Dal
‘bene comune’ ai ‘beni comuni’. Un
modello di analisi e un bene fondamentale: l’acqua. Dal
‘bisogno’ al ‘diritto’. Riccardo
Petrella[1]
Coordinatore dei comitati Nazionali per il contratto Mondiale
dell’Acqua Università di Leveun e Bruxelles (Belgio) Sintesi La privatizzazione dell’acqua è
il paradigma di tutta una serie di fenomeni ed eventi, accaduti negli
ultimi venti anni, che hanno fatto sì che il nostro vivere insieme
passasse da una forma di organizzazione del bene comune - articolato
in tutta una serie di beni e di servizi comuni, materiali e
immateriali - ad una società che non conosce la cultura del bene
comune e si rifiuta anzi di riconoscere che i propri membri possano
condividere un certo numero di beni e servizi. Una volta che abbiamo
privatizzato le funzioni bancarie, le forme di assicurazione, i
meccanismi finanziari, le sementi presenti in natura, il suolo, ecc.
non siamo più né gestori né proprietari di alcun bene d’interesse
generale. E se non abbiamo più niente in comune, come possiamo fare
società? Il bene comune è qull’insieme di leggi, istituzioni,
risorse, che consentono ad un gruppo di persone di creare le
condizioni affinché i membri della comunità abbiano diritto alla
vita e possano salvaguardare il vivere insieme. Si fonda su tre
principi: nessuno ha il diritto di essere povero, tutti sono uguali in
relazione al diritto di cittadinanza, la sovranità è del cittadino. Le nostre società invece chiamano
perdenti i poveri e fanno della sovranità prerogativa dei consumatori
e non dei cittadini. Oggi, la democrazia mondiale si fonda sul consumo
e sull’affermazione della negoziazione diffusa. Il consumatore, si
dice, attua in una forma più avanzata di democrazia, in quanto vota
ogni volta che acquista, e acquista sul mercato mondiale. Il diritto
è creato dall’incontro-scontro, dalle convergenze e dagli accordi
negoziati fra i soggetti interessati, la ‘soft law’ si fa strada a
scapito dell’applicazione del diritto costituzionale e delle leggi
votate dai parlamenti, e la ‘governance’ sostituisce l’idea di
governo. Solo l’11% di popolazione che consuma, vive insomma in una
condizione di eguaglianza e democrazia, l’89% della popolazione
mondiale, che partecipa solo per il 12% ai consumi totali, ne è
fuori. E, parimenti, solo gli attori dotati di un certo peso e di
mezzi per affermare e difendere i propri interessi possono spingere le
controparti ad un accordo. Nelle nostre società di un tempo
attraverso le tasse si valorizzava il capitale sociale comune; le
tasse ci permettevano di fare investimenti comuni. La funzione
allocativa attuale è finalizzata al rendimento efficace del capitale,
non alla distribuzione.Oggi si accetta che l’investimento privato
sia l’unico motore dello sviluppo economico e sociale. Per il
capitale, il lavoro e lo Stato rappresentano dei costi, e la loro
minimizzazione diviene una finalità logica. Ci avevano detto che l’acqua è un bene comune.
Eppure, ben 118 governi riuniti all’Aja, in occasione del secondo
Forum Mondiale dell’Acqua, hanno sottoscritto un documento che nega
all’acqua la qualificazione di bene comune e di patrimonio
dell’umanità dichiarandola un bene economico, e che dichiara che
l’accesso all’acqua non deve essere più considerato un diritto
collettivo umano, sociale e individuale, ma un bisogno vitale.
L’accesso all’acqua non è più un diritto attribuito alla persona
in modo originario, innegabile e inalienabile, e una responsabilità
collettiva, ma un bisogno variabile, a cui ognuno deve provvedere per
sé e che può sempre essere soddisfatto pagando. Ogni giorno muoiono
30.000 persone a causa di malattie dovute alla mancanza di acqua
potabile. Un parallelo acqua-democrazia non è per nulla infondato o
astratto: l’acqua svela i grandi buchi, le lacune della nostra
democrazia. Io
vorrei parlare non tanto dell’acqua, quanto prendere l’acqua come
esempio di tutta una serie di fenomeni ed eventi che sono accaduti
negli ultimi venti o venticinque anni, e come punto di partenza per
prendere in esame, sia pure molto sinteticamente, un’altra serie di
fatti che si verificheranno nei prossimi venti anni. In fondo mi è stato proposto di illustrare come sia avvenuto che il
nostro mondo sia passato da una forma di organizzazione del bene
comune – articolato in tutta una serie di beni e di servizi comuni
materiali e immateriali – ad una società che non conosce la cultura
del bene comune e si rifiuta addirittura di riconoscere che i membri
di una comunità possano condividere un certo numero di beni e
servizi. Diciamolo subito: l’analisi della realtà in cui viviamo,
ci porta a chiederci come possiamo ancora fare società. Infatti, se
continuiamo – tanto per fare un esempio – a privatizzare, come
abbiamo fatto, tutte le funzioni bancarie, tutte le forme di
assicurazione, tutti i meccanismi finanziari, e quindi non abbiamo
più meccanismi di governo (e di proprietà pubblica) di quote di
capitali, quale potrà essere la conseguenza? Se privatizziamo anche
le sementi presenti in natura, se privatizziamo il suolo, se
privatizziamo energie come l’elettricità e il gas naturale, dove
pensiamo di arrivare? Stiamo privatizzando gli ospedali, abbiamo
privatizzato la vecchiaia (perché ormai ciascuno deve avere la
pensione per mezzo di una previdenza individuale), privatizziamo
scuola, prigioni, controllo aereo; potremmo privatizzare anche la
magistratura e continuare col dire che ormai avrebbe un senso
prevedere anche la privatizzazione dell’esercito: ebbene, una volta
che abbiamo privatizzato tutto (e siamo già dentro questa logica) che
cosa abbiamo più in comune? Se non siamo più né gestori né
proprietari di alcun bene di interesse generale, vengono a cadere
tutti i legami, perché non abbiamo più niente in comune. É qui che
si radica il problema del bene comune. Infatti, se non abbiamo più
niente in comune, perché facciamo società? Torno a chiedere:
com’è possibile fare società se non abbiamo più niente in comune?
