del debito. Le Società multinazionali e i governi che sfruttano gratuitamente queste risorse comuni sono infatti in una posizione giuridica sostanzialmente debole: il vecchio adagio del diritto romano, del tutto superabile, che affermava che la cosa di nessuno era del primo occupante. Questo principio che poteva valere per il diritto romano, in quanto diritto non universale ma diritto dei romani, dopo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo (1948), non può avere altro valore che quello di una brutale affermazione della forza e del potere su qualsiasi diritto.

Ostacolo alla realizzazione di questa forma di accesso all’esercizio del diritto è la difficoltà a configurare l’umanità intera – all mankind – come soggetto di diritto. I paesi che più spregiudicatamente usano e abusano dei beni comuni, non ratificano le deliberazioni prese nelle Assemblee internazionali, proseguono nell’inquinamento e nella privatizzazione delle risorse della biosfera ed estendono allo spazio esterno e all’universo il loro dominio, difficilmente possono essere trascinati davanti a un Tribunale internazionale da un singolo paese o da una popolazione locale.

Una azione di questo genere potrebbe essere messa in atto solo da una Organizzazione rappresentativa dell’umanità intesa come soggetto di diritto. Ma questo è appunto l’anello che manca: l’umanità esiste solo nei linguaggi simbolici ma non è un soggetto perché non ha una rappresentanza e non ha una rappresentanza perché non è un soggetto.

 

Titolari di una eredità indivisa

Un’altra via per configurare nell’abuso dei beni comuni una lesione di un diritto potrebbe essere concepita utilizzando una nozione che già comprare negli scritti di alcuni giuristi ed economisti: common heritage.

Una parte dei beni e delle risorse dell’Universo sono già di pertinenza di privati, secondo l’istituto accuratamente organizzato della proprietà privata, altri sono frutto di invenzione dell’intelletto umano e sono tutelati nel regime dei brevetti, altri ancora sono sotto l’amministrazione ed il potere degli Stati nazionali e sono regolamentati dal diritto internazionale all’esterno e dal diritto civile e penale all’interno. Questa massa di beni e benefici non costituisce peraltro che la minima parte dei beni dell’Universo che restano invece eredità indivisa.

L’unità dell’umanità, in questo caso, non sarebbe ipotizzata al tavolino ma proverrebbe dalla contaminazione e dall’intreccio di culture millenarie. Mentre in tempi relativamente recenti l’invenzione dell’ingegno è tutelata per lunghi periodi dal sistema dei brevetti, restano irraggiungibili i soggetti che hanno fondato le basi della civilizzazione umana sul pianeta.

Impossibile brevettare la ruota o l’argano.

Dall’invenzione della ruota all’argano, dalla domesticazione del bue alle tecniche per la conservazione del cibo, dall’arte della pesca e della navigazione all’arte della costruzione di abitazioni, dalla fionda alla balestra, dalla scrittura alla musica, le tecniche inventate nelle più diverse aree culturali sono un patrimonio di comune pertinenza che costituisce il fondamento di ogni ulteriore produzione dell’ingegno umano.

Questo debito millenario costituisce il fondamento dell’unità dell’umanità presente e della sua responsabilità verso l’umanità del futuro. Questo debito delle donne e degli uomini di scienza e delle arti costituisce l’eredità indivisa che trasforma i soggetti umani, anche i più umili e i più poveri, in creditori. Creditori perché eredi.

In questo caso non ci sarebbe bisogno di costituire l’umanità intera come soggetto di diritto ma qualsiasi soggetto giuridico, anche individuale, avendone i mezzi, potrebbe accusare di appropriazione indebita colui che si appropria di una parte dell’eredità indivisa o la devasta o la usa contro di lui. Saremmo come nel caso di un minore che, essendo sotto tutela e non potendo usare della massa di beni di cui è titolare, parzialmente o in toto, ha comunque diritto a una sospensiva finché l’eredità indivisa non venga organizzata e partecipata senza lesioni del diritto di alcuno avente titolo.

