NOTIZIE DAL GRUPPO BIBLICO DELLA COMUNITA' DI S. PAOLO
Il gruppo
biblico della Comunità di S. Paolo in Roma, seguendo Il pensare
dell'apostolo Paolo sulla base dell'omonimo libro di Giuseppe
Barbaglio (I ed. EDB 2004) ha avuto occasione di soffermarsi per diverse
riunioni sui capitoli 7 e 8 della lettera ai Romani e sulla
straordinaria sintesi delle conseguenze che l’evento Cristo comportava
per l’apostolo delle genti contenuta in Gal 3,28: “Non c’è più
giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né
donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”.
Questa
particolare attenzione è stata richiesta dalla straordinaria importanza
che queste letture a nostro parere rivestono nell'attuale dibattito sul
significato e sull'uso di termini quali fede, natura, religione,
politica., pluralismo religioso.
Per chi
non avesse familiarità col testo diciamo, in estrema sintesi (e come
provocazione alla lettura) che Paolo nei testi citati (come in vari
altri delle sue lettere) vuole dimostrare che con l'avvento di Gesù la
storia dell'umanità ha subìto una svolta, o meglio una rivelazione,
decisiva e che le promesse fatte da Dio ad Abramo, di essere padre di
molti popoli e luce delle nazioni si sono realizzate.
Con
un'audacia che può sfuggire ad una lettura distratta e ripetitiva come
quella liturgica o essere strumentalizzata nelle diatribe ideologiche,
ma che lo pone tra i grandi innovatori di ogni tempo, come Socrate, Gesù
appunto, il Budda, Copernico, gli illuministi, ecc. Paolo, ebreo e
fariseo di rigorosa osservanza, archivia come superata gran parte
(quella normativa) della Torah e legge il passato in relazione al
presente in questo modo: come per colpa di un uomo (Adamo) il peccato è
entrato nel mondo, così grazie ad un altro uomo (Gesù) è stata offerta a
tutti la grazia che giustifica, come già avvenne per Abramo,
mediante la fede. Questa svolta verso la salvezza, una
prospettiva di vita che ci libera dalla tirannia della corruzione,
riguarda non solo l'umanità, ma tutto il creato che geme nel travaglio
del parto per generare una nuova armonia.
La
visione di Paolo è naturalmente religiosa e si esprime con i
termini e le immagini che aveva a disposizione. Quel che è avvenuto e
che sta avvenendo ai suoi tempi nella storia del popolo ebraico prima,
e poi di tutta l'umanità risponde per lui ad un preciso disegno divino.
Ciò che è straordinario è tuttavia che il suo pensiero rimane
formidabile anche se letto in chiave laica, a prescindere cioè dal
suddetto disegno, il che ne sottolinea il valore universale e
razionale, che nulla ha da temere nel confronto con le moderne teorie
bio-antropologiche sull'origine e sul possibile destino della nostra
specie nel contesto dell'universo.
Nell'
Adamo peccatore e introduttore del peccato nel mondo, infatti, possiamo
vedere significata la propensione egoistica e violenta dell'essere umano
(da solo o nel branco) che si esprime nel principio mors tua vita
mea; in Gesù (e in quelli come lui) ci è rivelato invece, anch'esso
quale possibilità insita nell'essere umano ma generalmente inedita, un
Amore condiviso che può migliorare la qualità della vita a
partire dall'inaudita mors mea vita tua lasciataci come esempio
dal Cristo per giungere ad un vita tua est vita mea e viceversa
che indicherebbe il superamento di ogni logica di sopraffazione.
Detto in
altri termini, l'evoluzione umana, pur con tutte le sue contraddizioni e
sconfitte, ha fatto emergere un homo sapiens sapiens capace,
unico tra tutti gli esseri viventi, di riflettere su se stesso e sui
suoi destini, e addirittura di influire, in modo positivo o negativo,
sulla sua stessa ulteriore evoluzione (ricordate l'albero della
conoscenza del bene e del male?). E' pensabile, come Paolo immagina
sull’esempio del Cristo, che la scelta di quest'essere umano sia
positiva, per un mondo migliore, e che la prossima evoluzione sia verso
un homo sapiens amans?