Se si analizza tutto questo si può dire che siamo nel mezzo
dell’esplosione dei corporativismi individuali e degli interessi
settoriali, con la pretesa di ciascuno di essere portatore di una
sovranità e di affermare l’universalità specifica. L’interesse
dell’agricoltore è universale e specifico, e tale è l’interesse
del pensionato o quello dell’azionista, ma non l’interesse del
consumatore. Ognuno di quegli interessi è affermato come struttura di
valorizzazione unica e di legittimazione ad un comportamento. Allora
anch’io come consumatore sono sollecitato a comportarmi in modo
coerente, perché il mio interesse di consumatore è di minimizzare i
costi di beni e servizi che mi interessa acquistare, massimizzando i
benefici che ne ricavo e rimandando alla collettività i costi che non
posso direttamente prendere a mio carico. Diciamo allora, che questo
è il problema. Come siamo giunti alla situazione di oggi? Per saperlo bisognerebbe
svolgere, non tanto un’introduzione teorica, quanto piuttosto
un’analisi pratica. Ancora quindici o venti anni fa - non è facile fissare riferimenti
temporali precisi - tutti noi vivevamo con molti limiti, nella
certezza che una società, proprio in quanto tale, dovrebbe essere
effettivamente fondata sul bene comune. C’erano principi,
istituzioni, risorse e mezzi che definivano sul piano pratico l’idea
del bene comune. In fondo il bene comune è, per l’appunto, questo
insieme di leggi, istituzioni, risorse, che consentono ad un gruppo di
persone, anche molto ampio, di creare le condizioni affinché i membri
della comunità abbiano diritto alla vita e possano salvaguardare il
vivere insieme. Ecco il principio del bene comune. Questo principio
consiste in sostanza, nel fatto che nessuno ha il diritto di essere
povero, cioè lo status teoricamente giusto dell’individuo non può essere quello
di non avere la capacità di sostenere il proprio diritto alla vita.
Quindi, si era pensato, ciascuno ha diritto all’alimentazione,
all’acqua, all’abitazione, all’educazione e così via. Oggi invece abbiamo nel mondo un miliardo e cinquecento milioni di
persone che non ha accesso all’acqua, e questo accesso è loro
negato in modo totale. Così, rispetto al principio del bene comune,
secondo cui nessuno ha il diritto di essere povero, oggi sono in molti
ad accettare quasi con passività o ineluttabilità il fatto che il
diritto alla vita non appartenga a tutti; e, se vogliamo dare uno
sguardo d’insieme e formulare una previsione immediata, possiamo
ammettere che molti, forse moltissimi di noi, pensano che fra
vent’anni non sarà possibile che, con oltre otto miliardi di
persone sul nostro pianeta, il diritto alla vita sia esteso a tutti.
Questo è un dato di fatto: riconosciamo che viviamo in una società
in cui non tutti avranno il diritto alla vita, per tante ragioni. Invece il principio del bene comune è che nessuno debba, di diritto,
essere povero. Un secondo principio del bene comune, praticato ancora quindici o venti
anni fa in talune società occidentali, è che tutti sono uguali in
relazione al diritto di cittadinanza. Si era così tentati di
costruire delle società in cui vi fosse compresenza dei diritti di
cittadinanza civile, cittadinanza sociale, cittadinanza politica,
cioè l’insieme di tutti i diritti sociali e politici necessari per
considerarci tutti uguali. Quello dell’uguaglianza è stato uno dei
principi fondatori di una società che
si poneva la prospettiva di realizzare il bene comune. Che cosa dice invece, oggi, il presidente degli Stati Uniti, Bush? Dice
che è vero, ci sono nell’Unione quarantadue milioni di poveri, che
purtroppo non sono competitivi, non sono qualificati, non hanno voluto
sollevarsi, non sono dei winners,
non sono stati capaci di affermarsi. Perché nella vita ci sono winners e ci sono loosers.
Non è a causa nostra che esistono quarantadue milioni di perdenti: è
colpa loro; tutt’al più se ne può avere compassione. Sul piano
della compassione questi uomini possono essere affidati alle cure
delle organizzazioni caritatevoli; non è compito dello Stato
occuparsi di loro. Ed è così che sono state eliminate tutte le forme
istituzionali dell’assistenza sociale. Tutto è stato devoluto alle
organizzazioni caritatevoli e alle chiese. Questi sono i primi due principi su cui riposa il bene comune. C’è
però anche un terzo principio, ed è la sovranità del cittadino. Non
la sovranità del popolo, ma proprio del cittadino. E’ vero che
l’organizzazione politica e statuale delle nostre società è
fondata sul principio che i cittadini sono sovrani, ma noi oggi
affermiamo una cosa diversa, e cioè che la sovranità è anche una
prerogativa dei consumatori. Vuoi impedire alla Shell di lasciare in
mare la piattaforma petrolifera? Ma cosa vuoi fare? Vuoi rivolgerti ai
rappresentanti parlamentari, presentare delle petizioni? Puoi farlo,
ma magari il tuo parlamentare è sensibile alle motivazioni della
Shell. Come cittadino non puoi fare nulla. Però se, nella tua veste
di consumatore, acquisti o non acquisti benzina Shell, allora sì che
puoi avere la possibilità di farti sentire, e la Shell ti ascolterà
proprio in quanto consumatore. Ecco perché si dice che possiamo
essere potenti come consumatori e noi tutti accettiamo di non essere
più cittadini, ma consumatori. Allo stesso modo, se siamo azionisti,
in questa veste possiamo minacciare la compagnia che riteniamo non
corretta, per esempio la Shell o la Total o la Monsanto, dicendo, a
seconda dei casi: “io ritiro la mia quota”, oppure “adopererò
in un certo modo le mie azioni”. E sarà chiaro che abbiamo un certo
potere. Mentre il cittadino che si rivolge al Parlamento chiedendo di
emanare una legge, non riuscirà a creare alcun motivo di
preoccupazione per queste compagnie. Ecco perché c’è chi crede di poter parlare di sovranità del
consumatore, sostenendo che in quanto tale egli è re, ed attua in una
forma più avanzata di democrazia, in quanto vota ogni volta che
acquista. Si dice: se compri una Fiat piuttosto che una Volkswagen,
hai votato affinché le risorse nel mondo vengano allocate in un modo
piuttosto che un altro, e questa sarebbe la forma più avanzata di
democrazia, perché si vota continuamente. Ma che bella democrazia! E tutti coloro che non possono consumare, visto
che l’11% della popolazione del mondo (che comprende anche noi)
realizza l’86% del consumo mondiale? Allora siamo solo noi, questo
11% di popolazione che consuma, a vivere in una condizione di
eguaglianza, a fruire di una situazione di democrazia, mentre l’89%
della popolazione mondiale, che partecipa solo per il 12% ai consumi
totali, ne è fuori. Ancora una volta torna in primo piano il
principio del bene comune, che forse chiama in causa le istituzioni.