Una dottrina di questo tipo dovrebbe dar luogo ad una moratoria sull’utilizzo delle risorse comuni attualmente fuori dal regime della proprietà privata, della proprietà derivata dall’ingegno e dalla sovranità degli Stati (fondi oceanici, energia geotermica, Antartide ecc.) o dei corpi nello spazio e dei campi gravitazionali ed elettromagnetici da essi creati.

In alternativa alla moratoria, che avrebbe lo svantaggio di bloccare la ricerca scientifica, dovrebbero accumularsi delle risorse fruibili da quei soggetti che al presente non sono in grado di utilizzare ciò che comunque loro virtualmente appartiene. Da qui l’idea che per accedere a corpi celesti come la luna e prelevarne minerali o per mettere in orbita geostazionaria dei satelliti per le telecomunicazioni, si debba pagare un canone di concessione confluente in un Fondo per la compensazione del Debito verso il sistema bancario che molti paesi hanno contratto e che strangola le loro economie.

Idea che finora nessuno ha contestato ma che è rimasta allo stato di intuizione e attende di essere valutata e approfondita da giuristi ed economisti.

Il Convegno sul tema Risorse del pianeta e dello spazio: beni comuni. Nuovi diritti e credito dei poveri, promosso il 9/10 marzo del 2002 dalla Fondazione internazionale «Lelio e Lisli Basso» e tenuto preso la Facoltà valdese di Roma, nonostante la co-promozione di organismi importanti come la Fondazione Balducci, la rivista Nigrizia, la Fondazione Lelio e Lisli basso, l’A.R.C.O., l’Associazione per la ricerca e la comunicazione e la Scuola «Vasti, che cos’è umano», e nonostante la partecipazione di illustri giuristi come Salvatore Senese, Luigi Ferraioli e Daniele Archibugi, di economisti come Bruno Amoroso, Riccardo Petrella, José Esquinas e Gianni Rognoni, di Filippo Graziani per la scienza aerospaziale e del giornalista e scrittore Raniero La Valle, non ha avuto alcuna risonanza nella stampa quotidiana o periodica.

Pare che lo scoraggiamento prevalga sull’evidenza della tesi di fondo. Se tutti sono moralmente d’accordo che è insensato pensare all’Universo come res nullius, alla mercé della pirateria transnazionale, l’idea di poter contrastare il saccheggio delle risorse di comune pertinenza o di potersi opporre, tanto per fare un altro esempio, all’utilizzo dello spazio esterno (outer space) per usi militari o spionistici facendo ricorso ad una Authority per lo spazio o a un Tribunale internazionale con poteri coercitivi, sembra improponibile, proprio per la mancanza di forza da parte del diritto.

 

La destinazione universale dei beni nelle religioni creazioniste

Un contributo alla denuncia di questa situazione di impotenza di fronte al «diritto di Brenno», potrebbe però venire da quella componente dell’umanità che fa ricorso al linguaggio simbolico religioso.

Sono soprattutto le grandi aree religiose creazioniste (ebraismo, cristianesimo, Islam) che hanno, negli scritti che loro considerano canonici, una dottrina germinale chiarissima sulla destinazione universale dei beni del creato.

La Bibbia propone la creazione di Adam come il coronamento della creazione dell’Universo e come il conferimento di una autorità su di esso. «Disse Dio: “Facciamo uomini a immagine nostra, secondo la nostra somiglianza, dominino sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le fiere della terra, e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. Così creò Dio l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò. E Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi, moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela. Dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, e su tutti gli animali che si muovono sulla terra”. Disse Dio: “Ecco io vi dò ogni graminacea che produce semenza su tutta la faccia della terra, e ogni albero che dà frutti, in cui c’è il proprio seme: questo sia il vostro cibo. A tutte le fiere della terra, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali che strisciano sulla terra, in cui v’è principio vitale, io dò come cibo ogni verde erbaggio”. E così fu. Vide Dio tutto ciò che aveva fatto: ed ecco, era molto buono. Fu sera e fu mattino: giorno sesto» (Gen. 1, 26 – 31 da Biblia Hebraica ed. Kittel, Alt, Eissfeldt, 1945. Trad. G. Von Rad, Trad. it. Benedettine di Civitella san Paolo).