E qui si
innesta il richiamo a Gal 3,28. Anche da qui, partendo dalla estrema
audacia di Paolo, che in Cristo vedeva superata una divisione allora
apparentemente insuperabile tra popolo eletto e goim noi dovremmo
fare un passo avanti, facendoci interpellare come lui dai tempi e dai
contesti nuovi. L’affermazione di Gal 3,28 infatti, pur
rappresentando il massimo che l’apostolo con il suo straordinario
intuito poteva fare allora, contiene un limite agli occhi degli uomini e
delle donne di oggi: altri muri, altre divisioni religiose sono nate che
non c’erano ai suoi tempi. Lui dice che in Cristo non c’è più
alcuna divisione. Dunque, per beneficiare della salvezza che Cristo
rappresenta per noi tutti dall’eternità (cfr. per tutti
II Tim 1, 9-10) bisogna battezzarsi, farsi cristiani, aderire ad una
Chiesa, ecc? Sembra una contraddizione. Eppure, con il pensare
dell’apostolo Paolo, cioè portando avanti il suo pensiero, a noi
sembra che se ne possa uscire: se Cristo non è solo un nome, una icona,
un santino, ma quello che rappresenta, cioè l’Amore di Dio manifestato
al mondo (I Gv 4,16 e passim), allora il versetto 28 del capitolo
3° della lettera ai Galati può essere inteso così: nell’Amore non solo
non c’è più giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma
non c’é più né cattolico né protestante, né anglicano né ortodosso, né
cristiano né mussulmano, né indù né buddista, ecc… né credente né ateo,
perché uno è il mondo e uno l’Amore che lo vivifica. Sembra
un’affermazione audace, anzi estrema, eretica, viziata da quel
relativismo che l’attuale istituzione cattolica, tutte le istituzioni
religiose esclusiviste vedono come il fumo negli occhi (salvo poi darne
esempi clamorosi). Ma non erano altrettanto audaci, estreme, eretiche
le parole dell’Apostolo Paolo in Gal 3, 28 ai suoi tempi?
Con le
sue intuizioni Paolo si immette così nel vivace dibattito in corso tra
evoluzionismo e creazionismo, esclusivismo e pluralismo, vangelo e
legge, offrendo anche alla fede, che nella sua sostanza (l’Amore) resta
intatta, la possibilità di essere ragionevole, con tutti
dialogante e anche con la scienza senza complessi di superiorità o di
inferiorità e nella distinzione tra i due piani. Certo, la sfida è
quella, ardua, di capire il linguaggio delle scritture e di scoprire, se
c'è, il senso di molte figure metaforiche, di avere, per chi ci crede,
un'immagine di Dio meno antropomorfica, un Dio che non fa il tappabuchi
pur essendo all'origine della vita e della sua evoluzione e
misteriosamente partecipandovi attraverso quell'umanità che il Cristo
attraversò in modo così emblematico.
Chi
sostenesse che questo è un modo arbitrario e soggettivo di leggere la
Bibbia, dimentica la spregiudicatezza di Paolo in proposito. La lettera
di un testo è valida proprio se continua a offrire suggestioni nuove. Un
testo che non dice più nulla, come un organismo che non muta, coi tempi
è destinato a morire. La Chiesa Istituzione dopo la fine dello Stato
pontificio è stata bravissima ad adeguare la sua propensione ad invadere
di nuovo il campo temporale, come la cronaca di tutti i giorni insegna.
Come mai
non ha fatto altrettanto per adeguare il suo apparato istituzionale e
dogmatico? Semplicemente per una banale, ma potentissima questione di
potere. La sua funzione non sarebbe infatti più, oggi, quella di
mediare e di insegnare pretese verità assolute e statiche, ma di
testimoniare e favorire la nascita dell'essere e del mondo nuovo,
perdendo i suoi privilegi. e ritornando alla originaria radicalità
evangelica... Ci aveva provato Giovanni XXIII con il Concilio Vaticano
II, oggi ricordato ogni tanto a parole ma contraddetto, sminuito,
contestato nei fatti e represso in tutte le sue manifestazioni e i suoi
interpreti più avanzati.
Il
gruppo biblico della Comunità cristiana di base di S. Paolo - Roma