Queste ultime si configuravano come stato di diritto, fondato su una
legge che permane nel tempo e si impone ugualmente a tutti. Oggi,
invece, cosa sta succedendo? Stiamo mettendo in campo e promuovendo le
soft laws. Soft law significa
“diritto leggero”, una legislazione leggera, che lascia da parte
la hard law, cioè la costituzione, le leggi votate dai Parlamentari e
promulgate per tutti. Soft law significa
che un attore dotato di un certo peso dice ad una o più delle sue
controparti: “guardate, è bene che noi ci mettiamo d’accordo”.
Cioè si lascia agli stessi attori il potere di decidere. Non esistono
più schemi di riferimento rigidi, precostituiti per tutti, cioè
leggi universali che si applicano a tutti e durano nel tempo (magari
solo venti anni, o cinquanta, ma durano), No: si lascia che il diritto
sia creato dall’incontro–scontro, dalle convergenze e dagli
accordi negoziati fra i soggetti interessati. Ecco perché siamo stati
chiamati tutti stake-holders.
L’istituzione presso cui lavoro, la Commissione Europea, in questi
ultimi anni ha preso l’abitudine di convocare delle riunioni che
chiama “stakeholders meetings”. Stake-holders
significa “portatori d’interesse”, un calco linguistico che
ricorda gli share-holders,
cioè i “portatori di azioni”, gli azionisti delle società. E
allora qual è il problema? Perché imporre regole di comportamento?
Facciamo sedere attorno a un tavolo questi stakeholders,
che decidano loro! Ecco perché si parla oggi di governance
e non si parla più di “governo”. Governance
significa la diffusione dei processi decisionali attraverso le reti di
coloro che sono considerati portatori di interessi, e, siccome tutti
sono riconosciuti come tali, e tutti devono avere l’opportunità di
massimizzare il proprio interesse, la migliore soluzione è quella che
siano i diretti interessati, gli stakeholders
appunto, a dare le indicazioni dal basso, secondo un indirizzo
spontaneo. Così la governance
sostituisce il “governo”. Ma la governance non può
avere regole fisse, durature nel tempo, quanto la legge consolidata,
la hard law; essa è infatti
soft law. Ed ecco perché,
per esempio, quando c’è un problema di ambiente, ci si rivolge a
quel certo gruppo stakeholders
e non si adottano regole di governo. Si dice: fate il vostro codice,
diamo fiducia all’autoregolazione del gruppo dei portatori
d’interessi. Ecco perché ormai accettiamo che siano le imprese a
fare il codice di condotta del lavoro, il codice di condotta
commerciale, e così via: così abbiamo auto-regole, auto-discipline,
auto-leggi: questa è la soft
law. Perché
la giurisdizione corrente delle
società americane si risolve fra avvocati? Perché questa è la
massima espressione della soft
law, questo contrattualismo generalizzato fra i portatori di
interesse è considerato oggi la fonte principale di attività. Ecco
perché sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea, difendono il
concetto-cardine dell’Organizzazione Mondiale del Commercio che si
presenta come una struttura basata sul consenso, sulla partecipazione,
sul negoziato: si pensa che occorra questo, una regola partecipata; ed
ecco allora i cicli di negoziati. Si ha in mente un negoziato
continuo, con l’idea che domani posso mettere in discussione il
negoziato che ho concluso ieri. E ciò spiega anche perché i
negoziati, come quelli che si svolgono presso l’OMC (Organizzazione
Mondiale per il Commercio), siano considerati migliori delle regole
intergovernative multilaterali, come quelle che vigono in ambito ONU o
in altre strutture rigide. Mentre invece la tipologia degli accordi,
che si definiscono in organismi quali: l’OMC, la Banca Mondiale e il
Fondo Monetario Internazionale, ha sempre come base il consenso. E per
questo tali organismi vengono considerati “grandi democrazie
mondiali”. Dunque l’OMC sarebbe la più grande democrazia mondiale
in quanto fondata sul consenso! Dunque senza accordo fra le parti ci
sarebbe carenza di democrazia e uno stato di diritto imperfetto. In passato si parlava di democrazia economica, quale processo di
aggregazione e concertazione sociale, e di democrazia politica, il
sistema di democrazia rappresentativa con le sue modalità di
elezione, referendum e così via. Oggi abbiamo una democrazia di market.
Si dice che la migliore forma di democrazia sia quella diretta, che ad
esempio si realizza nel mercato: quando scegli, tu sei! Ecco perché
in questo nostro global system,
la democrazia diventa mondiale, ecco perché la sovranità nazionale
non ha più valore, la sovranità del cittadino si estende al mondo
intero: in quanto consumatore, è inserito nel global
system, partecipa al sistema mondiale. Egli allora è cittadino di un mondo complesso e diversificato: la pizza
gli viene preparata in Francia in 337 modi diversi, l’automobile
viene prodotta con pezzi provenienti da varie parti del pianeta ed è
venduta in tutto il mondo. Ti do la global-card,
e la faccio in modo che sia solo tua, e che l’automobile che
acquisti risulti con chiarezza comprata da te, e così via. Ecco
allora che la sovranità nazionale viene superata, aggirata, ed ecco
che il market senza confini
resta il solo elemento di riferimento. A questo punto cominciamo a distinguere il market dal no-market. Per
esempio, tornando sul tema specifico dell’acqua, consideriamo il
caso dell’acqua minerale: la beviamo, ma non c’è nessuno che si
batta per un ipotetico diritto di averla. E che differenza c’è tra
l’acqua potabile e l’acqua minerale? Se posso comprare al
supermercato l’acqua minerale, perché non dovrei comprare domani
anche l’acqua del rubinetto? E che differenza c’è tra l’acqua
minerale e quella del rubinetto? Così diventa evanescente la
caratteristica di no-market
per l’acqua, un bene enorme al quale ormai si accosta il concetto di
market. Vediamo che la
frontiera tra market e no-market diventa sempre più esile, fino a sparire. Tra l’altro
la stessa distinzione tra market
e no-market è già una
vittoria del market, in
quanto tutto è definito con riferimento al market
e, solo successivamente, si cerca di stabilire ciò che resta
fuori del mercato. Insomma, abbiamo operato nel tempo tutta una serie di cambiamenti che
hanno distrutto i fondamenti delle istituzioni. I mezzi di cui
disponevamo erano le risorse che avevamo in comune: i beni comuni, ed
è su questa condivisione che si fondavano le istituzioni. Tra i beni
comuni, se ne distinguevamo alcuni che avevano anche la caratteristica
di essere pubblici. Definendoli pubblici si intendeva che proprietà,
gestione e cura di tali beni dovessero essere definite come
prerogativa esclusiva e responsabilità primaria delle istituzioni
pubbliche: vale a dire, dei soggetti pubblici preposti a garantire il
bene comune. Quanto alle risorse, il sistema poggiava su alcuni fondamenti fra cui
uno considerato molto importante: il lavoro umano. Fino ad una
quindicina di anni fa, quest’ultimo era definito come la principale
fonte di produzione capace di creare ricchezza: tutti noi pensavamo
che il lavoro umano fosse la principale fonte di ricchezza.