Osserva Von Rad che il nome ebraico Adam è un collettivo e per questo non viene mai usato al plurale. «Significa umanità». Lutero ne ha avuto sentore e ha tradotto assai bene con Menschen, uomini, (G. Von Rad, Genesi, Paideia. Brescia 1978). «L’uomo, – prosegue Von Rad – nella sua somiglianza con Dio, è collocato sulla terra quale segno della sovranità di Dio….l’essenza della sua somiglianza con Dio sta quindi nella sua funzione sul mondo extraumano».

Adam, secondo la Bibbia, è dunque un soggetto collettivo; i figli di Adam sono banditi dal giardino di Eden per la disobbedienza al divino comandamento ma non sono per questo esautorati dal loro compito di governo del creato. Mancano al loro compito quando non procedono secondo la volontà del Creatore. Lo nota Basilio Magno quando asserisce che i pesci e i rettili, senza che vi siano barriere fra i loro territori e senza che alcun geometra abbia distribuito loro i luoghi in cui abitare, «non vanno ad occupare il posto di altre specie». «Noi invece non ci comportiamo così, perché? Noi frazioniamo la terra, aggiungiamo casa a casa e terra a terra, per togliere qualcosa al prossimo» (Basilio di Cesarea, Sulla genesi, Omelie sull’Esamerone, A. Mondadori, 1999, Omelia VII, 4).

Anche il Corano esprime la signoria di Adam su tutto il creato: «In verità Iddio ha eletto Adamo e Noè e la gente di Abramo e la gente di “Imran” [i cristiani] sovra tutto il creato, come progenie gli uni degli altri, e Dio sa e ascolta» (Sura III, 33. Trad. di A. Bausani).

Nella Sura del Misericordioso leggiamo: «Gli chiedono grazie coloro che sono nei cieli e coloro che son sulla terra: ogni giorno Ei lavora a opera nuova. Qual dunque dei benefici del Signore voi negherete?…O accolta d’uomini e di ginn se potete penetrare oltre i confini del cielo e della terra penetrate! Ma non vi penetrerete che per la divina potenza. Qual dunque dei benefici del Signore voi negherete?» (Sura LV, 29 – 30. 33).

Le varie aree religiose hanno trovato, nell’elaborazione dottrinale del principio, che tutta l’opera di Dio è affidata al genere umano, diverse scappatoie per giustificare il divario profondo fra ricchi e poveri. Nel cattolicesimo è diffusa la dottrina che in statu naturae lapsae (nella condizione di natura decaduta a causa del peccato originale) si è creata la divaricazione fra possidenti e poveri ma i ricchi debbono considerarsi come amministratori dei bona pauperum (i beni dei poveri). Il linguaggio è peraltro metaforico poiché nessuno potrebbe mettere in dubbio che si possa licenziare un amministratore qualora non si sia soddisfatti del suo operato, mentre nell’attuale situazione politico/sociale i poveri devono vedere i loro beni amministrati, e fra l’altro amministrati nel peggiore e nel più cinico dei modi, senza alcun controllo da parte di coloro che ne sono con-titolari.

John Locke, nel Secondo Trattato sul Governo ammette, alla fine dei conti, che le terre incolte non sono semplicemente res nullius, perché affermando che coloro che lavorano le terre possono averle in proprietà, perché riscattate dal lavoro, deve comunque porre due condizioni: 1° – che resti altrettanta terra per gli altri e, 2° – che questa sia della stessa qualità di quella passata in concessione privata.

Questa condizione, indubbiamente ispirata dalla formazione puritana del filosofo – detta fra i giuristi lockian provision – confessa che i beni del creato, anche se incolti, non sono res nullius ma che vi sono altri titolari rispetto a coloro che tramite l’investimento di capitali, le tecnologie avanzate e il lavoro tendono ad appropriarsene in assoluto.