Coerentemente con questa impostazione, abbiamo basato il nostro
sistema economico sulla priorità del lavoro, sul pieno utilizzo di
esso, sulla piena occupazione, fondando su questo assioma il nostro
sistema normativo, fiscale, previdenziale, in modo da coprire tutte le
spese relative al lavoro: sicurezza sociale, pensioni e così via. Il welfare,
in una parola. Ed era un’affermazione incontestata e incontestabile,
tanto che la Costituzione italiana dichiara solennemente che il nostro
paese è una “Repubblica fondata sul lavoro”. Dando credito a questa impostazione, dobbiamo avere invece commesso un
grave errore, perché attualmente consideriamo che non sia il lavoro,
ma il capitale, la principale fonte con cui si crea ricchezza. Ora il
lavoro è diventato un costo per il capitale; e si deve ridurre il
costo del lavoro per massimizzare il ritorno sul capitale stesso. Se
si assume il capitale quale principale fonte che produce ricchezza,
tutto il resto diventa un ostacolo, un vincolo, un costo. Allora non
si può dire che siamo una Repubblica fondata sul lavoro e si spiega
la battaglia dei portatori di capitale per eliminare uno degli
elementi caratteristici della legge conosciuta come lo “Statuto dei
Lavoratori”, cioè quell’articolo 18 di cui si è tanto discusso. Si vede chiaramente che lo stesso Stato diviene un costo. Ecco che
allora il capitale mette in concorrenza gli Stati, affinché essi
diminuiscano le tasse che rappresentano un costo per la sua attività
produttiva. Ecco che il capitale si sposta e si trasferisce da un
Paese all’altro, cercando lo Stato che abbia il minor costo fiscale.
Ecco perché i portatori di capitale dicono allo Stato (e molti
ripetono): sei bravo se consenti di massimizzare il rendimento degli
impieghi del capitale, anzi la tua funzione fondamentale è quella di
creare le condizioni perché il capitale possa essere la fonte
principale di produzione della ricchezza del Paese. Ecco quindi che,
come abbiamo visto, il lavoro e lo Stato rappresentano oggi dei costi,
e la loro minimizzazione diviene una finalità logica. Ed ecco anche
perché lo Stato e il lavoro, non sono più un bene comune, e nostra
Repubblica non è più fondata sul lavoro. In passato i mezzi per la gestione del bene comune erano tre: il primo,
importantissimo, era l’imposta redistributiva, popolarmente detta la
tassa, che aveva la funzione di allocare le risorse in maniera
distributiva. Ora invece in funzione di cosa si prende la decisione
politica di allocare fondi (provenienti dalla riscossione delle
imposte) per esempio per la scuola? In funzione dell’efficacia. Oggi
adottiamo un sistema di gestione dell’economia dello Stato, volto ad
assicurare l’efficacia dell’allocazione di capitale. E più
l’allocazione è efficace rispetto al rendimento del capitale, più
affermiamo che i risultati migliorano e quindi che l’economia è
perfetta. Non era così fino a non molto tempo fa, quando, per ciò
che atteneva alle tasse, sostenevamo il principio che la fiscalità
serviva a ridistribuire la ricchezza prodotta in funzione dei bisogni,
del conseguimento del bene comune e del diritto di tutti a fruirne in
un contesto condiviso. Possiamo pertanto dire che la funzione
allocativa attuale è finalizzata al rendimento efficace del capitale,
mentre prima, la funzione allocativa era più orientata alla
distribuzione. Ecco perché allora le tasse erano importanti e perché
grazie ad esse siamo stati capaci di costruire le società del welfare. Con le tasse si valorizzava il capitale sociale comune; erano le tasse
che permettevano di fare un investimento comune. Ora che si afferma
che il capitale è la principale fonte di creazione della ricchezza,
si accetta anche che l’investimento privato sia l’unico motore
dello sviluppo economico e sociale, con riferimento tanto alla città
quanto alla regione e all’intero Paese. Conseguentemente
consideriamo che l’investimento pubblico non è più causa o motore
dello sviluppo di un Paese: anzi, questo tipo di investimento, dovendo
trovare nella tassazione la propria fonte di finanziamento, finisce
per essere visto come un elemento che compromette l’allocazione
efficace del capitale, garantita invece dall’investimento privato. Ecco che si pensa allora ad attirare l’investimento privato ed ecco
anche il motivo per cui si creano i “paradisi fiscali” e si
approvano normative volte all’alleggerimento delle imposte. Ecco
perché, negli ultimi quindici anni, solo i partiti politici che hanno
promesso di ridurre le tasse hanno vinto le competizioni elettorali.
Per contro non c’è, in nessun paese del mondo, partito politico
che, negli ultimi quindici anni, abbia vinto, avendo promesso di
mantenere o addirittura aumentare le tasse. Tutti i gruppi che hanno
vinto ci sono riusciti perché hanno promesso di ridurre le tasse. E
ancora in questi giorni il primo ministro francese Jospin per vincere
le elezioni sostiene che il suo non è un progetto socialista. Il
problema è che non si può conciliare il mantenimento, se non
addirittura il consolidamento, delle forme del welfare
perseguendo contemporaneamente l’obiettivo della riduzione delle
tasse. Ricordiamo che il presidente degli Stati Uniti, Bush, quattro
giorni prima dell’11 settembre, aveva detto che è eticamente
immorale imporre tasse sulle imprese private, vale a dire
sull’investimento privato, in quanto esso è la principale fonte di
ricchezza degli Stati Uniti. Il secondo mezzo di gestione del bene comune era la pianificazione. Gli
Stati, le società avevano programmi e progetti: si pensava
traguardandosi a quindici o venti anni. Ora la pianificazione a lungo
termine è fatta solo dalle imprese internazionali e dal mercato
finanziario; se ne parla in relazione alle borse e all’orientamento
dei fondi di investimento, per un valore complessivo stimato di 2.000
miliardi di dollari al giorno. Invece che sui 2.000 miliardi che circolano ogni giorno e sono
finalizzati a massimizzare i rendimenti, e la cui legittimità si
afferma e si giustifica proprio in virtù del fatto che si tratta di
2.000 miliardi, soffermiamoci sul fatto che c’è un miliardo e mezzo
di gente che non ha accesso all’acqua potabile. La statistica ci
dice che oggi moriranno 30.000 persone a causa di malattie dovute alla
mancanza di acqua potabile, e che, di queste 30.000, 12.000 sono
bambini e bambine al di sotto dei 14 anni: 12.000 bambini e bambine
sono morti ieri, muoiono oggi e moriranno domani. Dall’11 settembre
ad oggi, sono già morte 1.250.000 persone per malattie provocate
dalla mancanza di acqua. Bene: le persone che gestiscono o comunque
guardano a quei 2.000 miliardi di dollari, dopo l’11 settembre ci
hanno chiesto di osservare due minuti di silenzio per le vittime
innocenti rimaste uccise nel barbaro attacco alle Due Torri. Nessuno
di loro però ci ha chiesto di osservare due minuti di silenzio per le
30.000 persone che ogni giorno sono morte, muoiono e moriranno per
mancanza d’acqua e per le malattie che ne derivano. Allora le
vittime delle Due Torri contano qualcosa, mentre quelle 30.000 persone
non contano niente? Il terzo strumento di gestione del bene comune era la cooperazione
internazionale, o intergovernativa, perché si pensava che il mondo
dovesse essere organizzato attraverso organismi multilaterali di
cooperazione internazionale a livello intergovernativo. Tutto questo aveva dei limiti, esistevano però determinati strumenti
multilaterali. Oggi tali strumenti sono rimpiazzati dal fenomeno
bilaterale. L’entrata della Cina nell’OMC trae origine da rapporti
bilaterali tra la Cina e gli Stati Uniti. In questo contesto, qual è la sorte dell’acqua, e che cosa è
diventata l’acqua? Ci hanno detto, ad esempio, che l’acqua è come
la pioggia meteorica, non è di nessuno, almeno per ora: secondo i
mussulmani è un dono di Dio perché viene dal cielo. Nella cultura
mussulmana l’acqua non si paga. Anche da noi non si dovrebbe pagare.
Imprese specializzate come la Suez (ma anche tutte le altre)
proclamano che l’acqua in forma di pioggia, è un bene comune, come
pure lo sono i fiumi. Poi però si passa al processo di captazione e
distribuzione e tutto cambia radicalmente: l’acqua viene presentata
come un bene economico che si deve e si può vendere e comprare. Si tratta di un cambiamento di impostazione costruito su di un passaggio
insostenibile sia sul piano teorico che su quello politico e pratico.
Si comincia col dire: siccome ci sono dei costi, vuol dire che
l’acqua è diventata un bene economico, quindi deve avere un valore
economico. Ora, quando parliamo di valore economico, cosa
intendiamo dire? A che cosa stiamo facendo riferimento? A
un’economia di solidarietà? A un’economia socialista? A
un’economia come quella che si potrebbe attuare in un convento
chiuso al mondo, dove la gente che vi abita mette in comune le
risorse, cioè condivide? In realtà, richiamando il concetto
di valore economico, tutti noi generalmente pensiamo a quel che si
definisce un’economia capitalistica di mercato. Così leggiamo sui
giornali e nei libri che ogni bene che ha un costo, è implicito che
debba avere un valore economico, e precisamente il valore che a tale
bene viene attribuito dal mercato: quindi deve avere un prezzo di
mercato, cioè il prezzo risultante dall’incontro dell’offerta e
della domanda. E questo è il prezzo giusto per il mercato:
quello che permette di coprire i costi, tenuto conto del costo totale
di produzione, del costo di investimento, del costo del rischio, del
rendimento dell’investimento come pure delle tasse. Ricordiamo che attualmente nel settore dell’acqua, il tasso di
rendimento corrente dei servizi di distribuzione dell’acqua è del
15%. Ciò equivale a dire che oggi, per ottenere un valore economico
ed un prezzo giusto di mercato, bisogna fissare un prezzo che permetta
al capitale investito in questo servizio, di aver il 15% di rendimento
netto sull’investimento. Il tasso di rendimento corrente del servizio di depurazione delle acque
reflue è pari al 20%. Nessun portatore di capitale privato investe
oggi nella depurazione delle acque reflue se non guadagna almeno il
20% come ritorno medio del suo investimento. E questo ritorno è
confermato dalla media mondiale del business
di settore. Ci chiediamo allora: chi fissa questa media mondiale? La risposta è
lapidaria: il mercato libero. Ma chi è il libero mercato? Sono Suez e
Vivendi. Sono dunque queste due grandissime imprese che hanno
stabilito che per essere nella norma ed avere un prezzo di mercato
giusto per l’acqua bisogna ricavare il 15% di rendimento dagli
investimenti del settore dei servizi dell’acqua. Qui però c’è
una mistificazione. Dove? E’ nel pensare che siccome c’è un
costo, conseguentemente deve esserci un prezzo. Ma chi ha detto che
questa sia una regola ineluttabile? Chi può affermare: “c’è un
costo, quindi c’è un prezzo”? Pensiamo al verbo “amare”. Quando si ama si sopportano dei costi, ma
da qui a dire che esista quindi un prezzo di mercato ci corre, e
tanto… Se qualcuno facesse un ragionamento del genere, verrebbe da
sorridere (o forse irritarsi). E pensiamo anche ad un Comune che
decida di aprire una scuola elementare: questa decisione ha un costo,
ma il Comune non riverserà questo costo nel prezzo dell’offerta
scolastica, chiedendo ai genitori degli scolari di pagare una quota
che rispecchi l’ammortamento e il rendimento finanziario
dell’investimento (cioè il presunto prezzo di mercato della
scuola). Dunque quando c’è un costo, non necessariamente deve
esserci un prezzo di mercato. E’ vero che un investimento
“pubblico” si può finanziare attraverso i prezzi di mercato, ma
è anche vero che può essere finanziato attraverso la spesa pubblica.