Nell’area religiosa dell’Islam uno dei pilastri della fede è il principio che una parte dei proventi delle proprie attività lucrative sia dovuta ai poveri, ai pellegrini e a coloro che lottano per l’Islam.

La sottolineatura del fatto che il conferimento di beni sia dovuto e non sia un atto di carità supererogatoria, è necessaria per comprendere che, anche nell’etica islamica, una titolarità verso i beni è naturale.

 

I beni comuni nella elaborazione delle donne

Nell’ambito delle religioni creazioniste il Creatore e la creazione appaiono espressi al maschile. Il testo del Genesi sopracitato, pur rimanendo essenziale nella sua perentorietà, ha un linguaggio di tipo patriarcale. È vero che Adam è un termine collettivo che si riferisce al genere umano nella sua inclusione dell’uomo e della donna, ma il vocabolario con cui si esprime il dominio sulla terra demandato ad Adam è chiaramente patriarcale. «Le espressioni che designano questo dominio – nota Von Rad – sono singolarmente forti: rada, “entrare”, “calpestare” (ad es. il torchio), kebas, similmente “conculcare”».

La teologia femminista ha elaborato immagini diverse dal divino. «Come madre creatrice e che dà vita a tutto ciò che è – scrive la teologa Elisabeth A. Johnson – Dio ha a cuore il ben-essere del mondo intero, i suoi sistemi di vita e tutti i suoi abitanti. Preservare le risorse e le specie a rischio, riequilibrare giustamente le relazioni economiche, ridistribuire equamente i beni, e bandire tutto ciò che danneggia e contamina la creazione, sono attività umane che rendono presente l’amore maternamente partecipe della sapienza» (cf. Colei che è, 1992, tr. it. Maria Sbaffi Girardet. Queriniana, Brescia, 1999, pag. 364). La Johnson prosegue poi riferendosi all’etica della cura di Carol Gilligan che ha avuto ampio sviluppo in questi ultimi anni.

Già in Farete riposare la terra, affermavo cose che non avrei avuto in mente nel 1973. «Con la stessa intensità e perseveranza con cui, nel corso del tempo, le donne sono state valide trasmettitrici dei valori fondanti della conservazione della vita e della specie, oggi vogliono farsi anche promotrici di un senso della cura e della conservazione del pianeta per trasmetterlo alle generazioni future» (Farete riposare la terra, n° 153).

In Anche il cielo è di Dio il pensiero diventava più ampio e articolato. Citavo Vandana Shiva, una delle pensatrici più autorevoli dell’ecofemminismo, che afferma: «Non vi è nulla di rivoluzionario nell’affermare che la donna e la natura sono profondamente legate. Dopo tutto è stata precisamente questa idea a provocare il dominio su entrambe» (pag. 66). La donna insegna all’uomo che il dominio sulla terra si esercita entrandoci in punta di piedi e non calpestandola.

Se la donna, nel corso della storia, ha avuto una sorta di delega alla cura dei fanciulli, degli anziani, dei fragili a tutto scapito della sua rilevanza sociale, è chiaro che oggi scoprendo la cura come dimensione fondamentale della relazione con la natura, non debba prolungare questa sudditanza, ma debba allargare la sensibilità verso la tenerezza e la cura all’uomo. «Liberarsi da un passato non significa rimuoverlo o cancellarlo. Se la donna ha elaborato, in una condizione di sudditanza sociale, certe forme di identità che oggi si richiamano a una “differenza”, non sarà positivo che utilizzi quanto ha elaborato per giocare la partita di una liberazione simbiotica?» (Anche il cielo è di Dio, pag. 64). E ancora: «Forse qualche cosa comincia a muoversi quando l’uomo, superando il suo peccato originale, si decide a scoprire dentro di sé la tenerezza che sempre si è negata per un ottuso orgoglio» (Anche il cielo è di Dio, pag. 65).

Forse, nell’elaborazione delle donne nasceranno indicazioni determinanti per realizzare quel nuovo nomos su cui ci chiama a riflettere Raniero La Valle nella sua rilettura de La terra è di Dio.

 

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