Ecco perché una scuola viene finanziata con le risorse reperibili nel
bilancio comunale, e la scuola così finanziata non si sostiene con i
proventi di un teorico prezzo di mercato. La copertura si realizza
attraverso il gettito tributario, e in ultima analisi chi decide è il
contribuente, che attraverso i sistemi di rappresentanza dei cittadini
dice: “sì, voglio versare queste tasse al Comune affinché abbia
appropriate disponibilità cumulate, da utilizzare in conformità a
quanto si è deciso insieme, e cioè aprire una scuola, il cui costo
sarà ripartito in rapporto ai cittadini contribuenti e sarà
finanziato attraverso le tasse che io stesso e gli altri cittadini
abbiamo stabilito di imporre”. Allora, se la scelta è questa, il fatto di averci convinto che ad un
costo deve necessariamente corrispondere un prezzo di mercato, non è
altro che un’imposizione intellettuale, politica e sociale da parte
di coloro che oggi sostengono e pretendono il nostro consenso su
questo assioma. In questo quadro l’acqua cessa di essere un bene
comune, quand’anche in precedenza fosse stata così considerata, e
diventa un bene economico. Ecco perché, quando non molto tempo fa si sono incontrati all’Aja ben
118 governi, riuniti nel secondo Forum Mondiale dell’Acqua, si sono
rifiutati di riconoscere che proprio l’acqua è un bene comune e un
patrimonio per l’umanità. Hanno detto: “No, l’acqua è un bene
economico”; e il rappresentante italiano ha affermato che la
definizione di cosa fosse l’acqua non era poi tanto importante,
visto che gli accordi su di essa si fanno comunque altrove. Il governo
italiano ha firmato. L’acqua ormai non può più essere vista come
un bene comune, va trattata come un bene economico. Resta il fatto che
gli stessi governi che hanno sottoscritto un documento che dichiara
che l’acqua va considerata un bene economico, negandole la
qualificazione di bene comune e di patrimonio dell’umanità, hanno
detto che l’accesso all’acqua non deve essere considerato un
diritto collettivo umano, sociale e individuale, ma un bisogno vitale.
Ma c’è una grande differenza fra bene comune, diritto e bisogno. Un
diritto è attribuito alla persona in modo originario e quindi le
appartiene in quanto essa esiste, e nessuno deve autorizzare nulla,
né deve farle credito, perché in quanto persona quel soggetto esiste
e basta, ed ha i propri diritti innegabili ed inalienabili. Non c’è
governo, né parlamento, né papa, né presidente di qualsivoglia
istituzione che possa interferire, né occorre un qualsiasi
riconoscimento da parte di un mercato finanziario mondiale. La persona
ha il suo diritto e basta. Facciamo un esempio. Molti hanno in casa un gattino e gli danno
regolarmente da bere, altrimenti morirebbe. Questi gattini non sono
sindacalizzati, non si riuniscono in gruppi di rivendicazione del loro
diritto. E’ chiaro: diritto all’acqua vuol dire diritto
all’acqua. Così l’acqua viene data a questi animali perché si sa
che altrimenti morirebbero. Anche per i sei miliardi di abitanti del
nostro pianeta è la stessa cosa. Ne hanno diritto, tutti abbiamo
diritto alla vita, e non dobbiamo dimostrare alcunché. Invece il bisogno è diverso, il bisogno varia: intanto ci sono soggetti
diversi, come chi è di corporatura massiccia e chi è magro. Chi è
sportivo e chi no, chi è vecchio e chi è un bambino; inoltre il
bisogno va affermato e difeso da ciascuno di noi, mentre l’accesso
al diritto è responsabilità della collettività, l’accesso alla
soddisfazione di un bisogno è legato alla
responsabilità personale: innanzi tutto, in linea di
principio, devi provvedervi tu stesso. I bisogni sono differenti, non
è possibile stabilire a priori delle regole universali. Qui potremmo ricordare gli operatori della soft law, dei quali abbiamo parlato prima, che scavalcano la hard
law: ciascuno ha il proprio bisogno e agisce come può e
come vuole per soddisfarlo, ma sostanzialmente, se si vuole soddisfare
un bisogno, si deve pagare. Voglio avere cento litri di acqua al
giorno? Bene, non posso dire di avere diritto a cento litri, questo è
il mio bisogno, ma se consumo cento litri devo pagare questo consumo.
Proseguendo su questa linea si enuncia quindi il principio che il
consumo si paga, e che chi inquina, paga: principi orribili, principi
assolutamente inconcludenti e controproducenti. Non si può dire che
se paghi puoi consumare quanto vuoi. Se c’è una realtà che
stabilisce che non devi consumare oltre un certo limite, non è
possibile superare questo limite pagando una cifra anche molto alta:
non è che se paghi un milione di euro puoi spingere la tua automobile
a 190 km/h. In Svizzera se superi i 140 km/h ti tolgono la patente, e
non puoi offrire al poliziotto che ti ha fermato, di pagare 10.000
franchi svizzeri, e fare un negoziato sulla base di concetti di soft law, come se si fosse tra stakeholders.
Se è un buon poliziotto ti ritira la patente e applica la hard law di sua competenza. Allo stesso modo, non è in virtù del
pagamento di una somma che puoi consumare tutta l’acqua che vuoi.
Soprattutto quando sappiamo che certi usi sono causa di inquinamento o
di distruzione che coinvolgono anche gli altri. Allora, anche pagando,
non puoi farlo, non puoi avere un consumo illimitato. Ed ecco che questo diritto cambiato in bisogno fa sì che l’acqua
diventi merce, e che, se l’acqua diventa merce, è l’accesso alla
vita che viene mercificato. Ora c’è chi non ha accesso all’acqua
perché là dove vive ce n’è poca o non ce n’è affatto, e questo
è un problema che va risolto. Allora, concretamente, cerchiamo di capire in che termini si pone questo
problema per quella parte di umanità, 1.500 milioni di persone, che
non ha accesso all’acqua, a fronte di un’agricoltura molto attiva
oggi sul nostro pianeta. Agricoltura che sta distruggendo risorse,
dato che il 70% dell’acqua dolce utilizzabile viene impiegato
proprio in questo settore, contro il 20%
utilizzato per l’industria e il 10% per il consumo
idro-potabile e usi connessi. L’attuale agricoltura è ad alta
intensità chimica, ad alta intensità energetica, ad alta intensità
di esportazione. Beve il 70% delle acque dolci del mondo e con questa
sua sete infinita le distrugge. E’ un’agricoltura che possiamo
definire di “surplus”, praticata e sviluppata non per dare
alimentazione agli uomini e alle donne, in quanto la sua funzione
primaria non è quella di fornire cibo ma di produrre per ulteriori
impieghi. Questa agricoltura produce calorie sufficienti per una
popolazione globale di sei volte superiore a quella attuale, mentre
davanti ai nostri occhi ci sono milioni e milioni di persone che
muoiono di fame. Orbene, non è un problema di distribuzione di
derrate alimentari, è un problema di produzione. Dobbiamo renderci
conto di che cosa si produce. Consideriamo l’insieme delle terre
agricole e come vengono utilizzate, anche in Africa, in America
Latina, in Asia… Il 62% delle terre coltivate serve a produrre
alimenti per l’esportazione, non ad ottenere prodotti di uso locale
per bisogni locali. La cultura attuale non risponde alla funzione di
dar da mangiare agli affamati, risponde ad un’altra finalità: si
producono beni, servizi agricoli, derrate e prodotti per destinarli ad
ulteriori trasformazioni allo scopo di aumentare il rendimento del
capitale investito. Questa è la logica del sistema. I produttori se
ne fregano completamente di sapere cosa producono e per chi producono.
Producono per noi, per i Paesi più sviluppati, e questo vale sia per
l’agricoltura in occidente sia per quella del terzo mondo. Si
produce “surplus”. Noi finanziamo il “surplus” con sussidi, un “surplus” che nel
terzo mondo è diventato d’obbligo produrre, con la conseguenza
dell’abbandono della cultura autoctona, e obbligando quei paesi a
chiedere denaro a noi, all’occidente, per finanziare le loro
attività di esportazione così indotte. Non solo: per questi prodotti
da esportazione i Paesi del terzo mondo hanno bisogno di acqua,
perché noi li induciamo a coltivare prodotti ad alto consumo
d’acqua, proprio quell’acqua che non hanno. Noi finanziamo nei
loro Paesi colture che distruggono l’acqua e loro si indebitano. L’agricoltura in questo momento è l’espressione più irragionevole,
più sconsiderata e meno sostenibile delle attività umane su questo
pianeta. Poi c’è l’acqua che consumiamo e che ci viene proposta ormai
unicamente in funzione del costume dominante: è noto che gli italiani
non bevono quasi più acqua del rubinetto a tavola; noi italiani siamo
i primi consumatori al mondo di acqua minerale in bottiglia.
Quest’acqua minerale, che ci viene presentata con moltissimi nomi e
marchi diversi, in realtà è imbottigliata, confezionata e immessa
sul mercato da imprese multinazionali come la Nestlè o la Danone: non
è dunque italiana, non è più un prodotto del capitale italiano. Con
i nostri consumi così alti, noi italiani siamo un mercato molto
interessante sia per la Nestlè che per la Danone. Per avere un’idea
del drenaggio di denaro che si realizza in questo mercato, basta
confrontare i prezzi: un litro di acqua minerale Ferrarelle costa al
dettaglio, in media, sulle 850 lire (cioè 0,439 euro), San Pellegrino
880 lire (pari a 0,454 euro) e Perrier addirittura 2.814 lire al litro
(corrispondenti a 1,453 euro, ma di quest’acqua in Italia c’è un
consumo marginale). Però l’acqua potabile che ci arriva a casa,
mediamente costa 1874 lire (0,954 euro) al metro cubo, cioè 1,8 lire
al litro. Facendo un confronto di prezzi, ci accorgiamo che gli
italiani accettano di pagare l’acqua in bottiglia circa 500 volte il
prezzo dell’acqua del rubinetto. E questo anche se l’acqua del
rubinetto è più sana e più pura dell’acqua minerale, dato che
quest’ultima non è considerata potabile dalla legislazione europea. L’acqua minerale nella normativa europea, è un’acqua speciale,
naturale, da sorgente, con alcune caratteristiche specifiche:
minerale, poco minerale, oligominerale, e così via. Deve essere
analizzata ed esporre in etichetta la quantità e il tipo di elementi
presenti, ma non è tra le acque definite “potabili”, cosicché in
quella minerale sono accettate sostanze come l’arsenico, il sodio,
il potassio e così via, in proporzioni che sono assolutamente,
rigorosamente vietate nell’acqua potabile. Inoltre, non c’è
l’obbligo di apporre in etichetta la menzione “acqua potabile”,
perché, appunto, non si tratta di acque potabili. Ad esempio, il contenuto di sodio dell’acqua può avere effetti sulla
salute di un soggetto che abbia la pressione arteriosa troppo alta.
Ecco perché molti medici raccomandano di non bere mai regolarmente la
stessa acqua minerale. Dovrebbe essere bevuta sotto controllo medico,
in quanto l’uso costante, per anni, della stessa acqua minerale può
dare luogo ad effetti indesiderati, anche se oggi insospettati. L’acqua minerale, dunque, non è più pura di quella del rubinetto
(che è soggetta a controllo specifico) e non è più sana. Ora
avviene che, nel mondo occidentale, la pubblicità delle acque
minerali sia al secondo posto dietro solo a quella delle automobili.
Si tratta però di uno scandalo perché l’acqua minerale – allo
stato di acqua sorgiva – è un bene pubblico, dello Stato e delle
Regioni, vale a dire che è di tutti i cittadini. Quest’acqua viene
imbottigliata in regime di concessione e la Regione che assegna la
concessione, riceve un corrispettivo che non raggiunge il valore di 1
lira al litro, cioè 0,00052 euro. Invece, la società che
commercializza l’acqua minerale fa pagare al consumatore finale un
prezzo medio di 0,45 euro al litro. Non solo, l’acqua viene
sigillata e trasportata in bottiglie per lo più di plastica, di PET,
il cui riciclo costa 200 lire l’unità (pari a 0,103 euro): l’80%
del totale delle acque minerali è commercializzato in PET, mentre il
restante 20% in vetro, con un riciclo che costa soltanto 50 lire
(0,026 euro). Ma chi paga questi costi di riciclaggio? Prevalentemente
l’amministrazione pubblica, cioè quella stessa entità che riceve
quei diritti di concessione così bassi di cui prima abbiamo parlato. Per concludere: quali possono essere le proposte? A mio parere occorre
che il cittadino si organizzi. Ed ecco perché, tra tante altre cose,
io ed altri abbiamo dato vita a tutta una serie di associazioni, di
comitati per il contratto dell’acqua: ci battiamo contro le
privatizzazioni dell’acqua, e riusciamo ad ottenere dei risultati.
Posso citare alcuni esempi. In Bolivia di recente, c’è stata una
rivolta politica perché il Governo voleva privatizzare la
distribuzione dell’acqua nella città di Cochabamba e la gente ha
ottenuto che questa privatizzazione non si facesse. Pochi giorni fa a New Orleans il movimento dei “public citizens”, che fa parte del Comitato Internazionale per il
Contratto dell’Acqua che io ho fondato, è riuscito ad impedire la
privatizzazione della distribuzione dell’acqua in quella città. Io stesso dieci giorni fa ero in Canada, nel New Brunswick, dove abbiamo
portato avanti una lotta politica tendente a impedire che il Comune di
una grande città, procedesse alla privatizzazione dei servizi così
come stava facendo. La nostra richiesta è stata accettata, e il 4
marzo 2002 il Consiglio Municipale ha deciso di interrompere i
negoziati fra il Comune, la città, e il sindaco che stava per fare un
contratto senza gara d’appalto e senza dibattito politico, e di
indire una
pubblica consultazione della durata di tre mesi. Ai cittadini è stato
chiesto di esprimersi attraverso un
referendum sulla privatizzazione o meno dell’acqua. Un altro esempio è la città francese di Grenoble, dove i cittadini
sono riusciti a riconquistare la gestione indiretta dei servizi
dell’acqua, fatta in economia. Sempre in Francia, in questo momento,
ci sono 44 città che stanno tentando di recuperare la gestione
indiretta. Ad Anversa il nostro comitato belga per il Contratto dell’Acqua ha
frenato e interrotto il processo in corso di privatizzazione della
distribuzione dell’acqua nella città e si sta dando da fare con
successo. In India annoveriamo alcuni esponenti politici, comeVandana Shiva, fra i
nostri associati nei comitati locali per il contratto dell’acqua e
siamo riusciti a impedire una serie di privatizzazioni nel campo della
distribuzione idrica. Questi esempi non sono stati citati a caso: voglio dire che i cittadini,
quando si organizzano, vincono, almeno nella maggior parte dei casi;
perdono invece quando restano abulici. Si vince soprattutto quando ci
si batte per degli scopi che appaiono saggi, come il rigetto della
privatizzazione, a patto che i termini della questione siano chiari
alla gente. Da questo scaturisce un altro insegnamento, che potremmo articolare in
alcuni principi: 1° principio: far conoscere tutti i trattati, tutte le
costituzioni e tutti i patti che regolano la questione dell’acqua
nei suoi termini esatti. Non c’è nessuno che conosca questo, per il
momento. 2° principio: far riconoscere e comprendere che il diritto
dell’acqua, in ragione di 50 litri al giorno per usi domestici, è
un diritto inalienabile per tutti i 6 miliardi di persone che popolano
oggi il nostro mondo, così come sarà un diritto, per quegli 8
miliardi di persone, che saranno in vita fra 20 anni. Ecco dunque che
bisogna far sì che questi 50 litri al giorno per uso idro-potabile
siano riconosciuti come un diritto e siano assunti a carico dalla
collettività. 3° principio: il finanziamento di questi 50 litri al giorno per
uso idro-potabile domestico, deve essere preso a carico della
collettività attraverso il sistema di tassazione e le altre forme di
reperimento di fondi da parte delle pubbliche istituzioni. Noi, come comitato Internazionale per il Contratto dell’Acqua,
proponiamo un’imposta a più livelli (locale, nazionale, mondiale)
sull’acqua, tipo tassa Tobin. Il diritto di 50 litri al giorno, per uso idro-potabile che va inteso
rigorosamente come legato ad ogni persona, non è a sé stante: ad
esso si accompagna un diritto ad un quantitativo di 1.700 metri cubi
l’anno pro-capite per tutti gli usi di sopravvivenza umana comprese
le colture agricole non speculative e così via. Anche questo diritto
deve essere considerato come inerente ad ogni insediamento umano e a
ciascun gruppo umano, perché questa è la quantità di acqua che
assicura il minimo vitale. Al di sotto dei 1.700 metri cubi pro-capite
all’anno, si entra in una situazione di carenza idrica e sotto i
1000 metri cubi pro-capite all’anno si parla di crisi idrica cioè
si può incominciare a morire per malattie dovute alla carenza
d’acqua. Il riconoscimento del diritto all’acqua, nelle quantità che abbiamo
detto, non è soltanto teoria: è tecnicamente possibile tanto sul
piano concettuale quanto a livello pratico. Ragioniamo un momento su quest’osservazione e soffermiamoci sui
problemi operativi e intellettuali che gravano oggi sulla democrazia e
creano serie difficoltà. Ci rendiamo conto che un parallelo
acqua-democrazia non è per nulla infondato o astratto: l’acqua
svela i grandi buchi, le lacune della nostra democrazia. Allora
vogliamo far sì che ci si rimetta in discussione, si reinventi la
nostra organizzazione civile, ci si riappropri della democrazia
rappresentativa a tutti i livelli territoriali. Possiamo riaffermare che l’acqua e gli altri servizi pubblici sono per
eccellenza oggetto di una partecipazione diretta e di un controllo di
valutazione permanente da parte dei cittadini e che la delega per la
durata di quattro anni – tipica della democrazia rappresentativa -
non è sufficiente. Continuando, dobbiamo dire che partendo
dall’acqua si scopre un problema che a mano a mano che lo si esamina
rivela sempre maggiori difficoltà e connessioni con altri aspetti
tutt’altro che secondari. Ci rendiamo conto che, partendo
dall’acqua, emerge la necessità di rivalutare la democrazia locale
e quindi salire i vari livelli della democrazia mondiale. Lo strumento
di attuazione della democrazia a questo più alto livello potrebbe
essere un Parlamento mondiale dell’acqua, una specie di autorità
sopranazionale capace di farsi carico della regolamentazione dei
problemi dell’acqua e di operare come un organo di risoluzione dei
nodi e delle controversie politiche, davanti al quale si potrebbero
portare le dispute fra paesi e gruppi di paesi. [1] Testo non rivisto dall’autore.
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